La tortura diventa reato

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«Ribadisco la ferma condanna di ogni forma di tortura e invito tutti ad impegnarsi per la sua abolizione e per sostenere vittime e familiari». Twitter di papa Francesco del 26 giugno 2017 (Giornata internazionale per le vittime di tortura)

reato di tortura

Prima obiezione. La tortura non ci riguarda. La tortura non esiste perché è una pratica lontana dalla nostra mentalità. L’Italia è un paese civile e democratico, dove non si tortura. Dunque l’introduzione di un reato che ne sanzioni la pratica è inutile.

Purtroppo non è così. Lo stanno a dimostrare, tra l’altro, le sentenze della Corte Europea di giustizia dei diritti dell’uomo che hanno condannato in più occasioni l’Italia per non essersi dotata di una legislazione adeguata per punire il reato di tortura, come previsto da numerosi atti internazionali.[1]

Seconda obiezione. Gli obblighi internazionali in materia non impongono l’introduzione di un reato specifico di tortura. Più semplicemente, richiedono una copertura penale di condotte materiali riconducibili all’area semantica della pratica vietata. L’ordinamento penale italiano è in regola, contemplando già una sufficiente batteria di norme repressive: percosse (art. 581 c.p.), lesioni personali (art. 582 c.p.), ingiurie (art. 594 c.p.), sequestro di persona (art. 605 c.p.), arresto illegale (art. 606 c.p.), indebita limitazione di libertà personale (art. 607 c.p.), abuso di autorità contro arrestati o detenuti (art. 608 c.p.), perquisizioni e ispezioni personali arbitrarie (art. 609 c.p.), violenza privata (art. 610 c.p.), minacce (art. 612 c.p.), stato di incapacità procurato mediante violenza (art. 613 c.p.). Tutte fattispecie penali che vanno a comporre un’adeguata costellazione punitiva.

Non è così. La lunghezza dell’elenco dei reati deve fare i conti, infatti, con gli elementi costitutivi della nozione internazionale di tortura e con gli obblighi che il diritto pattizio e le consuetudini internazionali fanno discendere dal suo divieto. Così scrutinato, quell’elenco si rivela assolutamente carente.

Sono queste sostanzialmente le due fondamentali obiezioni che hanno fatto naufragare numerosi disegni di legge presentati da varie forze politiche, a seguito dell’entrata in vigore, nel giugno 1987, della Convenzione contro la tortura ed altre pene e trattamenti crudeli, disumani o degradanti, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1984.[2]

Naufragio al quale si è posto finalmente termine nella giornata di mercoledì 5 luglio 2017, con la definitiva approvazione, da parte della Camera dei Deputati, della proposta di legge che introduce nell’ordinamento giuridico italiano il reato di tortura. Il testo è stato approvato con 198 voti a favore, 35 contrari e 104 astenuti.

La nuova legge si compone di soli sei articoli.

Il delitto di tortura

L’articolo 1 introduce gli articoli 613-bis e 613-ter del codice penale, concernenti i reati di tortura e di istigazione del pubblico ufficiale alla tortura.

Il nuovo articolo 613 bis del codice penale disciplina il delitto di tortura.

È prevista la reclusione da 4 a 10 anni per chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.

Pertanto, affinché si realizzi il reato di tortura:

* deve sussistere un nesso di causalità tra l’azione posta in essere dal soggetto attivo e le acute sofferenza fisiche ovvero il verificabile trauma psichico a danno della vittima;

* la condotta deve essere connotata da almeno uno dei seguenti elementi: violenze, minacce gravi, crudeltà;

* la vittima deve trovarsi in almeno una delle seguenti condizioni: essere persona privata della libertà personale; essere affidata alla custodia (o potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza) dell’autore del reato; trovarsi in situazione di minorata difesa;

* il fatto deve essere commesso secondo almeno una delle seguenti modalità: pluralità di condotte; tale da comportare un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.

Circostanze aggravanti

L’art. 613-bis prevede poi specifiche forme aggravate del reato di tortura.

La prima, conseguente all’opzione del delitto come reato comune, interessa la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio dell’autore del reato, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio. La pena prevista è in tal caso la reclusione da 5 a 12 anni. Viene precisato che la fattispecie in questione non si applica se le sofferenze per la tortura derivano unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti.

Il secondo gruppo di forme aggravate consiste nell’avere causato lesioni personali comuni (aumento fino a 1/3 della pena), gravi (aumento di 1/3 della pena) o gravissime (aumento della metà).

