Morire legati a un letto…

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«La contenzione fisica del paziente psichiatrico, quale presidio restrittivo della libertà personale, non ha né una finalità curativa né produce materialmente l’effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente. Avendo una pura finalità “cautelare” diretta a salvaguardare l’incolumità fisica del paziente o di coloro che vengono a contatto con lui, il ricorso ad essa è legittimo solo in presenza delle condizioni previste dall’articolo 54 del codice penale, allorquando cioè si configuri un pericolo grave, e tale pericolo sia attuale o imminente o, comunque, idoneo a far sorgere nell’autore del fatto la ragionevole opinione di trovarsi in siffatto stato, non essendo sufficiente un pericolo eventuale, futuro, meramente probabile o temuto, non altrimenti evitabile sulla base di fatti oggettivamente riscontrati e non accertati solo in via presuntiva».

Lo afferma la V Sezione Penale della Corte di Cassazione in una corposa sentenza depositata il 7 novembre 2018,[1] con la quale viene confermata la condanna, per sequestro di persona e conseguente morte, nei confronti di medici e infermieri che ebbero in cura, il paziente.

La sentenza ha un’eccezionale importanza e implica un ripensamento di molte prassi nell’ambito delle strutture sanitarie.

La vicenda, indubbiamente complessa, ha avuto come particolarità la videogistrazione di tutto l’evento, essendo il reparto dove il paziente era stato sottoposto al trattamento sanitario obbligatorio, dotato di un impianto di videosorveglianza.

In questa sede, dopo aver sinteticamente richiamato il caso, ci si sofferma in particolare sulla natura della contenzione, così come esplicitata in modo magistrale e per la prima volta dai giudici di legittimità.

Il caso

A seguito di anomalie comportamentali consistenti in agitazione psicomotoria, alterazione comportamentale ed etero aggressiva, un paziente è sottoposto a Trattamento sanitario obbligatorio per la durata di sette giorni.

Ricoverato presso il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura, viene prima sedato farmacologicamente e, successivamente, a partire dalle ore 14,24 del 31 luglio 2009, è posto in regime di contenzione mediante applicazione di fascette dotate di viti di fissaggio ai quattro arti, a mezzo delle quali viene legato alle sbarre del letto.

Lo stato di contenzione fisica, disposto per iniziativa del personale medico, perdura ininterrottamente fino alla mattina del giorno 4 agosto 2009, allorché se ne constata il decesso per edema polmonare.

Nel corso del procedimento penale emerge che, in realtà, il paziente non aveva mai avuto una condotta aggressiva, era tranquillo e “sedato” e che lo stato di agitazione manifestatosi durante il ricovero era dovuto soltanto alla sua sottoposizione al regime contenitivo.

Era risultato, inoltre, che, presso il reparto psichiatrico dell’ospedale, vi era una sorta di prassi di applicazione della contenzione giustificata da motivi di mera praticità anche per la carenza del personale. Prassi che non poggiava su una specifica valutazione prognostica, costituendo una sorta di protocollo tacito applicato in maniera indistinta. Per di più ai familiari era stato impedito di visitare il paziente durante il ricovero.

Nella vicenda giudiziaria vengono coinvolti come imputati ben diciassette persone, tra medici e infermieri, per sequestro di persona (art. 605 codice penale) e morte come conseguenza di altro delitto (art. 586 codice penale).

Ai soli medici, inoltre, viene contestato il falso ideologico in atto pubblico (art. 479 codice penale) per non aver annotato la contenzione nella cartella clinica, in spregio alle più elementari prescrizioni delle linee-guida in fatto di indicazione delle ragioni del ricorso ad essa e di segnalazione della sua prevedibile durata.

In primo grado, il Tribunale condanna solo i medici. La Corte di appello condanna anche gli infermieri i quali, ferma restando la competenza del medico di disporre o mantenere la contenzione, sono tenuti, ai sensi di legge e del codice deontologico, non solo ad adoperarsi per verificare che si faccia un uso straordinario del mezzo contentivo e che tale presidio si fondi su una prescrizione medica, ma anche a segnalare e a denunciare le violazioni personalmente riscontrate.

La Cassazione conferma sostanzialmente l’impianto della sentenza di appello.

