Il precariato dell’IRC

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La notizia è di ieri: un ulteriore tentativo di “emendare” il concorso per Insegnanti di Religione e portarlo nell’alveo della comune esperienza di tutti gli altri docenti è stato bocciato. Così un insegnante con 20 anni di anzianità di servizio dovrà fare il concorso alle medesime condizioni di un insegnante che ha solo 180 giorni di esperienza. Per nessuna categoria di insegnanti questo sarebbe non dico accettabile, ma pensabile. Sembra però che questa situazione di minorità strutturale del docente IRC non sia soltanto il frutto di una “politica cinica e bara”, ma anche di una certa “disponibilità episcopale”, contro la quale alcuni vescovi avevano già sollevato a suo tempo le loro giuste obiezioni (cf. qui).  Il criterio di giustizia sembra affidato ad una sostanziale “precarietà”. Sembra giusto perciò riprendere una riflessione, che avevo proposta circa 6 mesi fa, e che tenta di fermarsi proprio su questa “precarietà” che rischia di essere assunta come tema “ideologico”, anche da parte di uomini di Chiesa.

La parola “precario”, nella lingua italiana, ha fondamentalmente tre accezioni. Negli ultimi decenni è stata usata prevalentemente dal diritto del lavoro ed è diventata un aggettivo (o un pronome) che indica un tipo di contratto (o di assenza di contratto) privo di stabilità.

Ma resta, al di sotto di questo significato prevalente, che ultimamente è diventato primario, un secondo senso, che appare in frasi classiche come “in equilibrio precario”, dove si esce dalla accezione giuridica e si entra nella esperienza della “instabilità”, della incertezza e della provvisorietà. Precaria può essere, così, oltre all’equilibrio, la salute, la vita, l’esistenza di uomini e donne.

Ma non basta: vi è un terzo livello del significato, molto più nascosto e meno evidente, ma sotto sotto originario e determinante: precario, come indica il vocabolario Treccani, viene da “prex, precis”, preghiera, e indica “ciò che viene ottenuto con preghiere, che viene concesso ad arbitrio del concedente”.

Precario vs stabile è il docente

Una riflessione sul “precariato” – sostantivo che generalizza una condizione e ne fa una forma oggettiva e soggettiva comune, quasi uno “status” – passa necessariamente attraverso queste tre accezioni.  Una forma di contratto, una forma di vita e una forma di relazione “orante” tra diritti, doveri e doni. E qui, a mio avviso si apre la prospettiva su cui possiamo soffermarci a riflettere.

Nei mesi scorsi, infatti, a causa della attenzione dedicata al prossimo Concorso per IRC ci si era interrogati sulla figura del docente di religione e sulla sua “duplice” dipendenza: dallo Stato e dalla Chiesa. E sembrava che, in una concezione “tridentina” del concorso, vi fosse una duplice precarietà del docente IRC: sia nei confronti della Chiesa, sia nei confronti dello Stato.

Il duplice ordinamento produce precarietà

La logica di un “duplice ordinamento”, competente sulla medesima persona, implica una condizione particolarmente complessa, ossia una “esposizione” ad un duplice “ordo”, quello civile e quello ecclesiale. Un effetto di questa condizione è che si può essere “stabili” solo se lo si è su entrambi i fronti.

Ma per risultare precari è sufficiente che uno dei due fronti eserciti diversamente la propria autorità. Ed è proprio questo il caso. Si tratta di pensare meglio la relazione tra questi due ordinamenti – tra loro non assimilabili – per qualificare non solo soggettivamente l’insegnante, ma oggettivamente l’insegnamento.

Vorrei provare a dirlo in forma di alcune tesi, per suscitare la dovuta attenzione, per revocare quella “precarietà concettuale” che minaccia altamente quella economica e personale.

  • La presenza di una “formazione teologica” all’interno della scuola pubblica è una opportunità che non contraddice la laicità dello Stato.
  • La tradizione cristiana e cattolica, che è oggetto dell’insegnamento, ha una forma scientifica di comprensione e di ricerca che ha statuto accademico.
  • Entrambi gli ordinamenti nominano e riconoscono il singolo docente, che risponde diversamente all’uno e all’altro ordo.
  • Professione civile e ministero ecclesiale si intrecciano e possono costituire, indirettamente o direttamente, un motivo di precarietà
  • Nel docente IRC un ministero ecclesiale viene posto al servizio della comunità civile e una professione civile diventa ricchezza di confronto e di dialogo per la comunità ecclesiale.
  • Questa correlazione si riverbera sulle autorità. Su quella statale, che può considerare la tradizione religiosa (cattolica) una ricchezza per il confronto culturale e civile
  • Su quella ecclesiale, che può scoprire come la mediazione civile del sapere cristiano possa condurlo a maggiore chiarezza, a più profonda essenzialità, a più convincente figura.
Letture inadeguate

In una lettura distorta, che viene da fuori ma anche da dentro la Chiesa, si pensa talora così: la Chiesa ha avuto dallo Stato il privilegio di fare catechismo a scuola, a spese della collettività. Ci sono anche uomini politici che non riescono a uscire da questa versione di comodo. Se così fosse, dovremmo smettere domani.

