Il vangelo ai carcerati in tempo di Covid

di:

carcere pastorale

Pandemia e carcere sono luoghi simbolici oltreché luoghi di umanità, esperienze “pesanti”, cariche di tutto il gravame della carne individuale e del corpo sociale.

La pandemia, con tutto il suo portato simbolico, ha colpito quel crocevia simbolico che è il carcere, nel quale trova espressione a un caro prezzo – sia umano, sia sociale; sia affettivo, sia economico – il modello di riferimento – personale e sociale – nel rapporto con il male, la devianza, la frattura.

La pena conseguente a un giudizio, che nell’opinione comune si identifica con il carcere (equazione da superare prima di affrontare qualunque discorso sulla risposta da dare al male intenzionale), e le forme della sua esecuzione dicono della nostra civiltà e dei paradigmi fondamentali attorno ai quali costruiamo la sua trama.

Verrebbe da lanciare subito un lazo verso la teologia, con le sue categorie di merito e castigo, premio e punizione, paradiso e inferno, giocate su più registri nella sua storia, ma sempre impertinenti là dove prendono – indebitamente, alla luce del vangelo di Gesù – il posto di categorie fondanti.

Non nego pertinenza all’obiezione di chi ritenesse troppo leggero e perfino irrispettoso avvicinare il tema pandemia e carcere dal versante della valenza simbolica. Tuttavia, a partire dalla vocazione del ministero ecclesiale e dalle forme dell’annuncio evangelico, bene conosciamo la forza del simbolo e siamo consapevoli che gran parte dell’azione (salvifica) ecclesiale viene veicolata dal simbolo, nel quale il sacramento ha il suo culmine.

Portato simbolico della pandemia

La pandemia porta in sé l’esperienza del male cosmico e pervasivo (pan-demia, appunto) che tutto e tutti avvolge, rendendo impossibile – se non a prezzo della vita – l’indifferenza.

Le forme di prevenzione e le strategie di immunizzazione non escludono da questa esperienza, ma ne sono una risposta, oculata, ma pur sempre in reazione alla minaccia del contagio.

Da quando, sul finire del 2019, il coronavirus ha cominciato a espandere il suo contagio nella forma del Covid-19 e, in particolare, da quando, nel febbraio 2020, ne abbiamo avuto consapevolezza anche in Europa, la nostra vita non è più la stessa. La vita sul pianeta non è più la stessa (e probabilmente non sarà mai più la stessa). Il confronto con la minaccia invisibile e potente del virus è inevitabile e ogni aspetto del vivere, anche quello intimo e spirituale, ne è toccato.

È pandemia non solo perché si estende a “tutti il popolo” (etimologia letterale della parola), ma perché avvolge ogni cosa e ogni aspetto del vivere. E, aggiungo, si estende nel tempo fino a svuotare di realismo ogni previsione di superamento.

Nel settembre 2020, quando la calda estate al tramonto sembrava alludere a un tramonto anche del contagio, prendevo la parola su SettimanaNews per sostenere (in controtendenza) che «i tempi di “attenzione” se non di “chiusura” sono ancora lunghi davanti a noi, allora quello che stiamo vivendo è interpretato meglio dalle metafore bibliche dell’esilio, piuttosto che da quelle dell’esodo (iniziato con grande forza simbolica a Quaresima)».

A prescindere dal fatto che l’introduzione del vaccino su larga scala lasci sperare un contenimento degli effetti letali del contagio entro l’anno – poco ancora si conosce del perdurare degli effetti immunizzanti del vaccino e ancora meno delle capacità di mutazione del virus –, è assodato che la vita sul pianeta non sarà più la stessa. Il Covid-19, a differenza di altre pandemie, non rende immuni gli ospiti sopravvissuti e l’assunzione del vaccino non impedisce di candidarsi a veicoli del contagio.

Il Covid-19 si propone come immagine simbolo di un male pervasivo, nello spazio e nel tempo, cosmico e “originale” perché sancisce un punto di non ritorno, una piega secca nel corso lineare della storia a deviarla verso percorsi che nessuno aveva programmato e che costringe a riprogrammare ogni percorso. Lo stiamo sperimentando nel nostro “particolare”: la vita di parrocchia, la vita delle comunità, delle persone non è e non sarà mai più la stessa di prima.