La contenzione non è un “atto medico” che gode di diretta copertura costituzionale

Contrariamente a quanto affermato dagli imputati, i giudici di legittimità ritengono che l’uso della contenzione meccanica non ha né una finalità curativa né produce l’effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente, svolgendo una mera funzione di tipo cautelare, essendo diretto a salvaguardare l’integrità fisica del paziente, o di coloro che vengono a contatto con quest’ultimo, allorquando ricorra una situazione di concreto pericolo per l’incolumità dei medesimi.

La sentenza fa riferimento anche alla legge 13 maggio 1978 n. 180 (c.d. legge Basaglia) che, nel superare l’impostazione “custodiale” del malato psichiatrico, disciplina il trattamento sanitario obbligatorio, prevedendone l’applicazione solo ove esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, non legittimandosi quindi affatto i mezzi di coercizione fisica se non in quanto rappresentino l’unico strumento idoneo ad approntare le cure mediche necessarie per scongiurare il pericolo di grave danno alla salute del paziente.[2]

Per i suoi effetti altamente invasivi per l’integrità fisica, la contenzione è stata sempre considerata una pratica da circoscrivere a situazioni del tutto straordinarie nei manicomi e assolutamente vietata nelle case di cura private. Questo emerge dal tenore inequivocabile dell’articolo 60 del risalente regio decreto 16 agosto 1909 n. 615 (Regolamento sui manicomi e sugli alienati), secondo cui: «Nei manicomi debbono essere aboliti o ridotti ai casi assolutamente eccezionali i mezzi di coercizione degli infermi e non possono essere usati se non con l’autorizzazione scritta del direttore o di un medico. L’autorizzazione deve indicare la natura e la durata del mezzo di coercizione. L’autorizzazione indebita dell’uso di detti mezzi rende passibili coloro che ne sono responsabili di una sanzione amministrativa da lire 60.000 a lire 200.000, senza pregiudizio delle maggiori pene comminate dal Codice penale. L’uso dei mezzi di coercizione è vietato nella cura in case private. Chi contravviene a tale disposizione è soggetto alla stessa pena stabilita dal comma precedente».[3]

Anche se il citato articolo 60 del regolamento dei manicomi non è più vigente, non vi è dubbio che i suoi criteri ispirativi, di limitare l’uso della contenzione meccanica a situazioni del tutto eccezionali, debbano ritenersi, non solo tuttora attuali, ma, a maggiore ragione, ancora più vincolanti, in primo luogo, alla luce dell’entrata in vigore della Carta Costituzionale che, all’articolo 13, vieta qualsiasi forma di restrizione della libertà personale se non alle condizioni tassativamente stabilite dalla legge e all’articolo 32 sancisce il divieto, quanto alla tutela della salute, di violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Sul rilievo che la contenzione fisica sarebbe un “atto medico” che risponde ad una finalità di tutela della salute e dell’incolumità fisica del paziente e che tale pratica non andrebbe intesa come strumento a sé stante separato dalla cura, essendo funzionale alla cura del paziente psichiatrico, gli imputati avevano invocato l’operatività della c.d. “scriminante costituzionale” dell’articolo 32 della Costituzione, che renderebbe di per sé lecito l’uso della contenzione in quanto rientrante nell’attività medico-sanitaria.

I giudici di legittimità, non condividendo tale impostazione, ribadiscono quanto già affermato in altre pronunce,[4] secondo cui l’“atto medico” gode di una diretta copertura costituzionale non perché semplicemente frutto della decisione di un medico, ma in quanto caratterizzato da una finalità terapeutica, cui va assimilato quello avente natura diagnostica, parimenti finalizzato alla cura e alla guarigione del paziente, nonché quello destinato ad alleviare le sofferenze del malato terminale, in quanto comunque diretto a migliorarne le condizioni complessive (c.d. trattamento del dolore).

Quando è legittimo l’uso della contenzione

Nell’analizzare la natura della contenzione, la Cassazione cita i codici deontologici delle professioni interessate[5] che ne delimitano l’utilizzo a situazioni eccezionali e respingono la tesi che ne fa discendere la liceità dalla posizione di garanzia dei professionisti sanitari (medici e infermieri).

L’uso dei mezzi contenitivi – affermano i giudici – è lecito solo nelle ipotesi previste dall’articolo 54 del codice penale che, per la comprensione della questione, è utile riportare.

