Amoris lætitia è un pranzo di nozze

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Nella pur breve, ma gloriosa storia di Amoris lætitia ci troviamo nel periodo intermedio tra due compleanni: tra la data del 19 marzo, che figura in calce al documento, e quella dell’8 aprile, giorno della presentazione ufficiale del testo, un anno fa. Per onorare questo documento così importante, che è il risultato di un cammino lungo e accidentato, cerco di presentarne la struttura in un modo un poco originale: poiché questo è un testo molto complesso, non difficile perché lo si legge molto semplicemente, ma perché la sua struttura è molto articolata, ho avuto l’idea di leggerlo come un “pranzo di nozze”. E come tale intendo presentarlo1.

Un banchetto nuziale in 10 portate

Il testo è lunghissimo: 325 paragrafi. Potremmo quasi leggerne uno al giorno: riposando le domeniche, se ogni giorno feriale leggiamo un paragrafo, perseveriamo per un anno intero; e il Papa in qualche modo ci suggerisce di fare così, quando dice di non leggerla di fretta, addirittura dice di leggere prima il IV capitolo oppure il VI, e solo dopo l’VIII, perché appunto questo è un grande testo, ed essendo tale – come diceva un grande filosofo ebraico del 900, F. Rosenzweig – «i grandi libri si possono leggere anche dall’ultima pagina».

Allora il papa dice che a seconda delle funzioni che avete in Chiesa, delle vostre sensibilità, cominciate da un punto diverso: ci sono 9 capitoli, ognuno con una certa autonomia rispetto agli altri. Allora io suggerisco di leggerli come se fossero i diversi piatti di un pranzo di nozze, un grande banchetto di 10 portate: c’è un antipasto squisito, ci sono tre primi appassionanti, due secondi sostanziosi, e quattro portate gustose di frutta e dolce. Ogni portata corrisponde ad un capitolo, salvo l’antipasto che è “solo” la breve introduzione, costituita dai primi 7 numeri, da non sottovalutare. In questo testo l’introduzione è una grande novità: tenderei a dire che la più grande novità di AL sta proprio nei primi sette numeri. Proprio di qui voglio iniziare

a) L’antipasto squisito

Mettiamoci subito in ascolto del “tono” nel numero 2 di AL. È un percorso ecclesiale che ha coinvolto tutti e che arriva ad un risultato: «la complessità delle tematiche proposte ci ha mostrato la necessità…» notate bene, siamo all’inizio del documento… «di continuare ad approfondire con libertà…» il papa parla con letizia anche della libertà di continuare ad approfondire. Dunque si tratta di approfondire con libertà… «alcune questioni dottrinali, morali, spirituali e pastorali». Con questo documento, da un certo punto di vista, si chiude una fase, ma se ne apre già un’altra; infatti, una delle caratteristiche della Esortazione è che questo è un documento aperto, che rifiuta la logica tipica di questi ultimi 140 anni, dal 1880 ad oggi, in cui il magistero familiare assume un ruolo totalizzante e dice, per filo e per segno, tutto quello che deve essere detto, fatto, creduto. Francesco e i vescovi che hanno lavorato per tre anni sul tema, si sono resi conto che in materia di matrimonio in generale, e in particolare nel campo del matrimonio in crisi, del matrimonio infelice e delle famiglia allargate, l’idea di una legge generale che sia applicabile da parte di tutti in modo indiscriminato è un sogno irrealizzabile; non c’è alternativa a prendersi cura di ogni situazione specifica diversa. Si noti come nel testo si aggiunge … «la riflessione dei pastori e dei teologi, se è fedele alla Chiesa, onesta, realistica e creativa, ci aiuterà a raggiungere una maggiore chiarezza».