Esperienza di male cosmico, dunque. Davanti a ogni male, una delle prime domande che si levano d’istinto istiga alla ricerca di un colpevole. Dalle ingenue disattenzioni nei laboratori di Wuhan agli intricati complotti che accusano la CIA e ogni superpotenza. È una dinamica spontanea, che si è accomodata nell’“ovvio” del pensare comune: di chi è la colpa?

Davanti a ogni delitto e perfino davanti a ogni sciagura o disastro naturale, la prima reazione riportata dai notiziari non annuncia percorsi di ricerca delle cause, prime e ultime, ma anzitutto l’“apertura delle indagini” per la ricerca di un colpevole.

«La responsabilità penale è personale», sancisce la nostra Costituzione all’art. 27 (lo stesso che definisce la funzione della pena) e questo è fuori discussione. Mi premeva soltanto sottolineare come, davanti a ogni esperienza di male – sia locale, sia cosmico –, la ricerca di un colpevole possa alimentare un artificioso diversivo, un alibi deresponsabilizzante. «Non possiamo pretendere di essere sani in un mondo che è malato»,[1] ammonisce papa Francesco.

Stringendo sull’obiettivo, l’intento è affermare che il carcere è il grande simbolo dei nostri modelli di risposta all’esperienza del male e, come ogni nostra risposta, porta con sé anche la tentazione deresponsabilizzante.

Lasciando da parte le paradossali congetture di chi attribuisce in toto ai comportamenti umani o, viceversa, alla punizione divina il diffondersi della pandemia, il primo appello che ricavo dall’esperienza di questo male generale e impersonale, che però colpisce singole persone, è quello di convertirci alla corresponsabilità.

Anche il male causato, “al di là di ogni ragionevole dubbio”, da una responsabilità personale, esige un’assunzione di responsabilità non come autori o complici, ma responsabili della risposta che formuliamo o, indirettamente, confermiamo.

È questo il primo grande, fondante appello che l’esperienza della pandemia produce a livello simbolico: quale risposta voglio e devo dare, io come singolo e noi come società, al male?

L’annuncio del Vangelo è annuncio “lieto” perché prospetta una salvezza. Una salvezza per grazia, certo, non per merito. Grazia che non annulla, anzi fonda, la responsabilità del dopo: il responsum nella responsabilitas.

Il simbolismo del Covid-19

Il contrasto alla pandemia Covid-19 porta con sé valenze simboliche incisive. In particolare: il “distanziamento sociale” fino all’“isolamento fiduciario”, la percezione dell’altro (e di sé) come possibile minaccia, i timori verso l’intimità e la prossimità, il ricorso necessario a “presidi sanitari” (in particolare la mascherina).

Abbiamo tutti sperimentato, soprattutto durante i periodi di chiusura (lockdown), la sofferenza procurata dall’astensione dagli incontri, la riduzione delle attività che riempiono la giornata, la costrizione al chiuso di un ambiente ristretto, in solitudine o in compagnia delle sempre medesime persone, il peso della monotonia, dell’insensatezza del tempo sprecato e le tante forme di somatizzazione, dalla bulimia alimentare alle reazioni cutanee.

Sono tutti elementi simbolico-reali, di valenza psicologica e sociale, che da sempre hanno caratterizzato i comportamenti adottati verso le persone giudicate colpevoli. Nei primi giorni della chiusura – marzo 2020 – non era raro sentir dire, riferendosi alle persone detenute, «tanto loro ci sono abituate». Conclusione ignorante e maldicente; primo, perché a certe condizioni disumanizzanti – salvo patologie difensive – non ci si abitua; secondo, perché le modalità della chiusura per chi le subisce in aggiunta a quelle ordinarie della detenzione sono ben più onerose.

La persona detenuta non può telefonare ogni volta che vuole, perché tutto è regolamentato; e si può immaginare l’ansia montante di chi, oltre a non poter nemmeno vedere i propri cari, sa che sono più o meno esposti al pericolo del contagio ma non può avere informazioni sulla loro salute. Sono notti insonni, paragonabili a quelle attraversate da quanti hanno avuto i propri cari isolati nei reparti Covid.

