V. Lambert: dignità del morire e nichilismo impertinente

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Morire e nichilismo

La vicenda di Vincent Lambert, l’infermiere francese lasciato morire in Francia perché tetraplegico irreversibile, suscita la risposta al nodo ultimo delle vicende umane di chi decide tra la vita e la morte.

La tesi che sostengo è che la morte ha una sua dignità. Significa che la morte non va procurata, né da se stessi né, tanto meno, da persone terze, anche se vicine e affettuose. Con due sole eccezioni: il dolore e la solitudine insopportabili.

Il dolore lancinante, profondo, continuo procura una non vita: porta alla pazzia proprio perché interferisce con le condizioni minime di pensiero, di emozioni e di relazioni umane. La liberazione da quel dolore è doverosa, perché è già avvertimento della morte.

Per solitudine intendo il non senso della vita, derivante da mancanza di significati per continuare a vivere o più semplicemente per l’abbandono di persone vicine e care.

D’altronde, il cosiddetto testamento biologico, se ben letto, contiene queste due radici di rifiuto di cure palliative. Guardando al futuro, le persone non vogliono soffrire e non vogliono essere di peso a nessuno.

Solo Mariuccia…

In quarantacinque anni di accoglienza di persone con gravissime patologie (sla, atassie, distrofie, malattie neurologiche degenerative…) nessuno mi ha mai chiesto di staccare la spina.

Solo una donna – si chiamava Mariuccia –, diversi anni fa, già affetta da artrite reumatoide deformante, alla scoperta di un cancro, dopo aver combattuto per sconfiggerlo, mi disse: «Non sono riuscita, lasciami andare». Non mangiò, né bevve per un mese intero; aderii alla sua volontà e la lasciai andare. La sua vita era stata un calvario per cinquant’anni; aveva combattuto con tutte le sue forze. La sconfitta, con il cancro, era arrivata. Aveva diritto a dire basta al dolore.

D’altronde, con quale autorità un esterno (sia esso giudice, lo Stato, il parente) può dire sì alla morte? Si approfittano del potere che hanno, interpretando le intenzioni di chi non può esprimere la propria opinione.

Viviamo, tra l’altro, in una condizione nella quale, da una parte, si desidera la vita (con cure anche incerte), perché la persona sopravviva: si pensi ai nati prematuri, alle malattie cardiovascolari, agli incidenti traumatici e, dall’altra, quando l’interessato non può esprimersi e sta in gravissime difficoltà, qualcuno si arroga il diritto di dire no.

L’impegno di ogni società evoluta è la tutela della vita: sempre e comunque. Gli esempi sono infiniti. Madri e padri che hanno accettato figli e figlie con grave disabilità e trascorrono la loro vita, coinvolgendo fratelli e sorelle, chiedendo sicurezza, quando loro non ci saranno più, nonostante la certezza della non guarigione. Servizi sanitari e sociali, con altissimi carichi assistenziali, per tutelare le briciole di vita residue. È la sfida della sopravvivenza che non vale solo per i forti, ma diventa doverosa per i deboli.

Delega al diritto?

Se non suonasse irrituale, si può parlare della salvaguardia del creato. La tutela della vivibilità vale per tutti gli esseri viventi. Nel tempo, quando la scienza e il progresso non erano in grado, la selezione naturale sceglieva i forti: nei nostri registri parrocchiali del secolo scorso i morti erano bambini o vecchi. Oggi la situazione, fortunatamente è cambiata. La vita si è allungata, anche se il progresso ha prodotto altre ferite, nel passato inesistenti (si pensi agli incidenti stradali). Non è possibile fare eccezioni: né per patologie, né per età.

È da combattere il nichilismo imperante che concentra nell’opinione personale l’ultimo giudizio su ogni questione, anche importante e per di più inappellabile; gli esempi si stanno moltiplicando, perché rendono diritto ogni opinione. Né la comunità, nel suo insieme, può resistere a una tale frantumazione.

La tutela della propria identità non può essere solista, anche perché bisognerebbe essere onnipotenti per non dover ricorrere all’aiuto di nessuno.

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