Gli altri casi di circostanze aggravanti riguardano la morte come conseguenza della tortura nelle due diverse ipotesi: di morte non voluta, ma conseguenza dell’attività di tortura (30 anni di reclusione, mentre nel testo della Camera era previsto l’aumento di due terzi delle pene); di morte come conseguenza voluta da parte dell’autore del reato (pena dell’ergastolo).

Istigazione alla tortura da parte del pubblico ufficiale

Il nuovo art. 613-ter del codice penale stabilisce che il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio il quale, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l’istigazione non è accolta ovvero se l’istigazione è accolta ma il delitto non è commesso, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

Altre disposizioni

L’articolo 2 della legge è norma procedurale che, novellando l’art. 191 del codice di procedura penale, introduce il principio dell’inutilizzabilità, nel processo penale, delle dichiarazioni eventualmente ottenute per effetto di tortura. La norma fa eccezione a tale principio solo nel caso in cui tali dichiarazioni vengano utilizzate contro l’autore del fatto e solo al fine di provarne la responsabilità penale.

L’articolo 3 coordina con l’introduzione del resto di tortura l’art. 19 del Testo Unico in tema di immigrazione[3], cui è aggiunto un comma 1-bis che vieta le espulsioni, i respingimenti e le estradizioni ogni volta sussistano fondati motivi di ritenere che, nei Paesi nei confronti dei quali queste misure amministrative dovrebbero produrre i loro effetti, la persona rischi di essere sottoposta a tortura. La disposizione precisa che tale valutazione tiene conto se nel Paese in questione vi siano violazioni «sistematiche e gravi» dei diritti umani.

L’articolo 4 esclude il riconoscimento di ogni “forma di immunità” per gli stranieri che siano indagati o siano stati condannati per il delitto di tortura in altro Stato o da un tribunale internazionale e prevede l’obbligo di estradizione verso lo Stato richiedente dello straniero indagato o condannato per il reato di tortura; nel caso di procedimento davanti ad un tribunale internazionale, lo straniero è estradato verso il Paese individuato in base alla normativa internazionale.

Gli articoli 5 e 6 della legge contengono, rispettivamente, la disposizione di invarianza finanziaria e quella sull’entrata in vigore della legge il giorno stesso della sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

Considerazioni conclusive

La nuova legge sta originando opinioni contrastanti.

Mentre alcuni la definiscono legge «colma lacune», poiché sopperirebbe solo all’assenza di una fattispecie, senza però garantire i diritti dell’uomo, altri, sebbene non la considerino perfetta, la preferiscono perché, oltre a ritenerla compatibile con la Convenzione ONU, sono consapevoli che al momento non ci siano le condizioni per ottenere un testo migliore.

Questi ultimi ritengono che non si può prescindere dal dato che in più occasioni il dovere del pubblico ministero di esercitare l’azione penale ha perso di effettività laddove, per la mancanza di una fattispecie penale sulla tortura, si è incardinato un giudizio di responsabilità penale con la formulazione di un’imputazione minore, quanto ad offesa, rispetto alla complessità e alla gravità degli accadimenti. Si è giunti in passato a giudizi di condanna che hanno assunto solo un valore morale e simbolico, così disattendendo non solamente la funzione preventiva (generale-speciale) della pena, ma soprattutto ledendo gravemente la dignità e l’integrità della persona umana, sottoposta a intenzionali violenze di un’intensità crudele e inumana.

La tortura è una delle violazioni dei diritti umani più gravi, per certi versi la più abominevole.

Le leggi, per natura, sono sempre migliorabili. L’applicazione concreta dirà al legislatore se sarà necessario successivamente introdurre eventuali correttivi per assicurare una più efficace tutela del valore incommensurabile della dignità che va riconosciuta ad ogni essere umano.


[1] L’ultima condanna è del giugno 2017. Davanti ai giudici di Strasburgo sono ancora pendenti diversi ricorsi di vittime italiane, sempre incentrati sul reato di tortura.
[2] La Convenzione è stata ratificata dall’Italia con legge 3 novembre 1988 n. 489. Va ricordato altresì che la condanna della tortura è prevista dall’art. 5 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, dall’art. 3 della Convenzione di Ginevra relativa al trattamento dei prigionieri di guerra del 1949 (ratificata dall’Italia con legge 27 ottobre 1951 n. 1739), dall’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000, dall’art. 7 dello Statuto della Corte penale internazionale entrato in vigore del 2002 (ratificato dall’Italia con 12 luglio 1999 n. 232), dal Protocollo Opzionale alla Convenzione contro la Tortura ed Altre Pene o Trattamenti Crudeli adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite ed entrato in vigore il 22 giugno 2006 (ratificato dall’Italia con legge 9 novembre 2012 n. 195).
[3] Decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286.

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