A causa del sovraffollamento cronico (persistente nonostante le misure – dall’effetto di fatto blando – adottate in riposta alla pandemia), la persona detenuta è costretta a condividere 20 ore al giorno uno spazio ai limiti della tortura con una o più persone che non ha scelto come membri del proprio nucleo affettivo, anzi, molte volte incompatibili.

La sospensione delle attività non significa soltanto inazione per una persona detenuta, ma ulteriore riduzione al chiuso di spazi angusti e di compagnie non scelte.

a) Il carcere come forma di “distanziamento sociale” che, nel caso dell’ergastolo, assume anche le forme dell’isolamento a vita. Perfino l’architettura urbana sta a indicare l’idea del distanziamento. Le carceri vengono costruite fuori dal perimetro urbano della città. Si intende così indicare che quel gruppo di cittadini – colpevoli o anche solo presunti – si preferisce tenerli “fuori”, distanti dai percorsi della vita laboriosa. Reclusione comporta esclusione. Paradossale perché l’esecuzione penale si prefigge proprio il reinserimento e la socializzazione.

Nel caso della pandemia, e al di là delle intenzioni, il distanziamento ha lo scopo effettivo di tutelare la popolazione detenuta perché è da fuori che viene portato il contagio dentro. Nello stesso tempo, tutto ciò che si fa per tutelare chi è “dentro” ha un risvolto opportunistico per chi è “fuori”. Quando, infatti, il virus ha cominciato a superare le mura delle carceri, queste si sono trasformate in un brodo di coltura, viste le condizioni effettive della detenzione, per le quali è semplicemente impossibile osservare le norme profilattiche.

Si aprirebbe qui un lungo discorso sull’imposizione di comportamenti imputati alla responsabilità personale, senza assicurare le condizioni minime perché sia possibile adottarli. È ipocrisia pretendere il distanziamento di almeno 1 metro e ½ se poi i due inquilini della medesima cella sono costretti a dormire (e passare tante altre ore del giorno) a una distanza non superiore a 85 cm.

b) La persona condannata vede il reato commesso nel passato trasformarsi in una minaccia presente e futura in forza della quale viene confinata lontano dai luoghi della convivenza civile. Anche al termine dell’esecuzione penale – per gran parte in carcere – la persona si porta dietro lo stigma che lo allontana, di fatto, dalle opportunità di un reinserimento in vista del quale appunto era stata sottoposta a “trattamento” rieducativo.

Come nel caso del Covid-19, l’aver “attraversato” gli effetti del “contagio” (del male) non restituisce immunità e si viene (per) sempre considerati portatori di una minaccia. È paradossale che la società dubiti essa stessa delle misure adottate per “rieducare” chi si sia reso responsabile di un male.

c) I timori verso la prossimità si riflettono anche all’interno della popolazione detenuta, perché la prossimità è per tanti aspetti necessaria alla vita quotidiana. Oltre alla vita in celle condivise, si dipende dal farsi vicino di qualcun altro per ritirare il cibo, per presentare una qualunque richiesta, per ottenere qualche indumento.

In riferimento a queste situazioni, vanno tenute in conto le esposizioni del personale di Polizia penitenziaria, sanitario ed educativo. Si dipende in ogni momento da contatti che si presentano come pericolosi, senza che sia offerta alternativa per evitarli.

d) Intuitiva la valenza simbolica della mascherina, che nasconde il volto e taglia le frequenze delle emozioni. Il carcere è luogo incardinato sul nascondimento della propria identità, oppure si è paradossalmente incoraggiati a costruirne una compiacente, strumentale al raggiungimento di benefici.

Lo stesso processo giudiziario non si può dire sia intrinsecamente orientato a far emergere la verità né dei fatti né dei protagonisti; piuttosto è condotto in modo da far emergere quella porzione di verità che più giova o procura meno danno. Come la mascherina che non nasconde tutto il volto, così processo ed esecuzione penale occultano o piegano la verità a protezione di sé.

D’altra parte, il carcere stesso è una maschera che la società stende sul volto inaccettabile della realtà per non essere raggiunti dalla provocazione pungente che questo lancia alla nostra responsabilità. In termini evidentemente ingenui, potremmo dire che è il tappeto sotto il quale nascondiamo la polvere. In termini più cruenti, preferiamo “chiudere e buttar via la chiave”.