Ma poi, passando al numero tre, si dice: «Ricordando che il tempo è superiore allo spazio, desidero ribadire che non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero». Questa è una parola che non ascoltavamo più da 50 anni; ma che in qualche modo risale a prima della tarda modernità: così il magistero parlava fino al 700. Dopo ha dovuto quasi assumere su di sé il compito di rispondere sempre più nel dettaglio a tutte le questioni. L’idea che il magistero papale debba entrare nel dettaglio delle questioni liturgiche, matrimoniali, personali, è un’idea nostra, dell’ultimo secolo, che soprattutto è cresciuta dopo il Concilio Vaticano II. In effetti uno degli effetti non voluti del Concilio è che il magistero sia tenuto ad entrare nel dettaglio di tutte le questioni, del lavoro, del divertimento, se sia giusto aprire gli stadi di domenica o se sia giusto ribellarsi al tiranno… il magistero dovrebbe rispondere e dire la propria su tutto… Francesco, che non viene dall’Europa, che viene dal Sud America, che non viene da una tradizione ecclesiale così eurocentrica, dice che è legittimo che il magistero proponga alcuni orientamenti, e poi i singoli parroci, i singoli vescovi, provvedano in loco secondo discernimento. Questo vedrete è una delle parole decisive: riscoprire il discernimento. E alcuni parroci e vescovi hanno cominciato a dire: “discernimento significa confusione”, perché si sono rassegnati ad una visione della tradizione rigida e centralista.

La pretesa che ci sia una legge generale che scavalca la libertà è una ipotesi troppo semplicistica, sia per il prete, sia per il vescovo, ma anche per il laico. Il laico è messo dentro non in una logica da regolamento condominiale, è messo dentro la propria esistenza, e dunque nel confronto con il pastore, a livello parrocchia o diocesi, può operare quel discernimento grazie al quale non gli è più impedito nessun obiettivo. Noi possiamo avere oggi una Chiesa che non esclude nessuno, né dall’assoluzione né dalla comunione, rinunciando al primato assoluto della legge generale. Si noti: noi vorremmo o restare nelle situazioni precedenti, parlando di legge generale, per cui se uno si trova nella condizione di divorziato-risposato non potrà mai più, vita naturale durante, ricevere l’assoluzione e fare la comunione. Oppure vorremmo una nuova legge che dicesse, “nonostante tu sia divorziato-risposato, puoi sempre essere assolto e fare la comunione”. Non c’è più quel regime antico né è nato quello che alcuni sognerebbero, ma la soluzione sta nel discernimento, secondo cui ad ognuno non è precluso nessun obiettivo, purché si metta in gioco, e si metta in gioco come divorziato-risposato, come parroco e come vescovo. Tutti sono messi in gioco.

Quello che in qualche modo salta è l’idea della condizione oggettiva di peccato grave come realtà “per sempre”. Lo vedremo andando avanti nel pasto, ma lo dico fin dall’antipasto: il discorso del Magistero che non deve intervenire su ogni dettaglio significa che deve esserci la possibilità di riconoscere i soggetti in un percorso e non solo in uno stato. La parola che abbiamo usato di più nell’ultimo secolo è stato di grazia e stato di peccato. Lo stato è lo spazio, il tempo cambia gli stati; nel tempo chi è in stato di peccato entra nello stato di grazia. Questo è il primato del tempo sullo spazio, che in Evangelii gaudium Francesco declina così: «È primario nel tempo inaugurare percorsi di cambiamento piuttosto che preoccuparsi solo di occupare spazi». Lo dice della Chiesa; che si è abituata a occupare spazi e a non iniziare percorsi; oggi deve iniziare percorsi rinunciando ad occupare spazi. Si noti che questa è una parola che si può capire che venga dal Sudamerica, è una parola tipicamente non Europea: tipicamente evangelica ma di una sapienza non mediata da parte di una chiesa forte, potente, che ha occupato tutti gli spazi. Se viene dal Sudamerica capisce che è per annunciare Dio nella città – ha scritto Francesco quando era cardinale arcivescovo di Buenos Aires, «portare Dio nella città è già un’idea distorta; Dio c’è già, bisogna riconoscerlo, dargli la parola». L’idea di portarlo vuol dire che in qualche modo tu ti accaparri l’esclusiva e questo è tipico delle istituzioni potenti; le istituzioni di servizio lavorano perché si possa riconoscere che Dio già sta abitando la città. Così abbiamo finito l’antipasto.

b) I primi piatti raffinati (capp. I – II – III)

