La tortura privata

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tortura

Il reato di tortura, introdotto nel nostro ordinamento dalla legge 14 luglio 2017 n. 110 che ha inserito nel codice penale gli articoli 613 bis e 613 ter, è a geometria variabile, perché comprende sia la tortura privata (c.d. comune o orizzontale o impropria: articolo 513 bis, primo comma) sia la tortura pubblica (c.d. di Stato o verticale o propria: articolo 513 bis, secondo comma).

Solo nel caso di tortura pubblica è richiesto che il soggetto attivo sia un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio. Nel caso di tortura privata, invece, trattasi di “reato comune”, potendo essere realizzato da chiunque.

La sofferenza fisica o psichica, inflitta ad una persona, è solo un aspetto del reato, stando il contenuto preciso dell’offesa penalmente rilevante nella lesione della “dignità umana”, che costituisce la cifra comune della lesività specifica, tanto del reato di tortura privata quanto del reato di tortura pubblica, e che si traduce nell’asservimento della persona umana e, di conseguenza, nell’arbitraria negazione dei suoi diritti fondamentali inviolabili.

La condanna per il reato di tortura privata può essere inflitta in concorso con altri reati, come la violenza sessuale (articolo 609 bis del codice penale) aggravata da relazione affettiva (articolo 609 ter-n.. 5 quater del codice penale) e i maltrattamenti contro familiari e conviventi (articolo 572 del codice penale).

È quanto affermato dalla Corte di Cassazione-Sezione terza penale, nella sentenza n. 32380 depositata il 31 agosto 2021, che scaturisce dal ricorso avverso la decisione della Corte di appello di Napoli che aveva confermato la dichiarazione di colpevolezza dell’imputato, condannandolo alla pena ritenuta di giustizia, per i reati, avvinti dal vincolo della continuazione, di:

  • maltrattamenti contro familiari e conviventi (articolo 572 del codice penale) aggravati dall’aver agito per motivi abietti e futili e con crudeltà verso la persona offesa, perché maltrattava la convivente con una serie di atti lesivi della sua integrità fisica e morale, sottoponendola ad un regime di vita vessatorio e violento, così da rendere abitualmente dolorosa e mortificante la relazione;
  • violenza sessuale (articolo 609-bis del codice penale) aggravata dalla relazione affettiva (articolo 609 ter-n. 5 quater del codice penale), perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, anche in tempi diversi, con violenza consistita nel colpire la persona offesa con schiaffi e pugni al volto e alla testa, nello sbatterla con la testa contro il muro al punto da provocarle una fuoriuscita di sangue, profferendo insulti sessisti e epiteti irripetibili, la costringeva a subire e a compiere atti sessuali a cui la vittima non riusciva ad opporsi a causa delle continue e reiterate violenze subite, della possenza fisica dell’imputato, del timore di conseguenze per sé e per i figli;
  • tortura privata (articolo 613-bis del codice penale), perché, con violenze e minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagionava alla persona offesa, privata della libertà personale (in quanto la chiudeva a chiave in casa, portando con sé le chiavi), acute sofferenze fisiche (marchiandola a fuoco sul fianco sinistro, costringendola a rimanere nuda sotto la doccia fredda, percuotendola con le mani e con corpi contundenti, stringendola con le mani al collo fino a rischiare di soffocarla), un verificabile trauma psichico e una lesione personale dalla quale derivava una malattia nel corpo (ecchimosi diffuse, escoriazioni diffuse, frattura delle costole).
Il reato di tortura

La sentenza, ribadendo in parte il contenuto di un’analoga pronuncia del 2019, ha il pregio di fornire alcuni importanti chiarimenti sul reato di tortura introdotto, nel contesto di un travagliato iter parlamentare, dalla legge 14 luglio 2017 n. 110 (“Introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano”), con l’inserimento nel codice penale di due nuovi articoli: l’articolo 613 bis rubricato Tortura e l’articolo 613 ter rubricato Istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura.

Va ricordato che i lavori parlamentari concernenti la suddetta legge subirono una brusca accelerazione a seguito della stigmatizzazione, da parte della Corte Europea dei Diritti Umani, della mancanza nel sistema penale italiano di una specifica disposizione incriminatrice della tortura. Si fa riferimento, cioè, alla sentenza Bertesaghi, Gallo e altri c. Italia, resa dalla Corte di Strasburgo il 22 giugno 2017 e alla sentenza Cestaro c. Italia del 7 aprile 2014, concernenti entrambi i noti gravi fatti commessi dalla polizia in occasione del “summit G8” di Genova nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001 all’interno della scuola Diaz-Pertini.

Il presente scritto ha l’obiettivo di fornire, alla luce della (fino ad oggi, esigua) giurisprudenza emessa dalla Suprema Corte, una disamina del reato di tortura così come disciplinato dal legislatore italiano.

Il bene giuridico tutelato dal reato di tortura

Gli articoli 613 bis e 613 ter, disciplinanti il reato di tortura, sono stati collocati dal legislatore italiano all’interno del Titolo XII del codice penale relativo ai delitti contro la persona, e più precisamente, nel Capo III, che disciplina i delitti contro la libertà individuale, a chiusura della Sezione relativa ai delitti contro la libertà morale.

Tale collocazione nel codice penale induce a ritenere che il bene giuridico tutelato debba identificarsi nella tutela della c.d. libertà morale e psichica individuale, quale bene chiaramente distinto dalla (mera) integrità fisica, tutelata dai delitti di percosse o lesioni (magari, variamente aggravate).