Anche in questo caso siamo dinanzi a un paradosso, perché siamo tutti consapevoli che non c’è giustizia senza verità. Ci difendiamo dalla verità anziché ricercarla perché la ricerca della giustizia nella verità è laboriosa e comporta assunzione di responsabilità da entrambe le parti, innocenti o colpevoli che siano.

I verbi della risposta

Davanti a questo sistema simbolico, nel quale pandemia e carcere si intersecano e si sovrappongono, quale risposta evangelica è possibile declinare perché il doppio significato di salus – salute e salvezza – possa trovare parole e azioni in un tentativo per quanto timido? Si possono individuare e incoraggiare nella comunità cristiana atteggiamenti che non separino sicurezza e liberazione, conversione e riscatto, individuale e sociale?

La mira punta in alto, forse troppo. Ma va riconosciuta dignità alla debolezza sproporzionata della risposta. Anche in questo caso, ci si pone su un livello simbolico, consapevoli che questo è sempre possibile e comunque efficace.

Rimanere

Il primo e forse più consistente atteggiamento si manifesta nella scelta di “rimanere”. Non sottrarsi alla sfida del possibile anche quando insufficiente se non impotente. È il tratto caratteristico e fondante della scelta messa in atto dai singoli e dalle associazioni negli angusti spazi di intervento lasciati dalla pandemia.

Nelle pagine del Vangelo di Giovanni (Gv 15,1-17) proposte nel tempo di Pasqua, colpisce l’insistenza di Gesù sul verbo “rimanere”. C’è una qualità dell’amore custodita in questo verbo.

Quando ci troviamo costretti all’inazione, quando sembra non ci sia più niente da fare, si può – ancora – rimanere. Anche quando non si prospettano progressi, anche quando gli obiettivi sono falliti o destinati a fallire, messi in “quarantena”; anche quando tutto sembra perduto, si può rimanere. Ed è quel rimanere che fa la differenza. Rimanere è quel modo dell’amore che non cerca risultati, o, meglio, non li pretende e si misura a partire da questi.

Il carcere nel tempo della pandemia dispiega tutta la sua resistenza alla conversione, a ricevere la luce e la forza del bene. Si irrigidisce sulla difensiva.

In questo tempo sempre troppo in affanno sugli obiettivi e sulle performances – un tempo che ci spinge ad essere performanti in tutto, perfino nelle relazioni – la parola di Gesù indica una proposta semplice e anche un po’ disarmante: amore non come fare, forse nemmeno come essere, ma amore come continuare ad esserci.

Si fanno più evidenti gli “strappi” con i quali la vita ci costringe (inevitabilmente mi verrebbe da dire) a fare i conti. Incomprensioni, tensioni, relazioni che rischiano di scoppiare, amicizie, rapporti fraterni o sentimentali che naufragano nel nulla. Quando le relazioni deflagrano, il rischio è quello di incattivirsi o, peggio, di diventare cinici e pensare che una bella colata di lava a seppellire tutto possa essere la soluzione definitiva. O la colata di cemento di un carcere.

Eppure, anche quando la storia si strappa, anziché voltare le spalle, rimanere è sempre possibile. Non perché ci si attende un cambiamento dall’altro, una sua conversione, un passo indietro o in avanti, un ripensamento; ma perché rimanere è la qualità dell’amore fedele, di una fedeltà che dobbiamo a noi stessi prima ancora che all’altro.

È suggestiva l’immagine della vigna che Gesù propone per spiegare questa qualità dell’amore che sa rimanere. Rimanere, dimorare, restare uniti alla vite, perdurare nell’amore è la condizione necessaria, anche quando non sufficiente, per sperare nel frutto. Non “separare” per “sperare”.

Il mondo vegetale ci è maestro nell’arte del rimanere. Imparare dagli alberi che, senza le velleità dell’immediato, di movimenti inutili e ansiogeni, sanno rimanere nel tempo (addirittura secoli), rinnovando l’aria che li nutre e rinnovando se stessi ad ogni stagione.