Passiamo ora ai tre primi piatti che corrispondono ai primi tre capitoli di AL. Il pasto disarticola un po’ la struttura del testo, ma per ora manteniamo l’ordine della successione: introduzione – antipasto; primi tre capitoli – primi tre piatti. Dunque, primo capitolo, annuncio della Parola, un bellissimo capitolo biblico; dove però abbiamo un’altra grande novità: perché appunto queste parole bibliche, a livello di spiritualità diocesana, nei discorsi che fa un vescovo, in una lezione di un teologo, li abbiamo già gustati e meditati. Nel magistero papale è abbastanza raro che si usi la Scrittura non come il fondamento di una verità ma come il racconto di una esperienza. Questo primo capitolo, intitolato “alla luce della Parola”, merita di essere letto nel suo primo attacco, perché l’attacco fa venire la pelle d’oca. Non dimenticate che Francesco è un uomo di letteratura; non so perché i giornali lo presentano quasi solo come un tipo scherzoso, come uno che fa battute; guardate che non fa mai battute a caso, parla sempre con finezza retorica: Se dice “misericordiar” in realtà forza anche lo spagnolo per dire una logica di misericordia che diventa una parola sola. L’attacco del primo capitolo – il titolo è alla luce della parola, ma sentite che potenza – «la Bibbia è popolata da famiglie, da generazioni, da storie d’amore e da crisi familiari, fin dalla prima pagina dove entra in scena la famiglia di Adamo ed Eva con il suo carico di violenza ma anche con la forza della vita che continua …». Qui non stiamo andando alla ricerca del versetto su cui costruire la nostra dottrina; qui andiamo alla ricerca di esperienza autentica. Francesco in Evangelii gaudium parla non solo del primato del tempo sullo spazio, ma anche del primato della realtà sull’idea: ma lo vedremo nel capitolo secondo, quindi nel secondo dei primi che è un po’ più pesante, mentre il primo dei primi è leggero a base di verdure diciamo, quasi vegano il secondo invece è con carne di maiale, più duro da digerire. Il primato della realtà sull’idea vuol dire – fate attenzione, non mette davanti l’idea – confrontatevi con la realtà, il grande ideale cristiano, se diventa idealizzazione, corre rischi, perché – dice Francesco, lo ha detto in tanti casi (Evangelii gaudium, interviste, prediche a Santa Marta) «ogni idealizzazione comporta sempre una aggressione» e forse nell’ultimo secolo niente è stato così idealizzato come il matrimonio. Per cui, il discorso di comunione, pace, riconciliazione diventa un discorso aggressivo, aggressivo della Chiesa nei confronti del mondo, come se si basasse su un pregiudizio radicato in una diffidenza. Questo ci fa capire che nel secondo primo, cioè nel capitolo secondo, Francesco mette alcuni dei numeri più pesanti di autocritica: molto difficili di mandare giù, se uno ha vissuto la tradizione cattolica sul matrimonio degli ultimi 50 anni.

Non ho tempo di leggerli tutti, ma leggete soprattutto i numeri 35-36. Io vi leggo una piccola antologia, ma i numeri 35-36 sono potentissimi nella autocritica; dicono, con parole magisteriali, quello che vi ho appena detto. Il papa dice così (sta parlando dell’importanza con cui la Chiesa difende il bene del matrimonio, il bene della fedeltà, il bene della indissolubilità, il bene della generazione) ma attenzione, «non ha senso (a metà del n. 35) fermarsi a una denuncia retorica dei mali attuali, come se con ciò potessimo cambiare qualcosa. Neppure serve pretendere di imporre norme con la forza dell’autorità. Ci è chiesto [invece] uno sforzo più responsabile e generoso …». Vado avanti, numero 36: «dobbiamo essere umili e realisti per riconoscere che a volte il nostro modo di presentare le convinzioni cristiane e il modo di trattare le persone hanno aiutato a provocare ciò di cui oggi ci lamentiamo» guardate come continua… «d’altra parte, spesso abbiamo presentato il matrimonio in modo tale che il suo fine unitivo, l’invito a crescere nell’amore e l’ideale di aiuto reciproco sono rimasti in ombra per un accento quasi esclusivo posto sul dovere della procreazione». Tutto il linguaggio della prima metà del ’900, così. «… Altre volte abbiamo presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie (vedete qui) questa idealizzazione eccessiva, soprattutto quando non abbiamo risvegliato la fiducia nella grazia, non ha fatto sì che il matrimonio sia più desiderabile e attraente, ma tutto il contrario». Cioè, abbiamo avuto una responsabilità nell’aver in qualche modo costruito una idealizzazione che rende addirittura difficile aderire al matrimonio. Caspita! Più di così! Cosa doveva dire? In termini di coscienza che il modo con cui parli del matrimonio determina le conseguenze di reazioni anche di chi ti ascolta, di chi guarda dall’esterno, e può capire bene quello che intendi o può capire il contrario di quel che è. E non poche volte abbiamo fatto del matrimonio più un martello che un faro.

