Il diritto di salvataggio in mare

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«L’approccio di alcune ONG trova una naturale convergenza con gli interessi degli scafisti»: l’ha forse detto uno dei soliti odiatori da tastiera che ce l’hanno a morte con i migranti? No, l’ha detto la nostra Presidente del Consiglio in una intervista al Corriere della Sera del 29 novembre scorso.

Così, mentre in Germania il Parlamento stanzia finanziamenti in favore delle ONG e Olaf Sholtz dichiara il sostegno del Governo all’azione umanitaria, in Italia prosegue, avallata addirittura dalla Presidente, l’opera di demonizzazione, per di più con utilizzo di espressioni ambigue, tipiche di chi getta il sasso nascondendo la mano: non si dice “connivenza” tra scafisti e ONG per non incorrere nel reato di diffamazione, ma “naturale convergenza di interessi”, come se l’interesse di chi salva vite in pericolo potesse essere convergente con  quello di chi quelle vite le usa per arricchirsi.

E, siccome l’opera di demonizzazione si ammanta in continuazione di presunte argomentazioni giuridiche gettate in pasto ai talk show e raramente verificate dai giornalisti, proviamo a fare il punto della situazione e a discernere cosa c’è di vero e di falso nel reciproco rimpallo di accuse sulla violazione della legge. Ciò, sia detto subito, senza alcuna pretesa di salire in cattedra in una materia certamente complessa.

Il diritto internazionale

Primo. L’obbligo di soccorrere in mare le persone in pericolo (e tali sono sicuramente coloro che viaggiano dai paesi del nord Africa nelle condizioni attestate da migliaia di filmati) fa parte del cosiddetto “diritto internazionale consuetudinario”, cioè di quelle norme consolidatesi nei secoli e infine formalizzate in alcune convenzioni internazionali: le più note sono la Convenzione SAR (Amburgo, 27.4.1979, modificata nel 2004) e la Convenzione ONU sul diritto del mare (Montego Bay, 10.12.1982).

Tale obbligo grava sia sui soggetti pubblici che privati e deve essere adempiuto «senza tener conto della nazionalità e dello statuto» della persona in pericolo «né delle circostanze nelle quali è stata trovata» (punto 2.1.10 Conv. SAR): dunque, il motivo per cui una persona si è messa in viaggio, sia esso di protezione, sia economico o persino di piacere è del tutto irrilevante ai fini dell’obbligo di soccorso.

Si comprende, quindi, subito che la distinzione, tanto in uso nel dibattitto, tra “migranti economici” e “richiedenti asilo”, già discutibile sul piano dell’umanità e della ragione, perde qualsiasi rilievo giuridico sino a che la persona è in mare ed è in situazione di pericolo: sino a che è in tale situazione, va salvata e basta. Del resto, si discute a terra.

Secondo.  L’obbligo di soccorso comporta l’obbligo di approdare nel porto più vicino, ove non siano rimessi in pericolo i diritti fondamentali delle persone salvate: dunque, occorre che «i sopravvissuti assistiti siano sbarcati dalla nave che presta assistenza e portati in un luogo di sicurezza. In questi casi, le Parti interessate dovranno organizzare lo sbarco non appena ragionevolmente possibile» (Conv. SAR, punto 3.1.9).

Per i salvataggi effettuati nel Mediterraneo centrale, il porto dove è possibile organizzare lo sbarco il prima possibile è ovviamente l’Italia: il fatto che Malta, talora più vicina al luogo di salvataggio, sia spesso inadempiente agli obblighi imposti dalla Convenzione (anche se – va riconosciuto – ha un carico di richiedenti asilo proporzionalmente molto più alto di quello dell’Italia) non legittima certo ulteriori inadempienze da parte del nostro Paese.

Verso dove?

Questa regola si salda con l’altra, secondo cui l’indicazione del porto sicuro spetta al cosiddetto MRCC (Maritime Rescue Coordination Center) che ha assunto il coordinamento delle operazioni di salvataggio.

Ebbene, nel dibattito pubblico,  il Ministro dell’Interno – dopo che, per giorni, politici di ogni livello si erano affannati a dichiarare che «le ONG non operano nel rispetto della legge» senza mai riuscire a indicare quale fosse la legge violata – ha avanzato la tesi che la  norma violata fosse appunto quella che impone alla nave soccorritrice di attenersi alle indicazioni del MRCC che ha assunto il coordinamento dei soccorsi: ma, perché tale obbligo valga, occorre che qualche MRCC si faccia avanti; se tutti tacciono, il Comandante ha l’obbligo giuridico di sbarcare comunque le persone salvate in un porto sicuro.

E le navi delle ONG – come ha dimostrato nel caso Sea Watch/Catania il capomissione, smentendo, documenti alla mano, il ministro Piantedosi – interpellano sempre tutti i MRCC che possono essere coinvolti, decidendo poi autonomamente dove dirigersi solo quando non giunge alcuna risposta da nessuno di essi in un tempo ragionevole.

