Famiglia, individuo, comunità: valori e tentazioni

di:

picasso

Definire una famiglia appare, sulle prime, piuttosto facile: tutti ci siamo passati e generalmente ci viviamo. Parlarne significa toccare le corde più intime, sensibili e spesso inconsce del nostro animo; essa costituisce (talvolta in negativo) il vissuto, la parte fondamentale dell’identità, dell’io di ciascuno di noi. I rapporti familiari, coniugali e genitoriali-filiali, sono stati oggetto di gran parte della letteratura, del teatro e del cinema occidentali negli ultimi due secoli. Non credo che ci siano dubbi nel definirla come la prima cellula (o molecola) di società più ampie.

Ma quando si passa ad analizzarla, questa cellula o molecola, scopriamo che la facilità di definizione svanisce in fretta. Non perché dobbiamo confrontarci con gli studi degli antropologi, con tradizioni culturali lontane o con quelle che qualcuno potrebbe considerare degenerazioni. Anche nella “nostra” storia (cristiana, occidentale, “tradizionale”) la parola “famiglia” ha assunto o assume diversi significati. Può infatti indicare:

▪ una realtà minima (nucleare) o un gruppo ampio e ramificato;

▪ il risultato di una scelta libera degli individui che la compongono (o almeno di qualcuno di essi) o il risultato di un accordo sociale, dal quale il singolo non può sfuggire;

▪ ciò che nasce da un patto tra eguali, o da una subordinazione dell’uno all’altro;

▪ una società che non esiste se non è finalizzata alla procreazione o una che ha senso in quanto finalizzata al mutuo aiuto;

▪ il risultato dell’espressione verbale di un “sì” o una lunga e complessa procedura;

▪ una realtà che assorbe in sé il matrimonio o una che dal matrimonio è costituita;

▪ una realtà puramente profana o una essenzialmente (e tremendamente) sacrale;

▪ uno stato voluto come permanente o una scelta sentita come reversibile.

A tutto ciò si aggiunga che l’etimologia della parola “famiglia” sembra richiamare più alla dimensione fisica (“famiglia” è l’insieme delle persone che condividono l’abitazione) che alla comunione tra le persone (ancor più arduo sarebbe inerpicarsi sull’uso e l’etimologia del termine “matrimonio”); né nella storia è facile riscontrare una traccia evolutiva in una precisa direzione (ad esempio: non è vero che la modernità abbia condotto dalla famiglia allargata a quella ristretta). Le diverse epoche della nostra storia hanno visto oscillazioni e cambiamenti.

Noi oggi parleremo di “famiglia” partendo da una definizione “da vocabolario”: la famiglia come «gruppo di persone legate da stretti vincoli di sangue, da parentela o da affinità e che conducono vita comune». La formazione di questo gruppo è accompagnata da consuetudini, usanze, rituali e leggi ben codificate (la famiglia non è qualunque tipo di unione determinata dal consenso o dalla violenza). Non dimentichiamo però quante possono essere le variabili di questa realtà: ciò che abbiamo detto sopra rende difficile qualunque discorso su questo tema e soprattutto rende arduo il dialogo tra posizioni diverse, se non si chiarisce in partenza di quale famiglia stiamo parlando (talvolta dobbiamo aggiungere un aggettivo). Se non ne siamo consapevoli la nostra “difesa della famiglia” rischia di cadere in tremendi equivoci, o di cedere i più nobili valori a giochi politici contingenti e alle più tristi strumentalizzazioni.

***

Cosa ci dice della famiglia la Parola di Dio? Ci dice, per cominciare, che la famiglia c’è e fa parte del piano divino, dell’ordine della creazione, è tra le cose molto buone. La famiglia ha dunque un rapporto più diretto con l’essenza dell’uomo rispetto al rapporto che si può instaurare con la tribù, la nazione, lo Stato. La vita in comune, le relazioni più profonde, la fecondità che scaturiscono da esse hanno la loro fonte nell’amore, nella vita, nella fecondità e nella personalità di Dio.

