La storia di Amir

di:

profughi

Il 28 marzo scorso – Domenica della Palme dei cattolici – Amir ha iniziato lo sciopero della fame ad oltranza, nell’estremo tentativo di richiamare un poco di attenzione su di sé e sul proprio, eclatante, caso. Da uno dei dolorosi meandri della “rotta balcanica” – precisamente dal campo profughi di Sedra, nei pressi di Bihac, in Bosnia Herzegovina – ci fa conoscere la sua storia.

Amir proviene dall’Iran ove era esponente e difensore della minoranza islamica sufi Gonabadi Dervish, fortemente osteggiata dal regime teocratico iraniano. Racconta di essere stato, per tal motivo, perseguitato, imprigionato e torturato otto volte in quattordici anni, nella propria patria.

Suo malgrado, si è risolto a lasciare la famiglia – la moglie e i quattro figli – intraprendendo la rotta dei profughi, intenzionato a presentare istanza di asilo nel primo dei paesi che – secondo diritto – l’avesse accolta.

Ha provato in Turchia, ove era giunto nel marzo del 2018. Racconta di aver tentato di presentare poi la domanda di asilo nelle altre, prolungate, tappe del percorso, ossia in Grecia, in Bosnia e in Croazia: quindi pure in paesi dell’Unione Europea, di per sé formalmente impegnati nella difesa dei diritti umani fondamentali dei profughi migranti. Sta di fatto che nessuno dei paesi citati ha voluto prestare la minima attenzione alle sue motivate istanze, al suo appello.

Durante il suo tentativo di passaggio in Croazia dichiara di essersi consegnato volontariamente alle forze di polizia. chiedendo di poter formalizzare istanza di asilo, col risultato di essere stato immediatamente riportato, con metodi di costrizione fisica, in Bosnia.

Nel 2019, nel corso del suo ultimo game – il tragico gioco del passaggio di confine tra la Bosnia e la Croazia, verso l’Europa – per evitare un’auto che lo stava investendo sulle rampe delle strade di montagna – Amir racconta – di essersi gettato e di essere caduto malamente nella scarpata di lato della strada, riportando un grave danno alla schiena che ora lo rende – ben visibilmente – semi paralizzato e costretto a muoversi con una sedia a rotelle.

Non basta. Racconta di essere rimasto a lungo immobilizzato nella scarpata a lamentarsi e a chiedere aiuto, sinché un gruppo di profughi pakistani ha avvertito i suoi lamenti e ha interpellato la polizia per i soccorsi: i pakistani sono stati arrestati, battuti e riportati in Bosnia, mentre Amir è stato portato, in un primo tempo, in un ospedale della Croazia (precisamente il 28 giugno 2019). Il giorno successivo, la polizia croata lo ha prelevato dall’ospedale, lo ha percosso brutalmente nella condizione inerme in cui si trovava, lo ha lasciato a lungo senza cibo e senza acqua, privato dei suoi farmaci essenziali – lo spray per le crisi respiratorie -, infine rilasciato nei boschi di confine, di nuovo in Bosnia Herzegovina. Solo. Denudato. Letteralmente in mutande. Incapace di deambulare.

Strisciando col corpo – Amir ancora racconta – solo il giorno successivo è riuscito a riportarsi su una strada laterale. Un autista bosniaco l’ha quindi notato, si è fermato col suo automezzo, l’ha aiutato e portato nell’estemporaneo campo profughi di Velika Kladusa; da Velika è stato quindi trasferito nel campo ufficiale gestito da IOM nella ex fabbrica “Bira” nella città di Bihac, sede ora abbandonata “a favore” del campo di tende di Lipa ove, nel Natale 2020, è avvenuto l’incendio che ha consentito di mettere in luce – ai cittadini europei ed italiani più attenti – la terribile situazione in cui versano migliaia di persone. Quella di Amir ci colpisce per la sua tragicità. Ma forse perché conosciuta più da vicino.

Attualmente Amir si trova appunto a Sedra nel campo di Ostrozac in mezzo alle montagne che da Bihac portano a Cazin. Dalla sua sedia a rotelle ci allunga una rosa, rossa di attesa di carità e, insieme, di giustizia: qualche istituzione della civile Europa vorrà raccoglierla?

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Un commento

  1. Giovanni Di Simone 4 aprile 2021

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