AL: una prassi pastorale per “erranti”

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Cinque anni fa veniva presentata l’Esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia di papa Francesco, che raccoglie i lavori di due intense tornate sinodali sul tema dell’amore, della famiglia e del matrimonio. Per l’occasione offriamo ai nostri lettori e lettrici un intervento di don Domenico Marrone, docente di teologia morale presso ISSR di Bari, che prende spunto da un sussidio pastorale della diocesi di Trani-Barletta-Bisceglie curato da don Emanuele Tupputi.

Più di cent’anni fa, papa Benedetto XV, nella sua prima enciclica Ad beatissimi apostolorum (1914), scriveva: «Nelle discussioni si rifugga da ogni eccesso di parole, perché́ne possono derivare gravi offese alla carità; ognuno liberamente difenda la sua opinione, ma lo faccia con rispetto, né creda di poter accusare altri di fede sospetta o di mancata disciplina per la semplice ragione che la pensa diversamente da lui».

Nell’odierna stagione ecclesiale, in cui papa Francesco invita ad affrontare le discussioni con parresia evangelica, le parole del suo predecessore risultano particolarmente opportune in relazione all’acceso dibattito che ha accompagnato prima la celebrazione dei due sinodi per la famiglia e quindi l’esortazione Amoris lætitia.

Sono certo che il sussidio giuridico-pastorale approntato dal Vicario giudiziale dell’Arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie, don Emanuele Tupputi, mira ad aiutare il fedele a comprendere le varie questioni poste dall’Esortazione apostolica in un clima di pacatezza emotiva e di intelligenza interrogante, sullo sfondo dell’insegnamento della chiesa e della riflessione teologica più accurata.

Sotto la lente d’ingrandimento della proposta di don Emanuele cadono categorie come coscienza, discernimento, peccato, fondamento delle norme morali e il loro rapporto con i principi e i valori. Ma anche le implicazioni relative all’immagine della chiesa, ai compiti in essa assunti dal magistero dei pastori e all’atteggiamento di accoglienza delle comunità sono oggetto di riflessione ponderata e competente.

AL e la teologia morale

All’orizzonte mi pare di intravedere – e qui parlo da moralista – la domanda se con Amoris laetitia non ci sia anche un punto di svolta nella teologia morale, facendo di essa un luogo sapienziale, ricco di risorse per leggere i segni dei tempi, riconoscere nell’uomo e nel credente la dignità di soggetto etico, libero e responsabile e prendere a cuore la condizione reale della storia d’amore, in cui ogni coppia si trova a vivere.

Capita a volte di dover “passare all’altra riva”. Vi sono tempi, nella storia della Chiesa, nei quali non è possibile rimanere ancorati al passato. Bisogna mollare gli ormeggi e salpare, intraprendere con coraggio nuove vie, senza temere le difficoltà. Ma il fine non è mai quello di adattare il Vangelo, o peggio ancora accomodarlo al cambiamento dei tempi, perché, come affermava Papa Giovanni XXIII, «il Vangelo non cambia, siamo noi che iniziamo a comprenderlo meglio».

Il mutare dei tempi sollecita la Chiesa ad una nuova consapevolezza del Vangelo e di sé stessa. È questa la bellezza insita nel dinamismo della crescita: i nuovi interrogativi dell’uomo sono la spinta per avvicinarsi sempre più alla verità della fede. A pensarci bene, si tratta di una vera rivoluzione, nel senso antico del termine. Il latino volvo indica letteralmente l’azione di svolgere un rotolo di papiro, revolvo significa dunque svolgere di nuovo, rileggere. Approfondire e migliorare.

Ritengo che il documento pontificio si innesti in questo ineludibile e necessario dinamismo di crescita nel fiume (non nello stagno!) della Tradizione. Pertanto, ritengo inutile attardarsi sulle categorie di continuità/discontinuità, tradizione/novità. Il rapporto tra passato e presente, antico e nuovo è simile a quello che intercorre tra il corpo della stessa persona da bambino, da adulto e da anziano. È il medesimo corpo attraversato da un dinamismo di crescita e al contempo dalla medesima identità personale.

