Il suicidio assistito promuove la libertà?

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“Sentenza storica”: così è stata salutata la decisione assunta il 24 settembre u.s. dalla Corte Costituzionale sul caso Fabio Antoniani (Dj Fabo)–Marco Cappato. Generalmente accolta positivamente dallo schieramento politico culturale laico e progressista e con allarmismo dal mondo cattolico.

Tento una riflessione che va al di là di quello che generalmente è stato detto, partendo proprio dal contenuto della sentenza.

Sono quattro le condizioni poste dalla Corte Costituzionale affinché l’aiuto al suicidio non sia punibile. Le parole testuali del comunicato della Corte sono semplici e comprensibili da tutti: «La Corte ha ritenuto non punibile… chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».

Come si capisce, ci sono tre condizioni che potremmo definire “oggettive”:

– sostegno vitale del malato da parte di trattamenti,

– presenza di una patologia irreversibile,

– capacità di intendere e di volere della persona che desidera terminare la propria vita.

La quarta condizione è invece “soggettiva”: già è problematico misurare la sofferenza fisica, impossibile sarebbe valutare quella psicologica.

La Corte Costituzionale ha sentenziato che, sotto le condizioni suindicate, l’agevolazione del suicidio assistito non è punibile, dichiarando implicitamente lecito e quindi depenalizzando il suicidio assistito come molti titoli di giornali hanno messo in evidenza.

Certo, ha posto dei limiti apparentemente circostanziali e rimanda in ogni caso al rispetto di altre leggi ma – diciamolo – il messaggio che passa è che, d’ora in poi, il suicidio assistito in Italia è permesso.

suicidio assistitoNon possiamo tacere una possibile conseguenza che potrebbe derivare dalla sentenza della Corte.

L’uccisione su richiesta (suicidio assistito) sotto l’aspetto di una morte frutto della propria autodeterminazione potrebbe far scaturire un dovere di aiutare ad effettuarla, dovere che, nelle situazioni disperate (nei limiti circostanziali indicati dalla sentenza della Corte), potrebbe prevalere sulla proibizione di uccidere (omicidio). Nella coscienza degli operatori sanitari si presenterebbe un dilemma morale che inevitabilmente, per essere sciolto, dovrà avvalersi dell’obiezione di coscienza. Il diritto di autodeterminazione del malato non può collidere col diritto alla libertà di coscienza degli altri.

Tornando alla sentenza, sono convinto che presto ci si dimenticherà delle clausole, limitandosi a ricordare la prevalenza della presunta autodeterminazione su tutti gli altri vincoli. Andrebbe infatti valutato se il malato è libero da condizionamenti sociali, non è soggetto a depressione legata al suo stato di salute e alla malattia, quali sono le sue reali condizioni psicologiche e non solo quelle fisiche. In ogni caso, il risultato è che il suicidio assistito è lecito.

Tutta l’argomentazione di coloro che hanno accolto positivamente il pronunciamento della Corte poggia su due taciti presupposti:

– la libertà morale del malato a morire o ad essere aiutato a morire dipende dalla possibilità di considerare il desiderio di morire di un moribondo come l’ultima espressione della sua autodeterminazione morale

– e dalla possibilità che l’appagamento di tale desiderio rappresenti per lui un aiuto reale e, per di più, l’unico aiuto che noi possiamo dargli nella sua dolorosa situazione.

Ambedue i presupposti risultano però oltremodo problematici sia per quanto riguarda la possibilità di motivarli filosoficamente, sia anche tenendo conto dell’esperienza medica a contatto con i moribondi.

La chimera di un’autodeterminazione assoluta

La richiesta di poter determinare la propria morte appare qui come l’ultima conseguenza del diritto di determinare la propria vita, diritto che, ovviamente, ci riconosciamo in tutti gli altri campi dell’esistenza. Secondo questa concezione, l’autodeterminazione morale comprende soprattutto la capacità di giudicare il valore della propria esistenza. La distinzione tra una vita degna e una non degna di essere vissuta non risulta più moralmente ripugnante, ma serve presuntamente addirittura a tutelare la dignità umana, qualora riesca ad escludere con sicurezza i criteri dell’utilità sociale e altri interessi sovraordinati all’individuo.