Per questo il terzo primo, anch’esso piuttosto nutrito e sostanzioso, è la svolta –diciamo così– di questa prima parte: lo sguardo rivolto a Gesù e la vocazione alla famiglia. Si riprende la dottrina cattolica sul matrimonio con lo sguardo rivolto a Gesù, dunque dicendo, se guardi a Gesù puoi entrare nella logica del matrimonio per la via più corretta, evitando le idealizzazioni fasulle; entrando nella grande idea che passa attraverso la morte e la risurrezione come grande attestazione del mistero pasquale in forma matrimoniale. E ciò culmina in una opportuna precisazione circa il rapporto tra legame Cristo/Chiesa e legame marito/moglie. In effetti su questa lettura “eucaristica” del matrimonio è bene sottolineare il valore di “segno” e di “analogia” che il matrimonio ha in rapporto alla eucaristia. Ma con molta finezza il testo, ai nn. 72-73, rimarca che questo “segno” e questa “analogia” sono “imperfetti”. Questa riconosciuta imperfezione sottolinea la differenza tra il mistero/ideale e la “idealizzazione/ideologia”, non appiattisce il matrimonio sulla eucaristia, impedisce letture massimaliste della tradizione e permette la comprensione delle fragilità in forma non solo moralistica. In questa differenza si colloca la forza della realtà e la possibilità di curare le ferite. Così abbiamo finito i primi piatti e passiamo ai secondi

c) I secondi piatti sostanziosi (capp. VI e VIII)

I secondi piatti ci conducono alla parte più importante dal punto di vista strutturale e operativo, e corrispondono al VI e VIII capitolo, rispettivamente su “alcune prospettive pastorali” e sull’”accompagnare, discernere e integrare”. Si potrebbe dire che sono i capitoli che parlano delle famiglie felici, sia pure i con tutti i loro problemi, e delle famiglie che hanno sperimentato il fallimento. Siamo alle prospettive pastorali proiettate sul grande campo delle famiglie che con tutte le loro difficoltà restano in piedi, e delle famiglie che invece hanno vissuto il naufragio, ma hanno trovato un’isola, hanno ricostruito una forma di comunione, sia pure problematica e fragile. Qui voglio farvi notare: VI e VIII capitolo sono abbastanza classici, ma la struttura è comunque molto originale; perché il capitolo VI è costruito sulla vita della famiglia; dall’inizio alla fine: annunciare il vangelo alla famiglia, oggi; guidare i fidanzati nel cammino; accompagnare i primi anni; rischiarare crisi, angosce e difficoltà; e quando la morte pianta il suo pungiglione. Dalla nascita dell’amore alla morte dei soggetti. Tutta la parabola; con un misto di sapienza pastorale, finezza spirituale, sapienza biblica, mescolate con un tono davvero nuovo. Noi eravamo abituati a pensare che quando si devono capire le norme, si usa un certo tipo di linguaggio; se poi si deve fare spiritualità, si cambia linguaggio; qui invece troviamo continuamente la norma, la sapienza, l’ispirazione biblica, l’esperienza vitale… e ne deriva un approccio e un gusto molto diverso.

Il capitolo VIII è quello del quale abbiamo sentito parlare di più, perché i giornali degli altri otto capitoli hanno detto due righe e si sono fermati per tre pagine soltanto sul capitolo VIII. Qui vorrei farvi notare che i tre verbi – accompagnare, discernere e integrare – sono davvero i tre verbi chiavi in generale della pastorale familiare, ma in particolare per i casi che prima definivamo “irregolari”. Dico, “prima definivamo irregolari”, perché di fatto prima restavano irregolari, oggi possono regolarizzarsi; non secondo una regola astratta – non c’è una nuova regola (condominiale?) che regolarizza gli irregolari– ma nel tempo, in un cammino di discernimento, accompagnati, possono integrarsi. E possono integrarsi a vari livelli: possono integrarsi a livello di ministero della catechesi, per esempio, un divorziato-risposato, domani potrà essere un catechista; potrà avere una ministerialità ecclesiale, potrà anche, essere assolto e comunicarsi. Questo appunto secondo la logica che supera l’oggettivismo giuridico precedente, e qui, appunto, quando avrò finito di illustrarvi il pranzo, mi fermerò – perché questo è uno dei punti più delicati sui quali oggi saremo chiamati a lavorare –. Ma superare l’oggettivismo giuridico, come fa AL, non significa risolvere tutte le questioni. Dovremo, in futuro, aver chiaro che perché gli irregolari non siano più tali, è fondamentale che una Chiesa li accompagni, discerna e li integri, ma alla fine questa “integrazione” dovrà darsi una “norma” che permette a tutti di riconoscere questa regolarizzazione. In altri termini, sulla base di AL dovremo riformare il diritto canonico.

