Riina e l’umanità della pena

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L’oggetto del contenzioso

Con sentenza del 5 giugno, la Suprema Corte di cassazione – Sezione I Penale, ha annullato l’ordinanza (n. 299 del 20 maggio 2016) del Tribunale di sorveglianza di Bologna con la quale respingeva le richieste, avanzate dai legali di Totò Riina, di differimento dell’esecuzione penale o, in subordine, di detenzione domiciliare.

Il respingimento fondava su una duplice motivazione:

1) la persistenza della pericolosità sociale vista «la posizione di vertice assoluto dell’organizzazione criminale Cosa Nostra» occupata da Totò Riina, ancora pienamente operante (non essendo necessaria la “prestanza fisica” per esercitarla) e rispetto alla quale non ha mai manifestato volontà di dissociazione;

2) l’esclusione sia della «incompatibilità della detenzione con le condizioni cliniche», sia «il superamento dei limiti imposti dal rispetto dei principi costituzionali del senso di umanità della pena e del diritto alla salute».

A giudizio della Suprema Corte, la valutazione del Tribunale di sorveglianza è «carente e, in alcuni tratti, contraddittoria» e impone di riesaminare la richiesta, allo scopo di «attualizzare» le valutazioni sia della pericolosità sia della compatibilità della detenzione in carcere con il senso di umanità della pena.

La discussione occupata

Ordinanza e sentenza hanno comprensibilmente acceso il dibattito, che però è opportuno mantenere nell’alveo proprio. Il “diritto a morire dignitosamente” precede e sussiste anche nel criminale più sanguinario e non può essere negato dall’ordinamento giuridico al quale sono indisponibili i diritti fondamentali della persona. Il Tribunale di sorveglianza è invitato a verificare se «attualmente» persista la pericolosità sociale di Totò Riina e se lo stato di detenzione comporti per lui una sofferenza e un’afflizione tale da andare oltre la legittima esecuzione di una pena.

Sono esclusi dal merito altre considerazioni. Il riferimento a elementi di ritorsione vendicativa («perché avrebbe diritto a morire dignitosamente chi è stato riconosciuto colpevole di efferatezze disumane verso così tante vittime?») snatura il senso costituzionale della pena (cf. art. 27). Evocare l’imperdonabile (e drammaticamente reale) trascuratezza delle istituzioni verso le vittime per escludere il rispetto di criteri di umanità verso i colpevoli è duplicare, non riparare, l’errore.

Sono incluse, al di là del merito, altre considerazioni. Il caso di Totò Riina riaccende il dibattito sulla funzione della pena. Non può venire applicata in senso vendicativo, ma nemmeno può ignorare il reale ravvedimento del condannato. Lo Stato non può venir meno al senso di umanità che le leggi custodiscono, ma nemmeno può ignorare la sacrosanta richiesta delle vittime e dell’intera collettività di un ravvedimento del colpevole. A questo è ordinata la pena, sia essa carcere o qualunque altra forma. La detenzione domiciliare o il differimento dell’esecuzione penale non sono concessioni premiali, anche se più spesso vengono lette così, ma modalità di esecuzione della pena.

Nel contesto della discussione sulla funzione della pena – e sulla sua quasi totale equiparazione al carcere – il caso di Totò Riina evidenzia quanto siano ancora aperte a monte le contraddizioni di istituti come l’ergastolo ostativo («deve morire in carcere») e il 41bis (cf. La fine e il fine della pena). Difficile elaborare sentenze eque in un contesto giuridico inquinato da illegittimità.


Alcuni interventi nel dibattito.

 

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2 Commenti

  1. Patrizia Pane 8 giugno 2017
  2. Patrizia Pane 7 giugno 2017

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