Secondo questa concezione, la vita umana non ha quindi alcun valore intrinseco, ma solo un valore estrinseco, in quanto essa è il presupposto necessario per la realizzazione di altri valori e beni. Vale la pena tutelarla solo nella misura in cui essa è sperimentata come preziosa dalla persona interessata in base alle proprie idee. Il rispetto della sua autodeterminazione morale può addirittura rendere doveroso soddisfare il suo desiderio di morire. Costringere a vivere uno che ha voglia di morire appare in questa prospettiva altrettanto riprovevole quanto condannare a morire uno che ha voglia di vivere. Comprendiamo come, di fronte a questa corrispondenza simmetrica, va giustamente fatto notare che la “condanna” a vivere è sempre temporalmente limitata, mentre la condanna a morire è irreversibile e illimitata.

La presupposta autonomia della persona, che dovrebbe esternarsi nella capacità di giudicare il valore della propria vita al riparo da influssi estranei (nella sentenza si parla di «proposito autonomamente e liberamente formatosi») e unicamente in base alla prospettiva interiore della propria esistenza, scaturisce da una concezione irrelata e atomistica che non tiene conto effettivamente dell’esistenza umana.

Suicidio assistito

L’immagine che un uomo ha di sé dipende, non da ultimo, da chi egli è agli occhi degli altri; la valutazione del valore della propria vita rappresenta nell’una o nell’altra direzione sempre anche una reazione alla valutazione che egli riceve nel giudizio degli altri. Si pensi per esempio al condizionamento, come afferma papa Francesco, di una «cultura dello scarto», per la quale dare la morte o aiutare a raggiungerla sono due strade «sbrigative» di fronte a scelte «che non sono espressione di libertà, quando includono lo scarto del malato come possibilità», o una «falsa compassione» di fronte alla richiesta «di essere aiutati ad anticipare la morte».

Una decisione libera, ponderata e razionale circa la propria vita, un bilancio definitivo del valore complessivo della propria esistenza, che non subisca l’influsso dell’atteggiamento delle persone circostanti e dell’ambiente socio-culturale, è pertanto una costruzione chimerica.

Si possono sì stabilire delle regole filosofiche e dei criteri per una simile valutazione indipendente della propria vita (come le prime tre condizioni oggettive della sentenza), però nella vita reale non si riesce mai ad approdare ad un risultato del genere e, meno che mai, nell’ultima sua fase in cui si può ancora trovare un senso della propria esistenza solo se siamo sorretti dalla solidarietà e dalla vicinanza di altre creature umane.

La chiara linea ideale di demarcazione, che dovrebbe escludere dall’autonoma valutazione del valore della propria vita e le considerazioni utilitaristiche sociali e la considerazione di interessi estranei, non è perciò una linea che si possa seguire nel mondo reale.

Si prospetta piuttosto molto concretamente la possibilità che, in una società in cui il suicidio su richiesta è considerato moralmente lecito, i moribondi finiscano in una situazione in cui sono costretti a considerare la manifestazione di un corrispondente desiderio come l’adempimento di un ultimo dovere di buona creanza verso i viventi.

Il dubbio se sia possibile considerare il desiderio di morire espresso da pazienti gravemente malati come il risultato indipendente dai processi razionali di valutazione, che scaturiscono unicamente dalla conoscenza interiore dell’esistenza individuale, è confermato dai rapporti concreti della prassi clinica.

Proprio in un avanzato stadio della malattia il desiderio di morire rappresenta spesso una comunicazione velata che, a un livello più profondo, intende dire qualcosa di diverso dal significato diretto delle parole adoperate.

Inoltre, nelle singole fasi che precedono la morte, l’umore del malato cambia spesso; il desiderio di morire presto, espresso in una fase di depressione, può cedere successivamente il posto a un nuovo desiderio di vivere, che permette al moribondo di accettare consapevolmente la propria morte. Dietro si cela il desiderio di essere in quel frangente efficacemente aiutati, desiderio che un’interpretazione letterale della richiesta di essere aiutato a morire potrebbe solo deludere.

Aiutare a morire: l’unico rimedio?

Dobbiamo perciò mettere in dubbio anche la validità della seconda premessa, secondo la quale aiutare a morire (suicidio assistito o eutanasia) sarebbe l’ultimo aiuto che noi possiamo ancora prestare a un uomo per alleviare la morte e liberarlo dalle sue sofferenze.