d) Frutta matura e dolci di gusto (capp. IV – V – VII – IX)

Abbiamo visto i due secondi sostanziosi, dopodiché ci sono quattro portate, di frutta matura e di dolci gustosi. E li ho chiamati “frutta e dolce” perché sono capitoli molto originali rispetto allo stile magisteriale a cui siamo abituati.

Cominciamo dal capitolo IV che è il più esteso di tutti, e ha come tema l’amore –e questo guardate, noi non ce ne rendiamo più conto– ma se voi lo proiettate su una campata di 140 anni, questo è veramente incredibile, che ci sia un intero capitolo sull’amore. E io non ero vivo almeno nel 1880, neanche nel 1930, ero già vivo negli anni 60, ma la mia prima lezione sentita quando avevo più o meno venti anni, intorno agli anni 80, da un professore di diritto canonico del seminario di Genova, ha cominciato sul matrimonio con queste parole letterali: «cari ragazzi, ricordatevi: con il sacramento del matrimonio l’amore non ha niente a che fare!» Se il canonista parte così, la strada è in discesa, i problemi dove sono? Se un papa mette come IV capitolo centrale sulla pastorale matrimoniale un capitolo sull’amore, è chiaro che fa saltare il banco di quelle impostazioni, che già era saltato per conto suo, ma ora è proprio saltato completamente; se tu non ti occupi dall’amore –certo non come ne parlano i baci Perugina – ma anche tenendo conto che ci sono i baci Perugina come parte del linguaggio sull’amore di oggi, cosa che appunto cambia anche il matrimonio. Il modo con cui la Chiesa ha affrontato il tema amore è stato per molti decenni un modo autoreferenziale, citava i propri testi e non teneva conto che la civiltà cambiava, il che non vuol dire che ci sono i “baci Perugina”, ma che uomini e donne – oggi – tengono conto dell’amore, cioè del sentimento, della dipendenza, del fascino, della sessualità, per sposarsi. Questa è una cosa nuova. Fino a cento anni fa uomini e donne si sposavano senza essersi mai visti prima; il matrimonio per procura è una realtà almeno fino alla II Guerra mondiale. E così è da noi, in Europa. Altrove le cose stanno in modo ancora diverso.

Allora, se tu parli di un mondo così, ovviamente hai certi problemi e certi vantaggi: in un mondo in cui l’amore è questa cosa complessa di cui parla il papa al IV capitolo, e comincia con un bellissimo commento sapienziale dell’inno della I Lettera ai Corinzi di Paolo, che è davvero – già di per sé – un grande testo; che il papa legge a partire dell’esperienza matrimoniale e come criterio di lettura l’esperienza matrimoniale. Sentite tutti i paragrafi di quest’inizio del IV capitolo: «il nostro amore quotidiano, pazienza, benevolenza, guarire dall’invidia, senza vantarsi e gonfiarsi, amabilità, distacco generoso, senza violenza, perdono, rallegrarsi con gli altri, tutto scusa, ha fiducia, spera, tutto sopporta…» sono le parole di Paolo applicata alla vita matrimoniale a cui segue crescere nella carità coniugale, ma poi, amore appassionato. L’emozione nel matrimonio, le emozioni sono il luogo della fede, poi devono essere oggetto di discernimento, ma se tu pregiudizialmente non hai slancio, non hai emozione, non hai passione, ma di che cosa stiamo parlando? Dove può esserci amore se non c’è questo? Non può esserci solo questo, ma se non c’è questo sicuramente non è amore!