Continuare ad esserci è il modo della “contemplazione”. Forse gli alberi – e il mondo vegetale tutto – sono le creature più contemplative: capaci di fare spazio, tempo e tempio, in sé al respiro della vita, totalmente immerse in quel respiro. E insieme è il modo dell’“azione” che purifica l’aria e porta un frutto che non è destinato al consumo per se stessi.

Riparare

Il verbo rimanere è l’alveo in cui può scorrere, come acqua che risana, il verbo riparare. Per proporsi di riparare bisogna essere capaci di rimanere. Nel “continuare ad esserci”, “re-stando” nella condizione del male, trova senso e orientamento la riparazione.

Riparare chiede di sostare in un tempo continuato e disteso, non violento, e non nel “mordi e fuggi”, nel “tutto e subito”, nella fretta angosciata del “troppo da fare” o del “niente da fare”.

Riparare è assunzione di responsabilità nei confronti del male, consapevoli che ogni riparazione non si produce da sola e invoca l’intervento benevolo di un “altro”. Significa riportare a nuova vita qualcosa che si era rotto, che era inutilizzato, da buttare.

Il carcere è considerato nel pensiero “mondano” il luogo nel quale chiudere dentro chi si è reso responsabile di un male. E magari “buttare la chiave”. È la cultura dello “scarto” ripetutamente stigmatizzata da papa Francesco. Il vangelo di Gesù è maestro di un altro “pensiero”: «nessuno vada perduto», nessuna vita va mai buttata via. Ogni persona – proprio perché io per primo – ha bisogno e merita riparazione.

Può essere un’azione molto creativa riparare. I giapponesi hanno da secoli dato vita ad una pratica, chiamata kintsugi, che consiste nel riparare il vasellame rotto servendosi di oro colato, utilizzato come collante tra i diversi frammenti. È l’arte di esaltare le ferite. Il risultato della riparazione è un oggetto che mostra visibilmente le tracce delle ferite, in quanto l’oro utilizzato è ben evidente, ma che ha fatto proprio di queste ferite, di queste cicatrici, un elemento originale e prezioso.

Riparare significa offrire protezione, rifugio. Riparo, appunto. E il Regno è come un granellino di senape – un nonnulla che, seminato, cresce fino a diventare così grande che i suoi rami possono offrire riparo agli uccelli del cielo. Ancora un’immagine vegetale. Imparare dagli alberi a farsi e offrire riparo, ad essere (continuare ad essere) riparazione.

Riparare significa rimediare a un errore, cercando nella strada del dialogo strumenti nuovi per incontrare l’altro e rimediare al male compiuto. La giustizia offerta da Dio e proposta alla nostra realizzazione storica non può essere che giustizia “riparativa”. Senza ritorsioni. Dare spazio alla parola, cercare le parole. Le nostre relazioni, così costitutivamente fragili, hanno costantemente bisogno di parole. Parole come fili di rammendo che rinforzano il tessuto sdrucito, prima che lo strappo diventi lacerazione irrecuperabile.

Etimologicamente, riparare ha anche un altro significato. Qui gioca l’origine provenzale: repairar, dal latino tardo repatriare, ossia “far ritorno in patria”. Riparare significa trovare o ritrovare un posto in cui stare, in cui dimorare. Ritrovare se stessi. Al cor gentil re(m)paira sempre amore, cantava il bolognese Guido Guinizelli. Amore ritorna e prende dimora sempre in un cuore gentile. Ritornare e dimorare. Per rimanere.

È la riparazione sempre possibile, anche nel tempo dell’azione impossibile. Farsi albero. Resina profumata per sigillare cicatrici, rami frondosi per ospitare ogni passero che desideri un po’ di ombra, un rifugio, un’accoglienza temporanea, o una casa per chi è lontano da casa. Albero radicato nella carità, che “continua ad esserci” anche quando continua a non poter fare.

Intercedere

Tra rimanere e riparare, rispondendo peraltro alla vocazione propria del suo significato, si colloca il terzo verbo, intercedere.

L’etimologia ce lo presenta composto di inter (nel mezzo) e cedere (andare). Di significato analogo i verbi composti dalla stessa preposizione e da altri verbi di moto: intervenire, intercorrere, interporre.

Nel suo uso più elitario indica un intervallo di tempo («fra il concepimento e la nascita intercedono nove mesi») o una qualità relazionale («fra di noi sono interceduti buoni rapporti»).