Il primo comma dell’articolo 54 del codice penale testualmente recita: «Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo».

Gli elementi portanti dello stato di necessità sono quindi: a) l’attualità del pericolo di un danno grave alla persona; b) l’inevitabilità del pericolo; c) la proporzionalità del fatto.

Il pericolo deve essere attuale. È da considerarsi inammissibile l’applicazione della contenzione in via precauzionale sulla base della astratta possibilità o anche della mera probabilità di un danno grave alla persona. Occorre il riscontro degli elementi obiettivi che devono essere indicati in modo puntuale e dettagliato. Inoltre. la valutazione dell’attualità del pericolo deve sussistere nel tempo e implica, quindi, un costante monitoraggio del paziente, con riscontro in cartella clinica di tale monitoraggio.

Il pericolo deve poi risultare inevitabile. L’inevitabilità sussiste quando non vi sia la possibilità di salvaguardare la salute del paziente con strumenti alternativi, la cui valutazione di inidoneità è rimessa al prudente apprezzamento del medico.

Il requisito della proporzionalità riguarda le modalità di applicazione della contenzione, essendo evidente che, per la sua estrema invasività, tale presidio deve essere applicato, oltre che nei limiti dello stretto necessario, verificando, anche in conseguenza dell’evoluzione clinica, se sia sufficiente il blocco solo di alcuni arti o se il pericolo di pregiudizio sia tale da imporre il blocco ad entrambi i polsi e caviglie. Pure queste valutazioni dovranno essere valutate dal medico, anche sinteticamente, e motivate in cartella clinica fornendo tutti gli elementi obiettivi che rendono in concreto inevitabile il suo utilizzo.

Poiché alcuni degli imputati avevano richiamato, per sostenere l’assoluta liceità dell’uso della contenzione nell’esercizio dell’attività medica, anche il disposto dell’articolo 5 lettera e) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il quale consente la «detenzione regolare dell’alienato», la Corte di cassazione evidenzia che il termine “detenzione” evoca eventualmente una limitazione della possibilità di spostamento e locomozione, ma non certo l’assoluta immobilizzazione dell’alienato (legato ai quattro arti), e fa rilevare, da un lato, che la Convenzione europea è comunque volta alla tutela dei diritti fondamentali e della dignità della persona e, dall’altra, che il relativo articolo 3 proibisce trattamenti inumani o degradanti. Ne consegue che l’invocata norma europea non può affatto ritenersi compatibile con la forma massima di privazione della libertà quale è la contenzione.

In sintesi

Sintetizzando il contenuto della sentenza relativamente alla natura della contenzione, si può affermare che:

  • la contenzione non è una pratica di carattere sanitario, non è un’attività medica, non ha una finalità di carattere terapeutico;
  • per ricorrervi è richiesta al medico la valutazione del paziente, l’eventuale attuazione di azioni alternative, una valutazione prognostica;
  • la contenzione è una pratica eccezionale che può essere giustificata solo con il ricorso allo stato di necessità, ai sensi dell’articolo 54 del codice penale;
  • compete al medico prescrivere la contenzione e compete ai medici che si alternano nei turni e nelle guardie riconfermare la contenzione dopo valutazione e procedere all’annotazione in cartella clinica che serve (anche) per la dimostrazione degli elementi che portano allo stato di necessità;
  • la prescrizione della contenzione non è da considerarsi un “ordine gerarchico” insindacabile rivolto agli infermieri dal medico;
  • l’infermiere, infatti, è un soggetto che non può limitarsi ad accettare passivamente le decisioni del medico, ma è tenuto autonomamente a tutelare la salute e il benessere dei pazienti;
  • in capo al personale infermieristico è previsto un obbligo giuridico e deontologico autonomo e diverso da quello del medico di verificare la correttezza della contenzione.
Il parere del Comitato nazionale per la bioetica

La sentenza di cui è stato riferito è in linea con il parere del 25 aprile 2015 del Comitato nazionale per la bioetica specificatamente dedicato alla contenzione nei confronti di pazienti psichiatrici e degli anziani.

