Amoris lætitia: il documento dei vescovi svizzeri

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Quasi non necessita di traduzione il testo rilasciato la settimana scorsa al monastero di St. Niklausen nel cantone dell’Obwald a conclusione della 317a Assemblea ordinaria della Conferenza episcopale svizzera (CES). Per il semplice motivo che le indicazioni sulla ricezione locale dell’esortazione post-sinodale Amoris lætitia, già ad una prima lettura, sembrano rappresentare una sorta di parafrasi del documento papale stesso. Scrivono infatti in piena sintonia con il papa i vescovi e gli abati della Svizzera a conferma di una ricezione convinta dello spirito e delle affermazioni del pontefice, al punto che giungono ad affermare – quasi con sollievo – che, in taluni casi, si tratta di una (più che gradita) conferma di una prassi già in atto.

Pertanto non esitano a definire l’AL un autentico «cadeau» (dono), un testo tutto «da leggere e far leggere», in quanto paradigma di un nuovo stile di azione ecclesiale all’insegna della cultura dell’accoglienza, accompagnamento, discernimento e integrazione ad ogni livello pastorale. Un po’ come dire: non solo vescovi polacchi – finora l’unico intero episcopato che ha espresso forti riserve su alcuni punti dell’esortazione – ma lo snodarsi in successione di una serie di attestazioni da parte delle conferenze episcopali in comunione col vescovo di Roma.

L’esigenza di una pastorale rinnovata

In un’Assemblea, dove si è discusso anche di ecumenismo, vita consacrata, bioetica, del prossimo incontro ecumenico giovanile della comunità di Taizé previsto a dicembre a Basilea e del questionario-giovani in vista del Sinodo d’autunno, le indicazioni sull’AL spaziano a 360°: non una sintesi dell’esortazione, tengono a precisare, ma solo alcuni orientamenti di carattere generale che dovranno poi venir necessariamente calati nel contesto di ogni realtà locale. E non si tratta solo di rinnovare la pastorale matrimoniale e familiare – scrivono i vescovi – ma di uno stimolo al rinnovamento dell’intera pastorale, chiamata ad «uno sguardo fiducioso e realistico», dal momento che il «principio della misericordia» è il «cuore» che anima e dà vita alla dottrina cristiana.

Un principio che si cala nel quotidiano attraverso quell’«attitudine fondamentale» che è l’accoglienza, declinata come accompagnamento, discernimento e integrazione. Un atteggiamento «generatore di pastorale» che riconosce come lo Spirito sia già al lavoro qualunque sia il contesto, in altre parole la valorizzazione di quei “semina Verbi” di matrice conciliare richiamati anche dal pontefice nell’Evangelii gaudium. Non si tratterà allora di imporre una dottrina, ma, in una «logica di gradualità», accogliere le persone là dove si trovano e incoraggiarle a crescere nella fede e nella vita cristiana, rendendo desiderabile il «lieto annuncio» dell’amore di Dio sulla famiglia.

Il «mare di gratitudine» espresso al papa nella premessa parte anche da qui: attraverso l’Amoris lætitia egli «offre la possibilità di ringraziare tutte le coppie e le famiglie che vivono, ciascuna alla propria maniera, il vangelo dell’amore» attraverso un «linguaggio di quotidianità e perciò accessibile a tutti». Ma, pur avendo sempre davanti l’ideale cristiano di bene per il matrimonio e per la famiglia, l’atteggiamento di misericordia, che sta alla base della «pedagogia divina», rappresenta «l’anello di congiunzione tra la logica del Vangelo, e la dottrina della Chiesa, e la logica della pastorale». Citando il cardinale Schönborn – «La dottrina senza azione pastorale è solo un “cimbalo che strepita” (1Cor 13,1) mentre la pastorale priva di una dottrina è solo un pensare “secondo gli uomini” (Mt 16,23)» – «è necessario – scrivono i vescovi – raggiungere le persone dove sono e scoprire gli elementi positivi che già sperimentano, compresi quelli che non incarnano più propriamente l’ideale cristiano. Questo per condurli poi ad andare oltre verso la pienezza del matrimonio e della famiglia alla luce del Vangelo» (AL 294). Perché «Il vangelo di Gesù Cristo illumina le storie concrete e particolari» (cf. AL 35-38). «Si tratta di incontrare le persone in maniera autentica e favorire un’interiorizzazione ciascuno nella propria coscienza (AL 37), ciò che il papa chiama una pastorale “corpo a corpo” (Lettera di Bergoglio ai vescovi della regione di Buenos Aires, 2016/09/05)».