Nel suo uso più comune indica lo stare in mezzo come mediatore a favore di qualcuno; è il significato biblico («[Cristo] può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore» Eb 7,25) e liturgico.

Intercedere significa farsi avanti (cedere) nel mezzo (inter) (per rimanere) e tessere un dialogo, un rapporto; mettere in relazione le due parti e spendere parole a favore dell’una e dell’altra; per bene-dire, dire bene dell’una all’altra parte. Forti soltanto della speranza, non della garanzia, che l’inter-vento possa portare frutto.

È porsi fra il cielo e la terra – di nuovo, come un albero – perché al cielo arrivi un po’ della nostra arida terra e il cielo risponda mandando un po’ di pioggia, un po’ di cielo sulla terra. Alla terra il frutto non è possibile se non si mette in mezzo un albero che, radicato al suolo, raccolga le gocce di cielo e le porti alle gemme. Nemmeno al cielo il frutto è possibile se non si mette in mezzo un albero – anche soltanto una pianticella – che, impastando acqua e terra, faccia germogliare il frutto.

È stare nel mezzo a muovere il centrocampo, lasciando che siano altri a portare a meta (goal). «Sempre lì, lì nel mezzo; finché ce n’hai stai lì», cantava Ligabue Una vita da mediano.

Nel mezzo fra dentro e fuori, fra “noi” e “loro”, tra attesa e operosità, tra paura e speranza.

Intercedere come forma attiva del rimanere. Coniugazione dell’indicativo semplice del rimanere, per farsi testimoni anche nell’assenza del Dio assente che non smette di essere il Dio-con-noi. Senza cedere alla tentazione di riempire di noi o anche di Chiesa quel vuoto che ci parla di Dio.

Gesù, rivelazione di Dio, ha parlato per 3 anni e ha taciuto per 30. Ma per 30 anni ha continuato ad esserci. Il silenzio ci parla di Dio più spesso della parola? Ci dice della modalità più comune dell’essere il Dio-con-noi.

Chi è capace non solo di gridare / ma anche di ascoltare, / intende la risposta. / Questa risposta è il silenzio. / È il silenzio eterno. / Chi è capace non solo di ascoltare, / ma anche di amare, / intende questo silenzio / come la parola di Dio. / Le creature parlano con dei suoni. / La parola di Dio è silenzio. / La segreta parola d’amore di Dio / non può essere altro che silenzio. (Simone Weil)

La pandemia ci ha insegnato che siamo Chiesa anche senza tempio, liturgia anche senza riti, figli che non possono chiamare nessuno “padre” su questa terra.

Pregando, assumo la forma simbolica dell’intercedere e ne faccio sacramento (simbolo efficace). Non sono cielo, non sono terra, sono l’albero che li fa incontrare.

Il satana si pone in mezzo fra gli uomini e Dio, fra i colpevoli e il Santo, per tentarlo; per convincerlo che non vale “la pena” dare la sua vita per noi, che lo ricambiamo col male; non valeva “la pena” progettare il creato e l’uomo visto lo scempio che ne stiamo facendo; non vale “la pena” rimanere con noi (il suo sogno: Dio-con-noi) e riparare, perché sempre daccapo siamo capaci di rompere, dividere (dià-bolon), smembrare (il contrario del Sint Unum). Meglio darci per persi che perdere la propria vita per noi.

Intercedere è l’azione contraria a quella del satana (che trova argomenti da dispiegare nei salotti televisivi): non dar nulla e nessuno per perso e “continuare ad esserci” per “riparare”.

Ciò che facciamo per guarire la pandemia non dimentichiamolo quando si tratta di salvare dal male “colpevole”.

Imparare dagli alberi

a stare zitti

e lavorare

senza aspettarsi nulla

soltanto un po’ di cielo

Riparare le ferite

con resina odorosa

e andare avanti

 

 

Intercedere

gocce di benedizione

per dare Cielo alla terra

e terra al Cielo

 


[1] Lettera del Santo Padre al Presidente della Repubblica di Colombia in occasione della Giornata Mondiale dell’Ambiente.

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Un commento

  1. davide 23 giugno 2021

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