La decisione del Comitato nazionale per la bioetica di portare l’attenzione su questo tema nasce dalla constatazione che la contenzione meccanica, nonostante numerose prese di posizione di organismi nazionali e sovranazionali che puntano al suo superamento, è ancora largamente applicata e non si intravedono sforzi decisivi alla sua risoluzione e neppure una sufficiente sensibilità alla gravità del problema né da parte dell’opinione pubblica né delle istituzioni.

Con il citato parere, il Consiglio nazionale per la bioetica ribadisce l’obiettivo del progressivo superamento della contenzione – considerata residuo di una cultura istituzionale che affonda le radici in una tradizione medico-assistenziale poco attenta alla relazione terapeutica e alla soggettività del paziente – nel quadro di una politica sanitaria che assuma il «riconoscimento della persona come tale, nella pienezza dei suoi diritti (prima ancora che come malato e malata)» come nuovo paradigma della cura e presupposto di efficacia dell’intervento terapeutico.

Nell’odierno orizzonte bioetico, la contenzione è in sé da disapprovare, indipendentemente dalle ragioni per cui la si applichi, in quanto lesiva dei diritti fondamentali della persona, i quali non ammettono limitazioni in nome del principio di beneficialità. Il fatto che, in situazioni del tutto eccezionali, sia possibile per i sanitari ricorrere alla contenzione non toglie forza alla regola bioetica che proibisce di “legare”.

Il parere sottolinea, altresì, i limiti rigorosi entro cui la contenzione è giustificata sul piano giuridico. Dal momento che, a venire in rilievo, sono i diritti fondamentali della persona, il ricorso alle tecniche di contenzione meccanica deve rappresentare l’extrema ratio e si deve ritenere che, anche nell’ambito del Trattamento sanitario obbligatorio, possa avvenire solamente in situazioni di reale necessità e urgenza, in modo proporzionato alle esigenze concrete, utilizzando le modalità meno invasive e solamente per il tempo necessario al superamento delle condizioni che abbiano indotto a ricorrervi. In altre parole, non può essere sufficiente che il paziente versi in uno stato di mera agitazione, bensì sarà necessaria, perché la contenzione sia “giustificata”, la presenza di un pericolo grave e attuale che il malato compia atti auto-lesivi o commetta un reato contro la persona nei confronti di terzi. Nel momento in cui tale pericolo venga meno, il trattamento contenitivo deve cessare, giacché esso non sarebbe più giustificato dalla necessità e integrerebbe condotte penalmente rilevanti.


[1] Si tratta della sentenza – 94 pagine – n. 50497 decisa il 20 giugno 2018, le cui motivazioni sono state depositate il 7 novembre 2018.

[2] Ancor prima dell’entrata in vigore della legge n. 180 del 1978, era stata emanata, con il medesimo spirito, la legge 27 luglio 1975 n. 354 (Ordinamento penitenziario), che contiene all’articolo 41-comma 3 la seguente disposizione: «Non può essere usato alcun mezzo di coercizione fisica che non sia espressamente previsto dal regolamento e, comunque, non vi si può far ricorso a fini disciplinari ma solo al fine di evitare danni a persone o cose o di garantire l’incolumità dello stesso soggetto. L’uso dev’essere limitato al tempo strettamente necessario e dev’essere costantemente controllato dal sanitario».

[3] Tale norma è stata abrogata in modo implicito dall’art. 11 della L. 180/78 di riforma dell’assistenza psichiatrica, che ha abrogato gli articoli 1, 2, 3 e 3-bis della legge 14 febbraio 1904 n. 36, concernente “Disposizioni sui manicomi e sugli alienati”, di cui il citato regolamento del 1909 costituiva esecuzione.

[4] Cassazione penale Sezioni Unite n. 2437 del 21 gennaio 2009; sez. IV n. 34521 del 26 maggio 2010; sez. V n. 16678 del 24 novembre 2015.

[5] In particolare l’articolo 51 del Codice Fnomceo (Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri) il cui testo in vigore al momento del ricovero del paziente così recitava: «Il medico che assista un cittadino in condizioni limitative della libertà personale è tenuto al rispetto rigoroso dei diritti della persona, fermi restando gli obblighi connessi con le sue specifiche funzioni. In caso di trattamento sanitario obbligatorio il medico non deve richiedere o porre in essere misure coattive, salvo casi di effettiva necessità, nel rispetto della dignità della persona e nei limiti previsti dalla legge».

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