Sul valore legale del titolo di studio

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Lo scorso mese di novembre il vicepremier Matteo Salvini è ritornato sul valore legale del titolo di studio, un tema che a suo giudizio sarebbe da affrontare per procedere con una riforma della scuola. Gli ha fatto eco il ministro dell’Istruzione, dell’università e della ricerca (MIUR) Marco Bussetti che non ha escluso la necessità di affrontare l’argomento. L’origine della discussione va ricondotta ai concorsi pubblici, dove si intenderebbe escludere riferimenti e requisiti legati al voto di laurea. Il primo a dibattere di questa necessità è stato, nel 1947, l’allora presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Nel 2010 il tema è stato riproposto dal deputato Fabio Garagnani (PDL), mentre nel 2011 è stato il turno di Girolamo Sirchia (ministro della Salute nella seconda legislatura berlusconiana). Nel 2012 se ne è occupato anche il governo Monti, e l’anno seguente è diventato caro al pentastellato Carlo Sibilia. Oggi se ne torna a parlare, di nuovo su iniziativa del M5s e della Lega. Nel 2012 Emanuele Curzel era intervenuto nel dibattito con l’articolo che riprendiamo di seguito (Il Margine, 3/2012).

studenti

Al dibattito sull’abolizione del valore legale del titolo di studio vorrei portare il mio modesto, caustico e opinabile contributo.

Parto non dal tema in sé, ma da un’immagine che vedo frequentemente evocata, specie a “sinistra”: una società in cui tutti vivono un lungo periodo di obbligo scolastico, tendenzialmente uniforme, in prospettiva fino alla maggiore età. E fin qui si tratta di uno scenario che mi trova complessivamente d’accordo.

Quel che mi lascia più perplesso è il fatto che la semplice frequenza scolastica di questo lungo periodo viene poi fatta coincidere (da alcuni insegnanti, da alcuni studenti, da alcuni genitori) con il raggiungimento del “diploma”, quasi che la consegna di quest’ultimo rientri nei doveri dell’istituzione. Per essere espliciti: si tratta di studenti e genitori che dicono: «Ho/ha passato tante ore a scuola, e dunque devo/deve essere promosso»; di insegnanti che, per convinzione o per convenienza, non danno mai voti inferiori alla sufficienza. Se questi studenti, genitori e insegnanti sono (ancora) una minoranza, essi però finiscono con il condizionare anche i comportamenti della maggioranza, generando di volta in volta illusioni e disillusioni che trascinano verso il basso qualunque zelo nello studio o nell’insegnamento.

Risultato finale: alle elementari la parola «bocciatura» ha perso ogni significato; alle medie solo dopo lunghe discussioni si fa ripetere una classe, mentre è esclusa l’eventualità di un mancato conseguimento della licenza per motivi che non abbiano a che fare con il puro e semplice rifiuto dell’istituzione scolastica da parte dell’interessato; la valutazione negativa resiste in qualche settore delle superiori, ma vi sono atteggiamenti che tendono comunque a scoraggiarla, dato che la qualità di una scuola (e il successo dell’insegnante e del dirigente) sono fatti coincidere con la percentuale dei promossi e dei maturi.

L’onda ha ormai raggiunto anche alcune facoltà universitarie, dove con un po’ di tenacia e di insistenza possono ottenere diplomi anche persone palesemente inidonee. Questa descrizione potrà essere considerata caricaturale, ma bisognerà ammettere che – a torto o a ragione – gli ultimi decenni hanno visto un’evoluzione in questo senso: verso una società in cui tutti – se solo lo vogliono – possono ottenere il titolo di «dottore», anche quando al titolo non corrisponde alcuna capacità effettiva (come vorrebbe l’etimologia) di tramandare ulteriormente una conoscenza.

Vista «da sinistra», questa prospettiva è comunque accettabile, perché i suoi risvolti negativi sono considerati secondari di fronte all’esistenza di una scuola capace, almeno potenzialmente, di innalzare il livello di scolarizzazione, di far passare i valori della convivenza, di favorire la socializzazione. Vista «da destra» la situazione può essere considerata eccezionalmente vantaggiosa non in sé, ma perché favorisce un’evoluzione da tempo invocata: ed ecco che entra in gioco l’abolizione del valore legale del titolo di studio (punto b1 della sezione “programmi” del Piano di Rinascita Democratica della Loggia Massonica P2, presidente Licio Gelli, tessera 1816 Silvio Berlusconi).

Quando tutti sono laureati, infatti, non lo è più nessuno: il «pezzo di carta», distribuito troppo generosamente, diventa inutile. Basterà una piccola campagna di stampa volta a dimostrare quanto sia scadente la preparazione di chi esce comunque dalla scuola con un titolo e il valore di quest’ultimo (già in forte difficoltà) verrà cancellato con un voto parlamentare ad ampia maggioranza.

Ho l’impressione che molti (anche a sinistra) non guardino a tale prospettiva con particolare preoccupazione (a riprova del fatto che l’operazione è già in atto). Però vorrei che riflettessimo su un paio di conseguenze, a mio parere piuttosto logiche, di questa situazione che vede (al di là delle intenzioni) destra e sinistra unite nella lotta:

1) se il titolo, o la votazione che lo accompagna, non varrà più nulla, sarà il «mondo del lavoro» a valutare direttamente o indirettamente la preparazione dei singoli (attraverso procedure inevitabilmente più parziali e più oscure, all’interno delle quali il merito sarà una possibilità e non una certezza – più di quanto già non accada);

2) la scuola pubblica, non fornendo più un titolo avente valore legale e non potendo inseguire altre modalità di formazione sul terreno della qualità (o almeno della «qualità percepita»), perderà ulteriormente terreno (finanziamenti, insegnanti, studenti, credito, ruolo).

Non è strano che a destra si voglia abolire il valore legale del titolo di studio: in questo modo potrà venire eroso quel potente mezzo di integrazione sociale interclassista e interetnico che è la scuola pubblica. È più strano che a sinistra non si comprenda quanto un certo modello di scuola, tanto «aperta» da rinunciare a esprimere un giudizio (se necessario negativo) sulla preparazione di chi la frequenta, possa essere autodistruttivo.

Cosa si può fare allora? La soluzione mi sembra tanto semplice in teoria quanto ardua (e controcorrente) nella pratica. Si tratta di smettere di valutare la bontà di ogni singola scuola e della scuola nel suo complesso sulla base del numero dei promossi. Di smettere di far ritenere (agli studenti, ai genitori, a noi stessi) che un giudizio negativo su una preparazione coincida con un giudizio negativo sulla persona: il voto, anche quando è negativo, è un segno di attenzione e di preoccupazione. Di smetterla con la frase «è lo stesso», che tante volte pronunciamo nel momento in cui consideriamo valido qualunque risultato: non è segno di accoglienza, è segno di disinteresse e perfino di disprezzo.

A chi teme che una scuola più severa – che abbia il coraggio di dare un giudizio e anche di selezionare in base alle capacità e all’impegno – non sia quella che serve al futuro dei singoli e della collettività, vorrei ricordare l’articolo 3, comma b della Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Una scuola che non forma, anche attraverso il rigore, persone capaci di rimuovere quegli ostacoli finirà con il cristallizzare quelle stesse divisioni di censo e di classe che la Repubblica considera suo compito superare.

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