Cari studenti, la storia ci insegna

di:

agli studenti

Espressioni come “l’assalto alla Bastiglia”, “la presa del Palazzo d’Inverno”, o più sottilmente “l’incendio del Reichstag”, vengono sprecate in questi giorni per descrivere i gravissimi fatti accaduti a Washington il 6 gennaio scorso all’United States Capitol, sede del Congresso americano, il parlamento federale che detiene il potere di fare le leggi.

Sempre convinti di quanto sia importante che l’attualità entri nelle aule scolastiche, ancor più se virtuali e quindi solo apparentemente più immateriali e asettiche, ci sarebbero già molti stimoli per aprire il libro di storia alle pagine giuste e ripassare (o trattare per la prima volta l’argomento se non lo si è ancora affrontato) la nascita degli Stati Uniti d’America, la Costituzione americana e la formazione del Congresso del 1787, innanzitutto; poi quando avvennero, perché e a quali eventi diedero inizio i fatti sopra citati e i motivi per cui vengono  paragonati alla rivolta dei sostenitori di Trump.

Discutere poi con gli studenti se e quanto  questi paragoni possano essere più o meno impropri è un’altra imperdibile occasione per rendere  una lezione di storia viva, utile e interessante. Mi pare però che, nel commentare le vicende americane successive all’elezione di Joe Biden e la non accettazione del risultato elettorale da parte del presidente uscente Trump,  si potrebbero richiamare altri insegnamenti che la storia ci ha lasciato a prezzo di tanta inaudita violenza e di infinito dolore.

Penso al mito della vittoria mutilata, con le rivendicazioni della Dalmazia e di Fiume,  tema che Gabriele d’Annunzio sviluppò con forza nella Lettera ai Dalmati scritta nel 1919[1] e che fu ripreso dai nazionalisti per esprimere tutta la delusione dei reduci e la crisi economica, politica e istituzionale dell’Italia dopo la prima guerra mondiale. E anche la suggestione potente della “pugnalata alle spalle” con cui Hitler sollevava i Tedeschi dal grave peso della sconfitta della guerra e dal senso di colpa per le frustranti e durissime condizioni di pace a cui la Germania era stata sottoposta con il trattato di Versailles.

Né Mussolini né Hitler si basavano su fatti storici e su un tradimento o un inganno reale, come invece sostennero con il fine di dare un idolo polemico comune che raccogliesse tutte le facce del malcontento, della rabbia  e del malessere di un’intera generazione, quella che porterà in Italia allo squadrismo fascista e al progressivo smantellamento dello stato liberale e in Germania alla (resistibile, di brechtiana memoria) ascesa al potere  di Hitler. Antiparlamentarismo e culto della personalità sono altre due componenti comuni ai totalitarismi del Novecento: il fascismo italiano, il nazionalsocialismo tedesco e il comunismo sovietico.

«Il senso della misura, la valutazione tattica delle opportunità, la prudenza calcolata, che costituivano le caratteristiche del suo realismo politico, vennero meno con l’iperplasia del culto di sé, e la passione per una mitica e astratta “grandezza” cui si sentiva destinato. Mussolini, suscitatore di miti, – sì, è di lui che lo storico Emilio Gentile sta parlando! Cosa credevate!… -, rimase prigioniero del proprio mito e non seppe più distinguere tra questo e la realtà. (…) Questo fenomeno non era soltanto la conseguenza di un’evidente decadenza senile, ma anche il prodotto di una miscela di residui psicologici, propri del suo carattere, e di motivazioni culturali che risalivano agli anni della sua giovinezza, e si erano sviluppate e consolidate negli anni del potere». [2]

Hitler, dal canto suo,  si presentava come l’incarnazione della volontà del “popolo tedesco”, la sua coscienza e la fonte stessa del diritto e della  legittimità. Se leggiamo i messaggi fra Hitler e il comandante della sesta armata tedesca a Stalingrado, il feldmaresciallo Friedrich von Paulus, abbiamo un’altra prova della non accettazione della realtà della sconfitta: «Von Paulus: “Le truppe non hanno munizioni o vettovaglie. (…) Il nemico si è incuneato in molti settori; il fronte è infranto … Ogni altra difesa è priva di senso. La catastrofe è inevitabile. Per salvare gli uomini ancora in vita prego di darmi immediatamente l’autorizzazione di capitolare”. Hitler: “La capitolazione è esclusa. L’armata adempia al suo compito storico”» (24 gennaio 1943).

Mentre il fascismo si costruì culturalmente e politicamente in gran parte dopo la presa del potere, il nazionalsocialismo fu molto esplicito fin dall’inizio circa il suo contenuto ideologico e nessuno poté sostenere di non aver potuto valutare la portata e il significato di quanto stava accadendo. C’è quindi una precisa responsabilità storica di tutte le forze sociali che per interessi personali hanno appoggiato Hitler.

