A chi la precedenza nella cura?

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Un problema drammatico che si pone davanti al medico in caso di sussidi sanitari insufficienti è la decisione su chi salvare e in base a quali criteri.

Nelle scorse settimane la SIAARTI, Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva, ha pubblicato un documento dal titolo Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili. Il tema appare di estrema attualità e merita a mio avviso qualche riflessione.

Già la scelta del titolo dovrebbe porre qualche domanda: perché “raccomandazioni” e non “linee guida”? Le prime sono qualcosa di più delle seconde, dichiarano una finalità operativa piuttosto che un’intenzione riflessiva.

L’articolo 32 della Costituzione

Il bene in gioco è noto: il diritto alla tutela della salute, che la nostra Costituzione (art. 32) definisce fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, garantendo cure gratuite agli indigenti.

Quest’ultima specificazione, unica nel suo genere e per certi versi pleonastica, sottolinea una volontà esplicita dei padri costituenti, ovvero quella di offrire un sistema sanitario universalistico, che in verità troverà piena realizzazione solo 30 anni dopo con la legge 833, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale.

In quella legge, firmata da Tina Anselmi, prima donna Ministro della Repubblica, il Sistema Sanitario Nazionale italiano si impegnò a offrire un’assistenza sanitaria completa e adeguata a tutti i cittadini, senza distinzioni di genere, residenza, età, reddito o posizione lavorativa, garantendo parità di accesso ai percorsi assistenziali ad ogni persona bisognosa di cure.

Da quel momento tutti, indistintamente, avranno diritto a fruire delle prestazioni del Servizio Sanitario Nazionale, sancendo con ciò un patto fra Stato e cittadino, una sorta di assicurazione sulla salute, per usare una formula lontana dal nostro modello sanitario ma efficace per comprendere ciò che vorrei dire.

Il cittadino lavoratore, ma anche il pensionato ex lavoratore, così come le imprese, accetta che una parte del proprio reddito venga investita in Servizi Sanitari e accetta che le prestazioni da questi erogate siano erga omnes.

È naturale che il giovane e probabilmente sano lavoratore, nell’accettare questo prelievo, proietti sé stesso in là negli anni, quando la salute potrebbe essere per lui meno solida e gli acciacchi aver minato la sicurezza del fior de’ suoi gentili anni. Qualcuno, dotato di precoce attitudine etica, accomunerà quel sé stesso alle tante persone, vulnerabili, anziane, malate, disabili, che costituiscono la parte fragile (ma non certo con minor dignità) della società.

Il patto fra lavoratore e Stato è in fondo questo: accetto di accantonare queste risorse oggi perché domani potrei trovarmi in difficoltà e vorrei essere assistito e perché già oggi una parte dei miei concittadini è in questa situazione in cui io stesso potrei trovarmi domani.

Decidere, in base a quali criteri?

Fatte queste premesse, veniamo ai tragici giorni nostri: il problema è noto a tutti, ci sono più bisogni che risorse e, a mio avviso, non è questo il tempo per discutere dell’imprevidenza e/o degli errori di chi poteva/doveva prepararsi a tanto.

Ne discuteremo a lungo, dopo, a emergenza superata.

Di fronte a questa insufficienza di risorse bisogna scegliere. Come? Con quali criteri? Chi?

Qui il mondo si divide fra chi pensa che l’etica utilitaristica non possa contaminare i discepoli di Ippocrate e chi pensa che, alla fine, bisogna scegliere poiché comunque, qualunque via si imbocchi, resterebbero dei morti sulla strada.

Vorrei provare, ancora per un po’, a non schierarmi, perché consapevole che un attimo dopo a averlo fatto ci saranno i Guelfi o i Ghibellini a urlare contro.

E le grida rappresentano un sacrosanto diritto emotivo ma rischiano di sopraffare la voce dell’altro.

Proviamo a richiamare alcuni valori del nostro sistema universalistico, riassumendoli anche a rischio di banalizzarli.

La nostra Costituzione, considerata una delle più belle del mondo, afferma che lo Stato ha particolarmente a cuore le minoranze, le persone fragili, i territori di confine, chi non trova lavoro ed è quindi disoccupato, chi non può più lavorare attivamente.

Il Servizio Sanitario Nazionale, che ci colloca orgogliosamente fra i Sistemi Sanitari più avanzati ed efficienti al mondo, mutua questi valori e non esita a investire molte risorse in favore di chi ha molto bisogno.