Il bene giuridico tutelato – scrivono i giudici della Suprema Corte – ha tuttavia un contenuto più pregnante. «Consistendo la tortura nell’inflizione brutale di sofferenze corporali, essa determina un grave e prolungato patimento fisico e morale dell’essere umano che la patisce, cosicché la sua particolarità risiede nella conclamata e terribile attitudine che la stessa possiede e cioè quella di assoggettare completamente la persona la quale, in balìa dell’arbitrio altrui, è trasformata da essere umano in cosa, ossia in una res oggetto di accanimento.

La sofferenza corporale, fisica e/o psichica, inflitta a una persona umana è tuttavia solo una componente della fattispecie incriminatrice, ma il contenuto preciso dell’offesa penalmente rilevante sta nella lesione della dignità umana, che costituisce la cifra comune della lesività specifica, tanto del reato di tortura privata quanto del reato di tortura pubblica, e che si traduce nell’asservimento della persona umana e, di conseguenza, nell’arbitraria negazione dei suoi diritti fondamentali inviolabili».

Il reato commesso in uno Stato estero

In tema di repressione delle attività legate al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, la Corte di Cassazione ha affermato che, in assenza di un fondamento normativo idoneo a derogare al principio di territorialità, non sussiste la giurisdizione del giudice italiano sul reato di tortura commesso dallo straniero in danno dello straniero e interamente consumato nel territorio di uno Stato estero (territorio libico), seppure connessi con reati (come l’associazione per delinquere e il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina) per i quali sussiste la giurisdizione italiana.

Tortura privata e tortura pubblica

Prima di richiamare sinteticamente la lettura della norma offerta dalla Corte, conviene riportare integralmente i primi due commi dell’articolo 613 bis del codice penale:

  • Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.
  • Se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni.

In primo luogo, la Corte prende atto della scelta del legislatore italiano di non identificare, come suggerito dal diritto internazionale, in via esclusiva la tortura con il reato proprio del funzionario pubblico (tortura pubblica), ma di includere nella nozione anche le condotte poste in essere da soggetti privi di tale qualifica (tortura privata).

Una soluzione, questa, che, pur non condivisa da quanti ritengono che il fenomeno della tortura, nella sua essenza, includa esclusivamente i fatti di violenza fisica o morale perpetrati da pubblici ufficiali nei confronti di individui che, per varie ragioni, si trovano sottoposti al loro potere, tiene conto dell’esperienza proveniente dalla realtà criminologica che dimostra come il delitto di tortura possa essere commesso anche nelle relazioni private o addirittura – come nel caso preso in esame dalla pronuncia segnalata – familiari o parafamiliari.

«La tortura pubblica – scrivono i giudici – non può assumere forma circostanziale rispetto a quella privata, ma costituisce un reato autonomo sia per la natura del soggetto attivo, sia per l’indipendenza del trattamento sanzionatorio rispetto alla tortura privata e sia per la necessità di un obbligo di incriminazione specifico di quest’ultima fattispecie, non anche dell’altra, obbligo che sarebbe da considerare disatteso, con diretta collisione del diritto interno con quello internazionale, nel caso in cui si considerasse il secondo comma dell’articolo 613-bis del codice penale una circostanza di un altro reato, e cioè della tortura privata, il cui obbligo di incriminazione non era vietato ma neppure imposto, diversamente dalla tortura di Stato, dalle carte internazionali».

Disamina del reato

Quanto all’analisi del contenuto della norma, dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, fino ad oggi disponibile, si possono trarre i seguenti punti fermi:

  • l’aggettivo “gravi” va riferito tanto alle minacce quanto alle violenze;
  • occorre che le violenze e le minacce siano realizzate reiteratamente in più riprese o, comunque, con modalità tali che si possa parlare di più condotte, perché realizzate in un arco di tempo abbastanza lungo, o perché, per le modalità di esecuzione, possano distinguersi plurime manifestazioni di violenza fisica o morale;
  • il trattamento inumano e degradante per la dignità della persona è elemento alternativo alla pluralità di azioni violente; ne consegue che la tortura, così come disciplinata dalla legge italiana, è un reato solo eventualmente abituale, potendo essere integrato anche da una sola condotta che comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona;
  • anche per la crudeltà non è richiesta la reiterazione, integrando essa un requisito intrinsecamente dotato di forte carica valoriale che rimanda ad un livello di riprovevolezza dell’agire particolarmente elevato;
  • le acute sofferenze fisiche o l’insorgenza di un verificabile trauma psichico non debbono necessariamente sfociare in lesioni personali, essendo prevista una specifica aggravante in proposito contemplata dal comma 4 dell’art. 613 bis del codice penale;
  • non è necessario che il trauma psichico sia durevole, rientrando nella nozione anche un trauma a carattere transeunte, purché sia verificabile;
  • non è necessario che la privazione della libertà personale consegua ad un provvedimento giurisdizionale e non deve consistere necessariamente in una forma di detenzione, potendo risolversi in una qualsiasi limitazione della libertà di movimento imposta arbitrariamente alla vittima;
  • le condizioni di minorata difesa fanno riferimento a una situazione in cui la vittima, a fronte della condotta criminosa, non può opporre resistenza, a causa di particolari fattori ambientali, temporali o personali;
  • il trauma psichico può essere anche solo temporaneo, non essendo necessario che l’esperienza dolorosa si traduca in una sindrome di “trauma psicologico strutturato”;

l’aggettivo “verificabile” riferito al trauma psichico rimanda ad un trauma riscontrabile oggettivamente, attraverso l’accertamento probatorio, il quale non deve necessariamente contemplare un riscontro nosografico o peritale.

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