Circa la responsabilità del partito repubblicano rispetto alla chiamata alle armi di Trump, non solo quella del comizio del 6 gennaio conclusosi con le parole: «Non accetteremo più quello che sta succedendo», che ha portato all’assalto a Capitol Hill, ma anche a quella già implicita nell’appello ai Proud Boys nel corso del primo dibattito con Biden, lo scrittore newyorkese Paul Auster ha dichiarato che, rifuggendo dal generalizzare, si può tuttavia sostenere che «negli ultimi quattro anni Trump si è impadronito del partito rendendolo a sua immagine e somiglianza e il partito ha avuto la grave responsabilità di assecondare questo disegno senza opporsi. Non ci voleva molto a capire dove ci avrebbe portato una persona come Trump».[3]

Vale la pena rileggere la Lettera ai cappellani militari e la Lettera ai giudici[4] scritte da don Milani insieme ai suoi ragazzi, esempi di scrittura collettiva come le nostre Costituzioni democratiche: sia la prima, che «è una scorsa su cento anni di storia alla luce del verbo ripudia», sia la seconda, che chiarisce «ciò che è scuola buona», mostrano l’importanza della conoscenza della storia.

A don Milani fa eco  papa Francesco: «Se una persona vi fa una proposta e vi dice di ignorare la storia, di non fare tesoro dell’esperienza degli anziani, di  disprezzare tutto ciò che è passato e guardare solo al futuro che lui vi offre, non è forse questo un modo facile di attirarvi con la sua proposta per farvi fare solo quello che lui vi dice? Quella persona ha bisogno che siate vuoti, sradicati, diffidenti di tutto, perché possiate fidarvi solo delle sue promesse e sottomettervi ai suoi piani. E’ così che funzionano le ideologie di diversi colori che distruggono (o de-costruiscono) tutto ciò che è diverso e in questo modo possono dominare senza opposizioni. A tale scopo hanno bisogno di giovani che disprezzino la storia, che rifiutino la ricchezza spirituale e umana che è stata tramandata attraverso le generazioni, che ignorino tutto ciò che li ha preceduti».[5]

E se i giovani studiano la storia non potranno non essere d’accordo con la conclusione della Lettera ai giudici: «Non posso fare a meno di dichiararvi esplicitamente che continuerò ad insegnare ai miei ragazzi quel che ho insegnato fino ad ora. Cioè che se un ufficiale darà loro ordini da paranoico hanno solo il dovere di legarlo ben stretto e portarlo in una casa di cura. Spero che in tutto il mondo i miei colleghi preti e maestri d’ogni religione e d’ogni scuola insegneranno come  me. Poi forse qualche generale troverà ugualmente il meschino che obbedisce e così non  riusciremo a salvare l’umanità. Non è un motivo per non fare fino in fondo il nostro dovere di maestri. Se non potremo salvare l’umanità ci salveremo almeno l’anima».


[1] Il 14 gennaio 1919 la Gazzetta di Venezia pubblicava la Lettera ai Dalmati, pagine di passione in cui d’Annunzio riaffermava l’italianità delle terre negate all’Italia dal presidente Wilson: “(…) Il 7 di maggio, prima della guerra, due giorni dopo la Sagra dei Mille in Quarto, quando fissavamo le nostre mete ultime e certe, io attestai come la Dalmazia appartenesse all’Italia per diritto divino e umano: per la grazia di Dio, il quale foggia le figure terrestri in tal modo che ciascuna stirpe vi riconosca scolpitamente la sorte sua; per la volontà dell’uomo che moltiplica la bellezza delle rive innalzandovi i monumenti delle sue glorie e intagliandovi i segni delle sue più ardue speranze”. E le parole del poeta si fanno violente contro coloro che voglio imporre una pace ingiusta all’Italia: “Io e i miei compagni non vorremmo più essere italiani di una Italia rammollita dai fomenti transatlantici del dottor Wilson e amputata dalla chirurgia transalpina del dottor Clemenceau. Quel che fu gridato al popolo di Roma in una sera di tumulto, vale anche per oggi, ancor più vale per oggi. ̓Non ossi, non tozzi, non cenci, non baratti, non truffe. Basta! Rovesciate i banchi! Spezzate le false bilance! Se sarà necessario affronteremo la nuova congiura alla maniera degli Arditi, con una bomba in ciascuna mano e con la lama fra i denti ̔.”

[2] Da Emilio Gentile, Fascismo. Storia e interpretazioni, Edizioni Laterza, 2002. Pag.142.

[3] La Repubblica, 7 gennaio 2020.

[4] L’obbedienza non è più una virtù. Documenti del processo di don Milani. Libreria Editrice fiorentina, (nuova edizione) 2014.

[5] Esortazione apostolica post-sinodale Christus vivit (25 marzo 2019), 181 e Enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale Fratelli tutti, (3 ottobre 2020), 13.

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