Sorge qui, subito, una domanda: se il primo Stato che si dichiara disponibile al coordinamento dei soccorsi è la Libia, il comandante è tenuto a portare i salvati in Libia? Certamente no, perché la riconsegna (sia che avvenga sulla costa, sia che avvenga in mare aperto a una di quelle motovedette finanziate dall’Europa) avverrebbe in un luogo che non garantisce la sicurezza delle persone salvate e la tutela dei loro diritti fondamentali.

Lo attestano i numerosi documenti dell’ONU, anche recentissimi, sulla condizione dei migranti in Libia, ma – molto più semplicemente – lo attesta la decisione della Cassazione sul famoso caso Rachete: decisione della quale, incredibilmente, si parla troppo poco quando vicende analoghe si ripetono.

In quel caso  la Cassazione, confermando l’illegittimità dell’arresto operato con grande clamore alla discesa dalla nave,  ha affermato che, nel rifiutarsi di riportare in Libia i naufraghi e nel farsi largo “a spinta” nel porto italiano,  la capitana aveva «assolto un dovere» (il dovere, appunto, di garantire lo sbarco alle persone soccorse) e non poteva quindi essere né arrestata,  né processata: ed è cosi irrilevante per la nostra coscienza civile che oggi si vogliano reiterare nei confronti delle navi ONG quegli stessi ordini  che la Cassazione ha ritenuto illegittimi ?

Tutti a terra

Terzo. Una volta che una nave abbia fatto approdo in un porto italiano, tutti i salvati, indipendentemente da qualsiasi condizione personale e da qualsiasi accordo di ridistribuzione, debbono essere sbarcati e la loro condizione deve essere esaminata individualmente per capire se intendono chiedere protezione o se hanno altro titolo a restare sul territorio nazionale.

Ogni scelta diversa costituisce respingimento collettivo vietato dall’art. 4, protocollo 4 della Convenzione Europea per i diritti dell’Uomo (CEDU). Nell’unico caso in cui si è potuto dimostrare che l’Italia (presidente Berlusconi) aveva cooperato alla riconsegna collettiva di migranti in Libia, siamo stati condannati – tutti noi italiani – dalla Corte di Strasburgo a risarcire agli interessati il danno per averli esposti a trattamenti inumani e degradanti (sentenza CEDU Hirsi 23.2.2012): e – è il caso di ripetere la domanda –  è davvero così irrilevante, per la nostra coscienza civile, finire nuovamente sotto processo per aver violato “i diritti dell’uomo”?

Quarto. Nessuna norma prevede quindi che, dopo un’operazione di salvataggio, la nave debba sbarcare i sopravvissuti nello Stato di cui ha la bandiera;  e nessuna norma prevede che la domanda di protezione possa o debba essere presentata sulla nave in modo da  radicare nello Stato di bandiera la competenza all’esame della domanda e il conseguente obbligo di “gestire” il richiedente nel tempo necessario a tale esame: non a caso, i politici che vanno sbandierando questa soluzione non riescono a indicare una norma di riferimento. Non solo: l’art. 26 Dlgs 25/2008 prevede che «la domanda di asilo è presentata all’ufficio di polizia di frontiera ovvero alla questura competente per il luogo di dimora».

È peraltro ovvio che, non potendo lo Stato italiano stabilire cosa deve fare il comandante, ad esempio, di una nave tedesca o spagnola o francese, se si volesse introdurre una competenza di questo genere, ciò potrebbe avvenire solo per accordo a livello dell’Unione: e tale accordo oggi non c’è.

Domanda di protezione

Quinto e ultimo. Nessuna norma prevede che la domanda di protezione debba (o possa) essere presentata nello stato di provenienza onde far entrare le persone solo dopo che si è già accertato il loro diritto di protezione.

Certo sarebbe bello – come i nostri governanti meno astiosi ora vagheggiano – sciogliere il legame che oggi appare inscindibile tra obbligo di protezione degli Stati e ingresso senza un titolo di soggiorno già accertato; sarebbe cioè bello che bussassero ordinatamente alle porte solo le persone di cui già si è accertato il diritto di protezione.

Ma è incredibile come questa tesi possa essere considerata seriamente nel dibattito pubblico senza notarne l’intrinseca contraddittorietà: come potrebbe chi fugge da un Paese pensare che proprio in quel Paese si possa instaurare una procedura dignitosa di esame della sua domanda di protezione?

E se l’idea è di presentarla in un “pacificato” Paese vicino, davvero possiamo pensare di riversare l’onere della gestione delle domande e delle persone su Paesi già stremati – 2 milioni di profughi in Libano, altro che i nostri centomila!! –  se anche fossero in grado di farlo?

In futuro, chissà, tutto può accadere, ma oggi certamente non può accadere. E le persone sono in mare oggi. Oggi è il tempo di salvare.

  • Alberto Guariso, Professore incaricato all’Università di Brescia, è membro della Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) e Avvocato dell’Osservatorio contro le discriminazioni istituzionali.
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