La morte concordata (suicidio assistito e eutanasia) ha piuttosto il sapore di una sconfitta, che depone le armi di fronte al compito di un’assistenza umana del moribondo, anziché di un aiuto reale per lui.

Alla base del prolungamento artificiale della vita ad ogni costo e della provocazione intenzionale della morte – anche se scaturiscono da intenzioni sotto molti aspetti opposte –, c’è un atteggiamento affine che impedisce di accettare la morte. Il filosofo belga Jean-François Malherbe descrive in questo senso l’accanimento terapeutico nell’ultima fase della malattia e l’eutanasia come «i due tentativi simmetrici di evitare l’incontro con la morte».

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Un superamento dell’apparente alternativa della vita e della morte concordata di pazienti gravemente malati si ha invece nel progetto di un aiuto a morire che, mediante l’assistenza infermieristica, un’efficace lotta contro il dolore secondo i principi della moderna terapia palliativa e un’assistenza umana, pone il malato nella condizione di accettare la propria morte.

Se è improprio parlare di diritto a morire, non dimentichiamo che il magistero della Chiesa è chiaro: non c’è un diritto di morire ma sicuramente un “diritto a morire in tutta serenità, con dignità umana e cristiana”.

Verso un approccio sapienziale e non ideologico

È necessario però aiutarci tutti a uscire dalle ideologie. Non serve ribadire una verità perenne senza confrontarsi con la storia che cambia, con le situazioni particolari. È necessario non fermarsi solo a ribadire i princìpi generali, non trincerarsi dietro ad essi, ma bisogna avere il coraggio di prendere in mano i casi uno per uno e con essi confrontarsi con sapiente discernimento.

È quanto afferma papa Francesco: «Per stabilire se un intervento medico clinicamente appropriato sia effettivamente proporzionato, non è sufficiente applicare in modo meccanico una regola generale. Occorre un attento discernimento, che consideri l’oggetto morale, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. La dimensione personale e relazionale della vita – e del morire stesso, che è pur sempre un momento estremo del vivere – deve avere, nella cura e nell’accompagnamento del malato, uno spazio adeguato alla dignità dell’essere umano. In questo percorso la persona malata riveste il ruolo principale. Lo dice con chiarezza il Catechismo della Chiesa cattolica: “Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità” (ibid.). È anzitutto lui che ha titolo, ovviamente in dialogo con i medici, di valutare i trattamenti che gli vengono proposti e giudicare sulla loro effettiva proporzionalità nella situazione concreta, rendendone doverosa la rinuncia qualora tale proporzionalità fosse riconosciuta mancante. È una valutazione non facile nell’odierna attività medica, in cui la relazione terapeutica si fa sempre più frammentata e l’atto medico deve assumere molteplici mediazioni, richieste dal contesto tecnologico e organizzativo» (Francesco, Messaggio ai partecipanti al meeting regionale europeo della World Medical Association sulle questioni del fine-vita, 16-17 novembre 2017).

Ci sono situazioni nelle quali non c’è obbligo di prolungare la vita umana e nelle quali si può lasciar morire il paziente. È opportuno precisare che lasciar morire non è lo stesso che far morire (realtà, quest’ultima, che si identifica con l’eutanasia). In tali situazioni non è immorale e, a volte, è raccomandabile sospendere il trattamento. Pio XII si espresse nel seguente modo:

«Per quanto riguarda il dovere proprio e indipendente della famiglia, di solito non richiede altro che l’uso di mezzi ordinari. Pertanto, se sembra che il tentativo di rianimazione sia davvero un peso per la famiglia che in coscienza non può esserle imposto, può legittimamente insistere sul fatto che il medico interrompa i suoi tentativi, e quest’ultimo può legittimamente accedervi. In questo caso non esiste una disposizione diretta della vita del paziente, né l’eutanasia, che non sarebbe mai lecita» (Pio XII, Ai membri dell’Istituto Italiano di Genetica “Gregorio Mendel” sulla rianimazione e respirazione artificiale, 24 novembre 1957).

Il cardinal Villot, segretario di Stato, nella lettera diretta, a nome del papa, al segretario della Federazione generale delle assistenze mediche cattoliche, ha scritto (3 ottobre 1970): «In molti casi non sarebbe inutile tortura imporre la rianimazione vegetativa nell’ultima fase di un’infermità incurabile? Il dovere del medico consiste piuttosto nel fare il possibile per calmare il dolore invece che allungare il maggior tempo possibile, con qualunque mezzo e in qualsiasi condizione, una vita che non è più del tutto umana e che dirige naturalmente verso il compimento».