Imparare a guardare, accompagnare e discernere

Ecco allora alcuni atteggiamenti fondamentali che gli operatori pastorali e le comunità nel loro complesso debbono «imparare» con umiltà e fiducia per realizzare un’autentica «conversione missionaria» come richiesta dal papa alla Chiesa in uscita. In fin dei conti, si tratta talvolta di consolidare e rafforzare l’esistente all’interno di un quadro operativo sempre più efficace e organizzato che comprenda équipe pastorali, responsabili locali, collaboratori dei servizi cantonali e diocesani così da favorire una pastorale di «prossimità».

In primo luogo «imparare a guardare»: un vero cambio di prospettiva che giunga a quella «pastorale dello sguardo», a imitazione di quella di Cristo. Uno sguardo d’amicizia e d’amore, capace di andare «oltre le apparenze per giungere all’intimità delle coscienze, in interazione con la sfera dell’educazione e della cultura, del lavoro e dell’economia come della politica, in collaborazione con le scienze umane, la sociologia, la psicologia, la pedagogia».

Allo sguardo, positivo, caldo e fraterno, segue l’«imparare ad accompagnare come Dio accompagna noi». Ma se è tutta la comunità ad essere chiamata a porsi a fianco delle persone per sostenerle nel cammino, esistono però al suo interno dei soggetti in qualche modo privilegiati o se vogliamo consacrati appositamente: gli sposi cristiani. Se i coniugi sono i “ministri” del sacramento, essi devono diventare gli «attori principali della pastorale familiare», scrivono i pastori, aggiungendo che la Chiesa deve “scommettere” su di loro perché «l’accoglienza e l’accompagnamento delle diverse situazioni all’interno di una comunità passa attraverso la presenza contagiosa e diffusiva di bene delle coppie e delle famiglie».

Saranno le coppie cristiane, sempre nell’ottica della gradualità e della singolarità dei contesti, al centro dei percorsi di preparazione al matrimonio cristiano e di accompagnamento delle giovani coppie, quasi una sorta di «catecumenato al matrimonio» che prenderà necessariamente le mosse dalla catechesi di iniziazione cristiana per farsi poi più specifico nel tempo del fidanzamento e nei mesi che precedono le nozze per continuare nei primi anni di matrimonio.

E infine è sempre più richiesto l’imparare l’«arte del discernimento» nelle diverse situazioni (e con l’aiuto fondamentale degli operatori esperti di diverse discipline laiche) senza dimenticare le tante ferite, le inevitabili prove, i momenti di crisi affettiva, ma anche economica o lavorativa delle famiglie, la sofferenza dei figli soprattutto se minori, l’irrompere di una malattia, una separazione o un lutto.

Citando papa e catechismo, discernimento significa anche riconoscere in qualche caso, magari con una collaborazione interdisciplinare, le «circostanze attenuanti» che permettono talvolta di «ridurre fino ad annullare la responsabilità personale (AL 302, CCC n. 1735)». «In ogni situazione è possibile vivere nella grazia di Dio e in alcuni casi può intervenire l’aiuto dei sacramenti». Appare questo l’unico passaggio che faccia un riferimento esplicito a quel capitolo VIII che ad alcuni ha creato problemi (vedi i vescovi polacchi, il cardinale Chaput a Philadelphia o i Dubia dei cardinali).

Interrogato dall’agenzia cattolica svizzera, il vescovo ausiliare di Losanna, Ginevra e Friburgo, Alain de Raemy, già membro dell’équipe che ha redatto il testo, ha risposto così, in piena sintonia con AL: «I vescovi incoraggiano un profondo percorso di discernimento incarnato in ogni situazione. E in alcuni casi, pur evitando ogni generalizzazione, è possibile che l’accesso ai sacramenti della confessione e all’eucaristia possa aiutare il cammino personale».

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