Con quale diritto mi salvi?

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Riflessioni a margine della sentenza della Consulta sulla non punibilità dell’assistenza al suicidio. Il compito della Chiesa nel dibattito civile del paese.

Tommaso Corsi è il protagonista di una novella di Luigi Pirandello dal titolo Il dovere del medico, scritta nel 1911 e rappresentata due anni dopo. Il giovane borghese benestante è rimasto ferito dopo uno scontro a fuoco con il marito della sua amante, caduto sotto i colpi di Corsi. A prendersi cura di lui il dottor Vocalopulo. Nella fitta trama dei paradossi pirandelliani, Tommaso decide di suicidarsi, ma il medico che lo ha in cura, ancora una volta, lo salva. Al termine della novella il protagonista esclama: «Mi ero ucciso. Viene lui. Mi salva. Con quale diritto gli domando io ora?».

Fine vita

Le rocambolesche vicende della novella pirandelliana ci offrono uno spunto per affrontare un tema che, in questi giorni, sta infiammando il dibattito pubblico.

In data 25 settembre, infatti, la Corte costituzionale, riunitasi per esaminare le questioni sollevate dalla Corte d’Assise di Milano sull’articolo 580 del Codice penale, ha ritenuto non punibile, a determinate condizioni, «chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». La Corte, che aveva già richiesto un intervento del legislatore quasi un anno fa, auspica che il Parlamento prenda in considerazione la necessità di legiferare su un tema così caldo.

Tutto inizia con la triste storia di un DJ

Era una serata d’inizio estate del 2014 quando Fabiano Antoniani, in arte Dj Fabo, rientrando da una serata, restava coinvolto in un brutto incidente stradale. Dopo un anno di interventi e ricoveri arriva la prognosi irreversibile: il giovane resterà cieco e totalmente paralizzato.

Da qui l’inizio di una lunga battaglia per porre fine alle sue sofferenze e a una vita che il giovane – e chi gli sta attorno – non ritiene più “degna” di essere vissuta. Sarà la fidanzata Valeria che, insieme a Marco Cappato, darà voce e pubblicità alla vicenda di Antoniani fino all’epilogo, avvenuto il 27 febbraio 2017, presso l’Associazione Dignitas di Zurigo dove si pratica l’assistenza al suicidio. L’esistenza di Dj Fabo si conclude con un morso: un tasto inserito nella sua bocca aziona l’iniezione di un farmaco che, in poco tempo, lo conduce alla morte.

Cappato, che aveva aiutato il giovane a raggiungere la Svizzera, il giorno dopo la sua morte, si autodenuncia e viene indagato a Milano per “aiuto al suicidio”. La Procura chiede l’assoluzione. Il giudice dispone l’imputazione coatta. La sentenza rimanda tutto alla Consulta che, appellandosi al Parlamento, ne richiede l’intervento entro un anno, ma la richiesta resta inadempiuta. Nel frattempo si avvicendano diversi pareri, volti a sollecitare il legislatore a una presa di posizione.

Le prime fasi del dibattito

Il 18 luglio scorso, il Comitato Nazionale di Bioetica offre delle Riflessioni sul suicidio medicalmente assistito. Pur facendo emergere posizioni divergenti, il Comitato è pervenuto ad alcune raccomandazioni condivise:

  • «auspicando innanzi tutto che in qualunque sede avvenga – ivi compresa quella parlamentare – il dibattito sull’aiuto medicalizzato al suicidio si sviluppi nel pieno rispetto di tutte le opinioni al riguardo, ma anche con la dovuta attenzione alle problematiche morali, deontologiche e giuridiche costituzionali che esso solleva e col dovuto approfondimento che esige una tematica così lacerante per la coscienza umana»;
  • raccomandando l’«impegno di fornire cure adeguate ai malati inguaribili in condizione di sofferenza»;
  • valorizzando le pratiche del consenso informato;
  • ritenendo indispensabile «implementare l’informazione da parte dei cittadini e l’aggiornamento dei professionisti della sanità delle disposizioni normative»;
  • auspicando un’ampia partecipazione dei cittadini al dibattito etico e giuridico;
  • e, infine, sollecitando un adeguato impegno nella ricerca scientifica biomedica.