Mi piace intravedere in filigrana in tutto il documento la categoria della benignità pastorale di matrice alfonsiana. Tale categoria è riproposta attraverso quella della misericordia: amare chi soffre, chi sembra aver perso se stesso, chi è insicuro, amarlo e aiutarlo a ritrovare la felicità perduta. È questa la regola che si applica in tutti i singoli casi: amore e totale apertura verso i risposati, per costruire un cammino comune; amore e dialogo verso gli omosessuali, per crescere entrambi; amore in famiglia; amore e attenzione verso i figli e nella loro educazione, anche in quella sessuale; amore e rispetto verso una nuova vita. La Chiesa non snatura se stessa ma pone nuovamente al centro il più alto degli insegnamenti del Vangelo: l’amore è il parametro che rende la nostra vita più bella. Il resto viene da sé.

L’umano errare

E questo perché noi umani siamo degli “erranti”. Il verbo errare è disambiguo. Ha due significati. Il primo: sbagliare, ingannarsi; in senso morale, commettere una colpa, peccare. Il secondo significato: andare qua e là, vagare, peregrinare senza mèta o scopo in un luogo; deviare, allontanarsi da una certa direzione, anche con valore figurativo.

Avendo sullo sfondo la parabola del padre misericordioso, cogliamo due caratteristiche dell’animo umano: lo sbaglio e la compassione verso chi ha sbagliato. Da una parte la parabola evidenzia la condizione fragile dell’uomo, dall’altra fa ricorso alla clemenza di fronte a questa stessa condizione. La parabola è il trionfo dell’umano (inteso come compassione) sull’umano (inteso come errore). In sintesi, la teologia morale diventa “etica per persone erranti”, cioè orientamento e affermazione della propria umanità.

È da questa prospettiva che scorgiamo la dimensione alfonsiana dell’Amoris laetitia. La «copiosa redemptio», cioè la chenosi misericordiosa con cui Dio si incarna nella nostra debolezza anticipandoci il suo amore, è «l’esempio» da cui è impossibile discostarsi. E questo vale anche per la teologia morale: la chenosi è la modalità in cui va elaborata la proposta morale e va proposta alle coscienze. Fare diversamente è velarne l’evangelicità.

È quanto viene evocato da Giovanni Paolo II parlando di Alfonso come «il rinnovatore della morale»: «a contatto con la gente incontrata in confessionale, specialmente nel corso della predicazione missionaria, egli gradualmente e non senza fatica sottopose a revisione la sua mentalità, raggiungendo progressivamente il giusto equilibrio tra la severità e la libertà». È un equilibrio dettato dalla misericordia, che lo stesso Giovanni Paolo II vede sintetizzato da alcune «mirabili parole» della Theologia moralis alfonsiana: «Essendo certo, o da ritenere come certo… che agli uomini non si devono imporre cose sotto colpa grave, a meno che non lo suggerisca un’evidente ragione… Considerando la presente fragilità della condizione umana, non è sempre vero che sia più sicuro avviare le anime per la via più stretta, mentre vediamo che la chiesa ha condannato tanto il lassismo quanto il rigorismo».

Nella prospettiva alfonsiana, ascoltare la fragilità propria dell’attuale condizione umana e porsi dalla sua angolazione nell’approfondire la verità morale vanno considerati essenziali alla teologia morale. Ne deriva che, facendo propria la chenosi misericordiosa del Cristo, la verità morale, senza perdere la sua imperatività, si svela medicina: una medicina donata per amore da Dio all’uomo ferito e indebolito dal peccato.