Così il cardinal Martini nel libro Credere e conoscere, scritto con Ignazio Marino: «La crescente capacità terapeutica della medicina consente di protrarre la vita pure in condizioni un tempo impensabili. Senz’altro il progresso medico è assai positivo, ma allo stesso tempo le nuove tecnologie che permettono interventi sempre più efficaci sul corpo umano, richiedono un supplemento di saggezza per non prolungare i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona».

Il prolungamento della vita ha dei criteri di discernimento:

– il non obbligo di utilizzare mezzi terapeutici sproporzionati alla dignità della persona e alla qualità desiderabile di vita;

– l’opportunità di eliminare l’accanimento terapeutico;

– soprattutto, il diritto ad avere una morte degna.

Sacra non è la vita, ma l’uomo. Se è sacro l’uomo, costui ha il diritto di vedere rispettata la sua dignità e il suo voler morire. Il diritto dell’uomo a morire degnamente suppone una serie di esigenze che devono essere realizzate. Indichiamo le seguenti come le più rilevanti:

* attenzione al moribondo con tutti i mezzi che attualmente sono posseduti dalla scienza medica: per alleviare il suo dolore e prolungare la sua vita umana;

* non privare il morire del suo carattere di azione personale: il morire è l’azione suprema dell’uomo;

* liberare la morte dall’occultamento a cui è sottomessa nella società attuale: la morte è rinchiusa attualmente nella clandestinità;

* organizzare un servizio ospedaliero adeguato, affinché la morte sia un avvenimento assunto coscientemente dall’uomo e vissuto in chiave comunitaria;

* favorire l’esperienza del mistero umano-religioso della morte: l’assistenza religiosa acquisisce in tali circostanze un rilievo speciale;

* fornire al moribondo tutti i rimedi opportuni per calmare il dolore, anche se questo tipo di terapia dovesse comportare un’abbreviazione della vita e portasse il moribondo ad uno stato di incoscienza.

Comprendiamo come la strada, per quanto riguarda il fine vita, è andare verso un tavolo di lavoro con più voci, con chi è impegnato nel settore anzitutto, affinché come Chiesa possiamo offrire parole e soluzioni che sappiano tenere conto di quanto sia complessa questa vicenda.

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Lo stesso papa Francesco nel Discorso i partecipanti al Meeting Regionale Europeo della World Medical Association sulle questioni del fine-vita (16-17 novembre 2017) ha affermato:

«In seno alle società democratiche, argomenti delicati come questi vanno affrontati con pacatezza: in modo serio e riflessivo, e ben disposti a trovare soluzioni – anche normative – il più possibile condivise. Da una parte, infatti, occorre tenere conto della diversità delle visioni del mondo, delle convinzioni etiche e delle appartenenze religiose, in un clima di reciproco ascolto e accoglienza».

Alla Chiesa spetta anzitutto la lotta affinché nessuno abbia a chiedere la morte. Dobbiamo cercare più sostegno verso le persone che si trovano in determinate situazioni, perché si affermi una cultura della solidarietà.

Nell’ottica della fede non è l’uomo a darsi la vita, e neppure dipende totalmente da lui conservarla; è difficile, perciò, sostenere che egli possa rivendicare, in termini assoluti, il diritto di togliersela. Se la vita è, dall’inizio alla fine, in mani altrui, ne viene che è dovere dell’uomo riconciliarsi con i limiti della propria esistenza e accettare i confini che le sono tracciati dall’esterno; in altre parole, ricuperare la dignità e il riconoscimento della dipendenza da Dio, non in una prospettiva di vago e sterile provvidenzialismo, ma di vero impegno, rendono meno difficile anche l’accoglienza della situazione-limite. «C’è una passività – ha scritto E. Jungel – senza di cui l’uomo non sarebbe umano. Di essa fa parte il fatto che siamo partoriti. Di essa fa parte il fatto che siamo amati. Di essa fa parte il fatto che moriamo».

Domenico Marrone è presbitero dell’arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie, docente di Teologia morale fondamentale presso l’ISSR metropolitano “S. Sabino” – Bari.

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