Un esempio a me noto in virtù della professione che esercito: i Servizi per la tutela della salute mentale investono l’80% delle risorse per il 20% dell’utenza, per quello ”zoccolo duro” rappresentato dai pazienti più gravi e tendenzialmente cronici, quindi con minori chances di guarigione.

È giusto? La Germania nazista del 1939 aveva risposto a questa domanda in modo semplice, preparando a lungo la popolazione a quella che sarebbe stata la prova generale dell’olocausto: la famigerata AKTION T4 che iniziò proprio con i disabili psichici. Si calcola che nel silenzio di un’Europa smarrita vennero uccisi 300.000 disabili psichici, considerati una spesa insostenibile in un periodo in cui la Germania doveva affrontare sfide assai impegnative.

Così si espresse Hermann Pfanmuller, fervente nazista e uno tra i medici coinvolti nell’AKTION T4: «È per me intollerabile l’idea che i migliori, il fiore della nostra gioventù, debbano perdere la vita al fronte perché i deboli di mente ed elementi sociali irresponsabili possano avere un’esistenza sicura negli istituti psichiatrici».

La citazione apparirà azzardata o addirittura fuori luogo ma a me pare invece che una riflessione vada fatta se perfino le Nazioni Unite hanno sentito il dovere di lanciare un allarme rispetto a scelte mediche che tendono a privilegiare chi ha maggiori speranze di sopravvivere.

Catalina Devandas Aguilar, esperta indipendente delle Nazioni Unite e Relatrice Speciale sui diritti delle persone con disabilità, ha affermato che «le persone con disabilità devono avere la garanzia che la loro sopravvivenza sia considerata una priorità». Come a dire: non sarà la stessa partita dell’ardita citazione ma è lo stesso campo da gioco.

Tutelare i diritti delle minoranze

Al coro dei preoccupati si stanno aggiungendo in rapida successione associazioni per la tutela dei diritti delle minoranze di ogni tipo (disabili, autistici, affetti da malattie degenerative ecc.)

Evidentemente qualcuno sente nell’aria un rischio, ovvero quello che un algoritmo possa sostituire il medico nel decidere quando alzare il pollice e quando abbassarlo, sgravandolo non tanto o soltanto dai contenziosi giudiziari ma dall’insonnia conseguente al naufragio emotivo.

Eppure il problema esiste, e non può essere eluso: tre pazienti, un respiratore. È crudo a dirsi ma in alcune zone d’Italia è già così. Chi ne ha diritto? La logica del primo arrivato non avrebbe nulla di meno inquietante della logica dell’aspettativa di vita. Fra le due, anzi, la prima è, se possibile, più pilatesca, assegnando al fato, alla casualità, la roulette della vita e della morte.

Ma la logica dell’aspettativa di vita, più volte richiamata dal documento della SIAARTI è più “etica”?

Un dato: l’aspettativa di vita alla nascita di un cittadino italiano (dati OMS 2015) è 82,7 anni, quella di un cittadino del Ciad è 49,44 anni. Forzando le raccomandazioni del richiamato documento, meglio dare assistenza respiratoria ad un cittadino italiano di 70 anni che a uno del Ciad di 45.

Perché questa forzatura? Perché il dato dimostra con evidenza schiacciante che l’aspettativa di vita è strettamente correlata a variabili socioeconomiche, quella che Michael Marmot, dell’University College di Londra ha definito status syndrome, locuzione che vuole designare un meccanismo universale di spiegazione delle differenze nella salute che nascono da disuguglianze sociali.

I dati non sono paragonabili, dirà qualcuno, e poi stiamo parlano di cittadini dello stesso paese…

Orbene, lungo il percorso della metropolitana che attraversa Washington DC dai quartieri poveri e neri a sud est fino alla ricca e bianca contea di Montgomery si guadagna un anno e mezzo di speranza di vita ogni miglio, per un totale di vent’anni di differenza nella speranza di vita fra gli estremi.

Ma allora, quando la SIAARTI suggerisce di privilegiare la «maggior speranza di vita», a cosa si riferisce? E quando parla di «giustizia distributiva» e di «appropriata allocazione di risorse sanitarie limitate»? Qual è la radice etica di queste affermazioni? Quale patto sociale fra cittadino e Stato è in gioco?