Noi abbiamo strutture mentali con cui – non solo nei giuristi, ma nei pastori, nei vescovi, nei documenti né solo nelle nostre battute – pensiamo l’opposizione spirituale e carnale non come la pensa Paolo; il carnale non è l’emotivo, è piuttosto il chiudere dentro l’emotivo tutto il senso, ma guai a non passare attraverso l’emozione! Chi avrebbe riconosciuto il Risorto senza l’emozione? Cosa dicono i due di Emmaus? Abbiamo sentito ardere il cuore! La prima reazione nel riconoscere il Risorto è emotiva, guai se non lo è. Allora ricostruire questa unità del testo parte dall’inno alla carità di Paolo, attraversa l’amore appassionato, recupera le logiche complesse dell’amore fino alla sua trasfigurazione. Capitolo IV, primo dei dolci e frutta.

Secondo piatto di frutta e dolci, capitolo V: l’amore che diventa fecondo. Che non parla solo della generazione, ma parla anche, diciamo così, di una fecondità allargata e della vita della famiglia, ai diversi gradi dell’età: essere figli, essere anziani, essere fratelli; considera le parentele come i luoghi di esperienza della fecondità: saper essere figlio, saper essere padre, saper essere fratello. Questo costruisce esperienza famigliare. Poi c’è un dolce particolarmente fine, cioè il VII capitolo, “rafforzare l’educazione dei figli”; un intero capitolo parla solo di questo: di quali sono le strategie educative dei genitori, su cui dice parole molto sapienti sull’importanza della relazione per cui il genitore è una autorità, però il figlio diventa a sua volta una autorità per il genitore, cioè nell’opera educativa i figli sono educati ma diventano a loro volta soggetti educatori per i genitori. E si dice sì all’educazione sessuale; il che appunto, sentito da un papa può sembrare strano, ma strano non è se si guarda alla realtà e non la si idealizza. Settimo capitolo, ultimo dolce. Dolce al cucchiaio finale, leggero, poi arriva il caffè: spiritualità coniugale e famigliare; è l’ultimo capitolo IX di AL. È il capitolo sulla spiritualità della coppia e la spiritualità della famiglia in senso più ampio, compresi i figli, compresa la parentela. Ma l’ultimo sorso dell’ultimo dolce è particolarmente squisito. Vi si legge, al centro dell’ultimo numero della Esortazione, una grande sintesi, in cui tutti i gusti e tutti i temi del pranzo tornano a farsi sentire. Vorrei citarlo integralmente, prima di concludere:

«Nessuna famiglia è una realtà perfetta e confezionata una volta per sempre, ma richiede un graduale sviluppo della propria capacità di amare. C è una chiamata costante che proviene dalla comunione piena della Trinità, dall’unione stupenda tra Cristo e la sua Chiesa, da quella bella comunità che è la famiglia di Nazaret e dalla fraternità senza macchia che esiste tra i santi del cielo. E tuttavia, contemplare la pienezza che non abbiamo ancora raggiunto ci permette anche di relativizzare il cammino storico che stiamo facendo come famiglie, per smettere di pretendere dalle relazioni interpersonali una perfezione, una purezza di intenzioni e una coerenza che potremo trovare solo nel Regno definitivo. Inoltre ci impedisce di giudicare con durezza coloro che vivono in condizioni di grande fragilità»(AL 325).

Questo percorso, questo pasto che abbiamo fatto molto velocemente, è un pranzo che merita ore e ore di assimilazione, merita di essere gustato anche nella discussione, come succede in un banchetto nuziale, che non si può fare in fretta; il criterio di lettura generale che vale dall’introduzione fino all’ultima portata è coerente con il titolo: Amoris titia. Non è un testo che si possa leggere in modo triste o accigliato: se ti metti di fronte ad AL senza letizia, ne esci amareggiato; hai bisogno di una armonia di approccio con il tema. Se lo leggi come leggeresti un manuale di comportamento, resti deluso, perché non è un manuale di comportamento; è una lettura sapienziale e magisteriale che orienta pastori, soggetti, operatori, ministri della Chiesa ad entrare nella dinamica dell’amore e ad accoglierne una logica classica insieme ad una logica nuova. In questo modo traduce la tradizione del Vangelo nel nostro tempo. Senza idealizzare la realtà. Senza fermare il tempo. Senza assolutizzare gli stati di vita. Riscoprendo la preziosità e la delicatezza dei processi.


1 Riprendo il testo sbobinato dagli amici della Diocesi di Albano, dove ho tenuto la conferenza su AL il 15 maggio del 2016, dalla quale ho tratto queste pagine sul “pasto nuziale”.   Il tono colloquiale è rimasto presente nel testo, che è trascrizione di discorso orale.

Pubblicato il 29 marzo 2017 nel blog: Come se non

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