Anche il presidente della CEI, il Card. Gualtiero Bassetti, intervenendo l’11 settembre scorso all’evento pubblico sul tema Eutanasia e suicidio assistito. Quale dignità della morte e del morire?, ha ribadito con fermezza il valore primario della vita umana: «Vivere è un dovere, anche per chi è malato e sofferente. Mi rendo conto che questo pensiero ad alcuni sembrerà incomprensibile o addirittura violento. Eppure, porta molta consolazione il riconoscere che la vita, più che un nostro possesso, è un dono che abbiamo ricevuto e dobbiamo condividere, senza buttarlo, perché restiamo debitori agli altri dell’amore che dobbiamo loro e di cui hanno bisogno». Ha, inoltre, messo in guardia da una visione utilitarista dell’esistenza umana, portatrice di un atteggiamento cinico e economicista, richiedendo un intervento del Parlamento e richiamando i cattolici alla solidarietà e alla testimonianza.

Per un rinnovato approccio ai temi del fine vita

In attesa di conoscere quale sarà la risposta del Parlamento a tutte queste sollecitazioni e alla sentenza della Corte costituzionale – ritenendo improbabile che il legislatore possa ignorare del tutto tale sentenza – ci sembra utile porre alcune precisazioni e indicare alcune vie di riflessione etica.

Spesso si utilizzano i termini eutanasia e suicidio assistito in modo analogo. Per alcuni, infatti, la differenza tra il procurare la morte a un malato terminale che la richiede per indicibili sofferenze attraverso la somministrazione di un farmaco letale e il dare allo stesso gli strumenti per poterlo fare in prima persona sarebbe solo una sibillina questione filosofica. Altri invece ribadiscono con vigore la differenza tra il suicidio assistito che rimane un atto della persona stessa e l’eutanasia che invece consiste nell’intervento di un terzo che causa direttamente la morte altrui.

Fine Vita

Nell’ordinamento giuridico italiano è assente una disciplina che regolamenti entrambe le pratiche. Ciò che la Consulta ha fatto non è stato aprire la possibilità queste forme di “dolce morte”, ma giudicare non punibile chi aiuta coloro che hanno deciso di morire, trovandosi in situazioni abbastanza circoscritte. Deve trattarsi, infatti, di persone con una malattia irreversibile, tenute in vita da trattamenti medici di sostegno, afflitte da sofferenze gravi sia di natura fisica che di natura psicologica e che sono del tutto consapevoli di decidere liberamente. Nessun via libera all’eutanasia.

Sembrano pertanto privi di fondamento sia l’esultanza di chi ha attribuito alla sentenza il merito di aver conferito maggiore libertà nel “decidere della propria morte”, sia lo sconcerto e la promessa di battaglie in nome del principio di sacralità della vita di matrice cattolica.

Riteniamo che la riflessione etica, abbandonando una volta per tutte la sterile contrapposizione tra laici e cattolici, spesso irrigiditi sulle proprie posizioni e restii a un dialogo fruttuoso, dovrebbe tener conto di alcune importanti questioni.

Il valore dell’autonomia

Per alcuni, la sentenza della Corte costituzionale sembrerebbe propendere per una visione forte dell’autonomia del paziente e non rispetterebbe la dignità inviolabile di ogni vita umana.

Occorre, tuttavia, precisare che la sentenza non apre alla legalizzazione dell’eutanasia o del suicidio assistito, ma tende a depenalizzare chi aiuta il paziente terminale (nelle condizioni sopra citate) determinato a darsi la morte. Ci aiuta, in questa distinzione, un’affermazione del Card. Martini, contenuta nel suo ultimo libro Credere e conoscere: «Non si può mai approvare il gesto di chi induce la morte di altri, in particolare se si tratta di un medico. E tuttavia non me la sentirei di condannare le persone che compiono un simile gesto su richiesta di un ammalato ridotto agli estremi e per puro sentimento di altruismo, come pure quelli che, in condizioni fisiche e psichiche disastrose, lo chiedono per sé».

Fine vitaLe parole dell’ex Arcivescovo di Milano ci aiutano a capire che un conto è assecondare una cattiva prassi che vorrebbe aprire acriticamente alla legalizzazione di eutanasia e suicidio assistito, diverso è astenersi dal punire come fosse un istigatore al suicidio, chi si limita a chiedere, in coscienza, di interrompere la propria vita perché non può più sopportare le atroci sofferenze della sua condizione patologica. Depenalizzare non vuol dire legalizzare, né tanto meno approvare moralmente; quanto riconoscere la situazione limite di cui si tratta!

Il rispetto della dignità della persona umana, come ci ricorda lo stesso Concilio, passa attraverso il rispetto di quella coscienza morale che ne costituisce il cuore, «il nucleo più segreto, il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità» (GS, n. 16). Talvolta questa coscienza può errare, non riconoscere o non comprendere alcune norme della legge morale. Ma anche quando ciò accade, essa non perde la sua dignità.

