Incostituzionale la legge lombarda sui luoghi di culto

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Il 24 febbraio scorso la Corte costituzionale, con decisione unanime, ha dichiarato l’illegittimità della legge regionale lombarda che, poco più di un anno fa, aveva introdotto nuovi «principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi», vale a dire nuove misure per impedire la costruzione di luoghi di culto musulmano.

Il cammino della legge era apparso da subito piuttosto accidentato. Non solo essa aveva sollevato da più parti forti dubbi sulla sua costituzionalità ma, fin da subito, essa si era scontrata con la ferma opposizione del Governo centrale che, preoccupato per lo sconfinamento in aree fuori dalla competenza del legislatore regionale (la sicurezza), non aveva esitato a sollevare la questione di costituzionalità sulla normativa.

Ragioni della bocciatura

Non si conoscono ancora le motivazioni della sentenza ma le ragioni per dichiarare incostituzionale la legge lombarda non mancano e non si limitano alla sola questione del riparto di competenze tra centro e periferie in materia di sicurezza. La legge regionale, infatti, con lo scopo di impedire o dilazionare l’apertura di luoghi di culto per i fedeli musulmani finiva per degradare il diritto di libertà religiosa nel suo complesso a mero interesse legittimo alla mercé di un’arbitraria discrezionalità amministrativa. Il luogo di culto cessava di far parte del panorama urbano quotidiano per divenire evento eccezionale. La sua costruzione usciva dall’ordinario piano dei servizi per divenire oggetto di un «atto separato», meramente eventuale, sottoposto a specifica valutazione ambientale; al possibile giudizio referendario e alla valutazione di una fantomatica «consulta regionale». La libertà religiosa come materia di contesa e divisione e di affermazione del primato delle maggioranze e del colore politico delle amministrazioni.

La contrarietà ai principi e valori della Costituzione emergeva poi dal tentativo di restringere alle sole «confessioni religiose con le quali lo Stato ha già approvato con legge la relativa intesa» la possibilità – quanto mai resa ardua – di dotarsi, legittimamente e alla luce del sole, di un luogo di culto.

Qui la Regione Lombardia non solo errava, ma perseverava. Risale, infatti, al 2002 la specifica censura della Corte costituzionale (sent. n. 346) ad un’identica previsione contenuta in una legge regionale del 1992. In quell’occasione la Corte, reiterando un suo precedente orientamento, aveva spiegato che disporre di un luogo di culto fa parte del contenuto minimo e insindacabile del diritto costituzionale di libertà religiosa e non può essere condizionato all’ottenimento di status dipendenti dalla discrezionalità del potere politico come, appunto, lo statuto di confessione con intesa.

La legge regionale richiedeva poi agli «enti delle confessioni religiose» prive di intesa statuti che esprimessero «il rispetto dei principi e dei valori della Costituzione», criterio all’apparenza ragionevole ma quanto mai indeterminato. Agli stessi soggetti erano poi richiesti «consistenza» e «significativo insediamento», subordinando, così, la possibilità di godere di un luogo di culto ad una logica meramente quantitativa. La lista di previsioni da ottemperare nel «piano delle attrezzature» era poi piuttosto impegnativa: strade e opere di urbanizzazione primaria «con onere a carico dei richiedenti»; servizi igienici e più che ampi parcheggi; distanze politicamente determinate tra edifici delle diverse fedi; impianti di videosorveglianza e rispetto del peculiare paesaggio lombardo (ingenua norma anti-minareto). Insomma, un coacervo di incostituzionalità.

Carenze del sistema

Ma la vicenda lombarda solleva una questione più ampia, che travalica i confini lombardi, quella della mancanza di una cornice normativa adeguata in grado di orientare, incanalare e, se necessario, arginare la discrezionalità delle amministrazioni locali di fronte alle crescenti responsabilità che, anche in materia di libertà religiosa, il trasformato panorama religioso italiano pone a regioni e comuni. Com’è noto, manca all’Italia una legislazione in materia di libertà religiosa costituzionalmente sintonizzata, in grado di assicurare la gestione di appartenenze religiose in continuo cambiamento, non più comprimibili negli angusti spazi della legislazione sui «culti ammessi» risalente all’epoca fascista.

È vero che la Costituzione, sostenuta da una conforme applicazione giurisprudenziale e i trattati internazionali ratificati dall’Italia e talvolta assistiti da influenti tribunali (la Corte di Strasburgo e la Corte di Giustizia del Lussemburgo) hanno contribuito a fornire all’esercizio del diritto di libertà religiosa e di coscienza in Italia una fisionomia conforme agli standard di un diritto umano fondamentale. Come è vero che la redazione di un testo unico in grado di raccogliere ordinatamente la normativa nazionale fin qui (sparsamente) prodotta in materia costituirebbe già un grande contributo. Ma è innegabile che la normativa vigente, sia internazionale sia nazionale, non è in grado di rispondere alla sfida posta da una religiosità organizzata in un associazionismo sempre meno corrispondente al profilo istituzionale, unitario e piramidale delle «confessioni religiose» e non interamente assorbibile all’interno della categoria delle «confessioni con intesa».

Più precisamente manca, da una parte, una legislazione che, da un lato, sappia precisare – anche innovando rispetto al diritto vigente – i diversi ambiti e le modalità di concreto esercizio di un diritto di libertà religiosa e di coscienza che sappia effettivamente porre su un piano di pari dignità gli individui credenti; dall’altro, una normativa che indichi precisi limiti alla discrezionalità amministrativa (ministeriale e locale) e legislativa (regionale) garantendo a tutte le comunità religiose uguale libertà e, dunque, la possibilità di godere dei contenuti essenziali della libertà religiosa (celebrazione di matrimoni; costruzione e disponibilità di edifici di culto; assistenza religiosa in ospedali, carceri e forze armate …) senza necessariamente affidarsi a procedure non controllabili come quella – che pur andrà precisata – prevista per la stipulazione delle intese.

Più in generale, fatta salva la legislazione bilaterale già prodotta (concordato, intese), serve una scelta politica parlamentare lungimirante, capace di riconoscere nel diritto di libertà religiosa e di coscienza un diritto centrale per la convivenza civile. Questo è necessario sia per la piena dignità di tutti i cittadini-fedeli, vecchi e nuovi sia per la piena credibilità di un sistema politico e giuridico costruito a così caro prezzo.

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