Ma altrettanto distorta è la lettura opposta: approfittiamo dello spazio scolastico per sostenere la dottrina cattolica, il catechismo e la devozione dei giovani. Anche qui non ci siamo. In questo insegnamento si tratta di un “compito professionale” di mediazione culturale della tradizione, non di indottrinamento o di proselitismo.

Ma qui, in un certo modo, scopriamo un orizzonte forse impensato. In che senso anche i vescovi sono chiamati a uscire dalla “precarietà”? Perché il Vescovo, di fronte al compito di “concedere la idoneità”, è posto di fronte ad un profondo rinnovamento del proprio ministero?

Che cosa fa il Vescovo col docente IRC?

Il vescovo che dichiara la “idoneità” è un “funzionario del papa”? No. E’ un “potente locale” che controlla il suo drappello di insegnanti? No. E’ un controllore della conformità del docente alla dottrina ecclesiale? Solo in parte e secondariamente. Il Vescovo esercita la vigilanza sulle parole. Ma lo fa come “profeta”, non come “controllore”.

Questo compito di vigilanza merita una parola di chiarimento, perché è su “vigilanza” che l’immaginario deve essere corretto. Le immagini tipiche della vigilanza non sono i “vigili” o i “metronotte”. Nella Chiesa si vigila non contro i ladri, ma per attendere il Signore. I modelli sono le vergini sagge e il servo che moltiplica i talenti.

Vigilare significa restare in attesa del bene. Il Vescovo attende il bene che viene. E per questo custodisce la potenza delle parole. Vuole riconoscere idonei quei docenti che si siano nutriti dello scrosciare delle cascate delle Scritture, che sappiano sondare gli abissi del cuore, che possano discutere a fondo sui misteri centrali della fede, che non si accontentino di buone risposte ma insegnino a porre le buone domande, che abbiano imparato a non lasciar tramontare il sole sul proprio rancore, che conoscano le storia dei mondo e dei cristiani col gusto della sorpresa e della meraviglia. Il Vescovo è anzitutto un sacramento, non un burocrate.

Ed entra nella esperienza del docente come “uomo libero di buone parole”, che si prende cura del suo ministero della parola. Questo può accadere, di fronte allo Stato, solo alle condizioni di una rigorosa formazione. Non basta portare a scuola la propria fede. Non basta portare a scuola la propria carità. Non basta alimentare una giusta speranza.

Occorre invece attestare il lavoro esegetico, storico, sistematico, ecumenico, morale, pastorale, il contatto con le fonti e con le elaborazioni che di esse la tradizione ha proposto in continuazione. Bisogna saper illustrare quali fatti culturali sono stati frutto di quella fede, di quella speranza e di quella carità e come ne abbiano proposto figure, forme e sentimenti sempre nuovi.

Il precariato del Vescovo e della Chiesa

Il Vescovo sta sotto la Parola e prega. Tutto, nella Chiesa, è “precario” in senso stretto, anche se spesso non lo è per nulla sul piano economico. Il versante ecclesiale ha una sua strutturale precarietà, nella terza accezione della parola.

Per questo fatica a sintonizzarsi con le logiche di stabilità che la coscienza civile ha introdotto nelle professioni, solo nell’ultimo secolo. Basterebbe rievocare il sospetto verso la “pensione”, che all’inizio del secolo scorso veniva letta, da settori non marginali della Chiesa, come “negazione della provvidenza”.

Non lavorare più e avere un reddito sembrava, allora, quasi contronatura. Noi siamo figli di queste difficili mediazioni tra la tradizione ecclesiale (che spesso è solo la tradizione più vecchia) e la tradizione tardo-moderna. La figura del docente IRC sperimenta, sulla propria pelle, la tensione tra modelli moderni e modelli premoderni di comprensione della professione, del ministero e perfino della preghiera.

Le parole e le cose: un papa contro il precariato

Ma il bello, in tutto questo, è che le cose funzionano sempre in due direzioni. Noi possiamo permetterci di fare solo ciò che possiamo immaginare. E però, facendo cose nuove, iniziamo anche ad immaginare cose diverse.

Un nuovo modo di fare i docenti corriponde anche ad un nuovo modo di fare i vescovi. E in tutto questo c’è del buono, anche quando gli “uffici” – civili o ecclesiali – non sono disposti neppure a cambiare la forma di un modulo, figuriamoci la “forma mentis”. Ma è vero che anche solo un nuovo modulo burocratico può indicare un nuovo modo di pensare e di vivere, la scuola e la chiesa.

Uscire dal precariato e entrare meglio nella preghiera non sono una contraddizione. Ed è possibile che oggi sia proprio un papa a parlare contro il precariato. E lo fa proprio il papa che vive nel modo “meno stabile” e “più precario” che si sia mai visto.

Potremmo dire così: può parlare davvero contro il precariato solo chi conosce fino in fondo la natura precaria delle cose e vive a contatto con essa. Curiosa forma di vigilanza sulle parole: non anzitutto come dottrina da custodire, ma come sostanza che deve tornare a nutrire!

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