Elaborarla e proporla prescindendo da questa sua fondamentale caratteristica significherebbero farle perdere il suo valore salvifico. Il ripensamento della verità partendo dall’ascolto della realtà con tutta la sua fragilità caratterizza il lavoro teologico-morale di Alfonso fin dai primi passi. Lo sviluppare correttamente questa circolarità tra principi e situazioni è compito da cui la teologia morale non può esimersi. Alla fragilità umana la teologia morale deve avvicinarsi non con gli occhi di Simone il fariseo che, con il suo giudicare, rinchiude la donna peccatrice in ciò che ha fatto, ma con gli occhi del Cristo che vanno oltre e liberano.

Questo sguardo deve vale anche per le problematiche di pastorale sacramentale. Mi limito a ricordare quanto Alfonso soleva ripetere nei riguardi della prassi rigorista che finiva con il riservare ai “perfetti” l’accesso all’eucaristia. A suo parere si tratta di un veleno che uccide.

Vita e discernimento

Credo che sia importante che la proposta morale abbia sempre presente questa sua strutturazione misericordiosa. La sua imperatività non è riconducibile alla imperatività giuridica: è imperatività di cammino, di guarigione, di crescita. Bisogna stare in guardia dal non ricadere in un eccesso di giuridicismo nel dettagliare eccessivamente criteri, tempi, modi, circostanze per il discernimento che tra l’altro non è affidato ai pastori – questi sono solo facilitatori di discernimento – ma alla coscienza dei singoli fedeli.

Bisogna essere consapevoli che è “possibile una lettura costruttiva della storicità della persona umana: «ma l’uomo, chiamato a vivere responsabilmente il disegno sapiente e amoroso di Dio, è un essere storico, che si costruisce giorno per giorno, con le sue numerose libere scelte: per questo egli conosce ama e compie il bene morale secondo tappe di crescita” (FC 59).  Quando questa lettura della storicità è retta dalla misericordia, in fedeltà alla lettura del Cristo, la fragilità e le possibili incertezze appaiono come malattia da cui guarire, sapendo bene che il processo di guarigione a volte può essere anche lungo. Più che la qualità o la quantità dei passi, ciò di cui occorre soprattutto preoccuparsi è che il processo non si arresti. È questo il primo compito della norma morale: che la persona resti lealmente in cammino.

Questa gradualità, rispettosa della concreta storicità e quindi della fragilità della persona, viene da Alfonso indicata al confessore come criterio che deve ispirarlo in tutto il suo ministero: l’ammonizione, cioè l’aprire il penitente alla verità, va sempre fatta da “medico”. Perciò come il medico non può limitarsi a prescrivere la medicina rispondente alla malattia del paziente ma deve anche indicarne la posologia che la renda tale per il malato, così il confessore deve incarnare la verità nella fragilità del penitente in maniera che risulti veramente efficace.

La proposta alfonsiana costituisce un invito e un esempio per una teologia morale e ancor più per una prassi pastorale, radicate in questo dinamismo di misericordia. Sant’Alfonso infatti sottolinea con forza che la teologia morale non può procedere su altro cammino che su quello della chenosi misericordiosa del Redentore e perciò va elaborata come risposta salvifica alla fragilità della condizione umana.

Ne deriva che l’imperatività di cui parla la teologia morale deve sempre riportare all’anticipo di amore che il Padre ci offre in Cristo per mezzo dello Spirito: farlo accoglierlo con gratitudine come possibilità di guarigione e di cammino. Per questo tutta la proposta morale non potrà che essere una diaconia alla coscienza: o meglio una diaconia allo Spirito che porta la coscienza alla pienezza.

Credo che, in un contesto come il nostro in cui prima ancora che i singoli comportamenti è messo in discussione il perché stesso del bene, dare alla proposta morale il respiro della misericordia è la strada da percorrere per far nuovamente sperimentare il volto autentico del bene morale come cammino verso una pienezza che l’anticipo di amore di Dio rende possibile malgrado la nostra fragilità. È questo – sono convinto – l’obiettivo del sussidio giuridico-pastorale offerto in queste pagine da don Emanuele. Ritornerà sicuramente a vantaggio di quanti desidereranno rimettersi in cammino per un sempre maggiore impegno di fedeltà al Vangelo, pur nella ineludibile condizione di “erranti”.

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