Come sosteneva su questo blog Paolo Gamberini, citando Teilhard de Chardin e Rahner: «Dio fa sì che il mondo – e quindi l’uomo – si faccia. La determinazione consapevole e libera di sé è il modo più umano con cui la creatura risponde al dono che Dio gli fa della vita. Questa è la volontà di Dio per l’uomo: quella di determinare consapevolmente e liberamente se stesso, senza delegare a una macchina o a un deus ex machina se stesso».

Se, da parte cattolica, questo è vero nel momento in cui si rivendica l’obiezione di coscienza da parte del medico e del personale sanitario, perché tale esercizio di coscienza non dovrebbe essere lecito per e nei confronti di quelle persone provate dalla sofferenza che non si riconoscono nella norma morale o non si rifanno alla morale cristiana? Uno Stato laico a-confessionale deve rispettare allo stesso modo le coscienze libere e (in)formate di tutti i cittadini senza distinzioni, pur potendo determinare le condizioni di esercizio della libertà perché non venga compromesso il bene comune, del quale la cura della salute e protezione della vita fragile sono componenti imprescindibili.

La testimonianza di un cristianesimo minoritario

È un dato di fatto che spesso le parole della gerarchia ecclesiastica o degli stessi teologi stentano a far breccia nel cuore dei credenti, portando a un progressivo distacco dei fedeli dagli insegnamenti morali della Chiesa. Una «morale fredda da scrivania» – ricorda papa Francesco – (AL, n. 312) che, ancorata a rigidi schemi deduttivi, finisce per non lasciare spazio alla maturazione della coscienza credente mediante dinamici processi di discernimento.

Tutto ciò non significa venir meno agli insegnamenti della tradizione morale cristiana e del magistero, né, tantomeno “annacquare” tale messaggio per essere più “popolari” o vicini alla gente.

Le parole di papa Francesco alla Federazione Nazionale dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri ribadiscono l’importanza del valore della vita umana nella teologia morale cattolica: «Si può e si deve respingere la tentazione – indotta anche da mutamenti legislativi – di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l’eutanasia».

Fine vitaResta, tuttavia, una parte consistente dei cittadini italiani che non si riconosce per nulla o in parte in queste parole. Non è forse compito dello Stato laico accogliere anche queste istanze cercando, con l’intervento del Parlamento, di emanare leggi che possano mediare tra le diverse anime della società?

E quando le leggi non corrispondono ai dettami della legge morale cristiana – oltre all’obiezione di coscienza – cosa dovrebbero fare i fedeli in Cristo?

In un’epoca in cui il cristianesimo rischia di diventare minoranza nel Paese, potrebbero essere due le scelte operative della comunità ecclesiale. Anzitutto incrementare la formazione morale di tutti coloro che si riconoscono nella proposta evangelica, divulgando una cultura di amore alla vita dal suo sorgere al suo tramonto naturale, valorizzando la prossimità concreta con la carne sofferente di tanti uomini e donne che hanno difficoltà a dare senso al dolore e alla malattia, necessitando un accompagnamento umano, cristiano e professionale all’altezza della situazione.

Restano un faro le parole di papa Francesco alla Pontificia Accademia per la Vita: «La dimensione personale e relazionale della vita – e del morire stesso, che è pur sempre un momento estremo del vivere – deve avere, nella cura e nell’accompagnamento del malato, uno spazio adeguato alla dignità dell’essere umano. In questo percorso la persona malata riveste il ruolo principale. […] È un discernimento non facile nell’odierna attività medica, in cui la relazione terapeutica si fa sempre più frammentata e l’atto medico deve assumere molteplici mediazioni, richieste dal contesto tecnologico e organizzativo».

In secondo luogo, un gesto davvero profetico della Chiesa italiana potrebbe essere quello di investire economicamente nella ricerca sulle cure palliative e nella pratica della terapia del dolore, fondando e mantenendo strutture di Hospices cristianamente ispirate. Infatti, le richieste di eutanasia e suicidio spesso giungono per le condizioni precarie in cui versa il malato terminale e per le sofferenze atroci a cui è sottoposto. Un’adeguata attività di accompagnamento dei malati e delle loro famiglie, la promozione della terapia del dolore e la diffusione di strutture sanitarie adeguate ad umanizzare l’ultimo penoso tratto dell’esistenza, costituiscono la più forte prevenzione all’insorgere di queste tragiche richieste e manifestano il modo concreto con cui i discepoli di Cristo si fanno promotori e testimoni della vita, non con sterili contrapposizioni polemiche, ma «con i fatti e nella verità» (1Gv 3,18).

Roberto Massaro è docente di Teologia morale sessuale e bioetica presso la Facoltà Teologica Pugliese.

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Un commento

  1. Giampaolo Centofanti 30 settembre 2019

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