Un uomo di 70 anni, con un livello di salute compatibile con l’età, (iperteso in trattamento, diabetico, un po’ in sovrappeso) che ha lavorato fino a 5 anni prima pensando che si era guadagnato (o meglio, che aveva pagato) il diritto all’assistenza, potrebbe venire invitato a farsi da parte perché un giovane ha più diritto di lui all’ambìto respiratore. E se il giovane ha un’aspettativa di vita modesta perché ha avuto stili di vita propri della povertà e dell’emarginazione, se è psicotico e fuma due pacchetti di sigarette al giorno?

Sento già qualcuno che ribolle. E allora? Come fare? Le risorse sono davvero limitate, alla fine bisognerà pur decidere!

La responsabilità etica del medico

Ed è proprio questo il punto. Magistrati e medici sono fra le categorie nel pubblico meglio pagate e tale riconoscimento economico deriva, oltre che dai lunghi percorsi di studio necessari al raggiungimento della posizione, da una particolare, enorme, difficilissima, responsabilità etica connessa all’esercizio di queste funzioni. Tale responsabilità non è in alcun modo alienabile, né in tempi di pace né, tantomeno, in tempi di guerra.

Può essere, dovrebbe essere, sostenuta e affiancata, ma non può mai essere sostituita da un algoritmo.

Chi sono i 7 anestesisti che hanno redatto le “raccomandazioni” SIAARTI? Nessun dubbio sul loro spessore scientifico, ma vi pare che i valori in gioco siano esclusivamente scientifici?

L’art. 32 della Costituzione l’hanno scritto i medici? No, lo scrissero, dopo settimane di dibattiti, i padri costituenti fra i quali v’erano personaggi della levatura di Aldo Moro, all’indomani di quel terribile periodo di compressione delle libertà individuali che fu l’esperienza nazifascista.

V’era consapevolezza, come fu esplicitamente richiamato dal relatore dell’articolo, che i valori in gioco erano fra i più delicati e importanti per quella che voleva costituirsi come una moderna democrazia.

Se dunque oggi dev’esserci un dibattito su questi temi di fondamentale importanza, si deve allargarlo a tutte le forze sociali e politiche, coinvolgendo il mondo degli intellettuali e le istituzioni religiose, i cittadini, perché si sta parlando di quale società vogliamo, in uno scenario in cui oggi è la pandemia a imporre le scelte, domani potrà essere il sovraffollamento del pianeta.

Tutto giusto, dirà qualcuno (o tutto sbagliato, certamente…) e intanto?

La lunga premessa aveva il senso di collocare la questione nell’ambito che merita. Non dunque nel chiuso delle consorterie scientifiche (mi si perdoni la malizia retorica) ma nel cuore della dimensione etica. Questa si colloca, da Ippocrate in qua, nello spazio delicato e sacro della relazione medico/paziente, nel quale ognuno deve potersi assumere la responsabilità di ciò che fa e non fa, di ciò che dona e di ciò che sottrae.

Troppo, mi si dirà. Forse è vero, ma, se non si è disponibili a questo, si è sbagliato mestiere. È uno spazio di solitudine in cui l’altro, il morente, non ha nemmeno il respiro per dire, per affermare? È possibile. E allora sarà il medico, magari in un orizzonte di ragionamenti non così distanti da quelli espressi nel documento SIAARTI, a decidere, auspicabilmente affiancato e sostenuto dall’organizzazione e da chi, in questa, ha il mandato e lo “spessore” per affiancarlo in un compito così difficile.

Non potrà essere mai un algoritmo.

Ecco allora che l’aspettativa di vita uscirà da calcoli anagrafici e non si sottrarrà alla consapevolezza di come ognuno di noi è, in fondo, figlio del luogo in cui la cicogna ha deciso di aprire il becco.

Un ultima nota, abusando della vostra pazienza.

Il Governo si appresta a votare un emendamento (Marcucci) che limita fortemente la responsabilità penale degli operatori e, badate bene, delle Aziende Sanitarie impegnate nel fronteggiare la pandemia. Il rischio è quello di offrire una sorta di ombrello giuridico a logiche e interventi che semmai meriterebbero il massimo di attenzione e dibattito. Oltre che incostituzionale, la cosa mi pare un segnale assai grave, non molto distante da quell’attribuzione di potere assoluto che l’Ungheria ha voluto assegnare a Orban.

Tempi durissimi, difficilissimi. Ma è in questi momenti che occorre fare quadrato per difendere quei valori che ci sono stati trasmessi proprio da quella generazione che oggi rischia di esser lasciata morire in base all’algoritmo di una piccola società scientifica.

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