Ciò è ripetutamente confermato da tutta la “storia sacra”, da tutte le occasioni in cui Dio, in diversi modi e momenti, parla al suo popolo: una storia di uomini che fanno parte di famiglie. Per fare riferimento solo ad alcuni aspetti, si può ricordare che:

▪ i legami tra i genitori e i figli sono più volte richiamati come comandamento divino; grave peccato è quello del potente che (come Davide con Betsabea, moglie di Uria) rompe con la violenza i vincoli familiari;

▪ Dio, per esprimere la propria vicinanza all’uomo, si identifica con le figure familiari: quella del marito (Isaia 62,5b: «come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te»), quella del padre (non solo il Nuovo Testamento: anche in Giobbe 31,18 «Dio, come un padre, mi ha allevato fin dall’infanzia e fin dal ventre di mia madre mi ha guidato»); quella della madre (Isaia 49,15: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai»), perfino quella del figlio (Isaia 9,5a: «Poiché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio»). Le più profonde solidarietà tra gli uomini ci parlano dunque di Dio: e quando Paolo deve parlare del matrimonio, nel quinto capitolo della lettera agli Efesini, non trova di meglio da fare che una articolata analogia tra esso e il legame che unisce Gesù Cristo e la Chiesa;

▪ è attraverso una storia di famiglie che Dio si fa uomo, come ci ricordano le genealogie di Gesù che compaiono nel primo capitolo di Matteo e nel terzo di Luca; e non sempre si tratta di famiglie “lineari” come ci aspetteremmo, perché nella storia della “famiglia” di Gesù ci sono donne che avevano vissuto la loro fedeltà al Signore in condizioni davvero particolari.

Se giungiamo al Vangelo troviamo però anche qualche accento di tipo diverso. È come se Gesù volesse metterci in guardia dall’assolutizzazione dei rapporti familiari, che in gran parte dell’Antico Testamento e nel Giudaismo dell’epoca avevano grande importanza. E così nel vangelo di Matteo (ma con paralleli in Marco e Luca) troviamo frasi di questo tipo:

▪ «e un altro dei discepoli gli disse: “Signore, permettimi di andar prima a seppellire mio padre”. Ma Gesù gli rispose: “Seguimi e lascia i morti seppellire i loro morti”» (Mt 8,21-22);

▪ «non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa. Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me» (Mt 10, 34-37);

▪ «mentre egli parlava ancora alla folla, sua madre e i suoi fratelli, stando fuori in disparte, cercavano di parlargli. Qualcuno gli disse: “Ecco di fuori tua madre e i tuoi fratelli che vogliono parlarti”. Ed egli, rispondendo a chi lo informava, disse: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”. Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: “Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre”». (Mt 12, 46-50).

Queste frasi portano in noi un po’ di sconcerto, come probabilmente lo portarono ai primi uditori di Gesù (a cominciare da Maria e Giuseppe che dal Gesù dodicenne si sentirono dire che doveva occuparsi delle cose del Padre suo). La famiglia, per quanto si possa esaltarne l’importanza, non è un valore assoluto: può diventare anche un ostacolo per chi vuole seguire Cristo ed entrare nel Regno. Così tutta la storia della Chiesa è ricca di santi e sante che lasciano le loro case, violando il destino (spesso matrimoniale) che i loro genitori avevano scelto per loro. Santi e sante che entrano in lite con le proprie famiglie per la gestione di patrimoni sentiti come un ostacolo sulla via della salvezza. Santi e sante che trovano opposizione alle proprie scelte radicali nei propri cari e teorizzano (sulla scorta dei passi evangelici che abbiamo letto, o di altri) che vi sono obblighi (e diritti) che vanno oltre i vincoli familiari. Le storie di Bernardo di Chiaravalle, di Francesco d’Assisi, di Tommaso d’Aquino non sarebbero state le stesse se essi avessero scelto di rimanere disciplinatamente integrati negli schemi voluti dalle rispettive famiglie, rinunciando così a seguire la loro vocazione. Vorrei ricordare la testimonianza del beato Franz Jägerstätter, trentaseienne contadino austriaco, padre di tre bambine in tenera età, che leggendo la Parola di Dio maturò la convinzione che era profondamente ingiusto servire nell’esercito del Terzo Reich. A chi gli ricordava che aveva delle responsabilità verso la sua famiglia, che gli avrebbero dovuto consigliare di non intraprendere un percorso che portava certamente verso la ghigliottina, egli rispondeva:

«se ci si dedicasse con la stessa assiduità con cui si è tentato di salvarmi dalla morte terrena a mettere in guardia ciascun uomo contro il peccato mortale, e perciò contro la morte eterna, ci sarebbe davvero già il paradiso in terra. C’è sempre chi tenta di opprimerti la coscienza ricordandoti la sposa e i figli. Forse le azioni che si compiono diventano giuste solo perché si è sposati e si hanno figli? … si può allora anche mentire perché abbiamo moglie e figli e per di più giustificarsi attraverso un giuramento? Cristo stesso non ha forse detto: “chi ama la moglie, la madre e i figli più di me non è degno di me”?».

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La Chiesa, riunita dalla parola di Gesù, ha dunque nei secoli difeso il diritto degli uomini e delle donne a seguire la chiamata da parte di Dio, se necessario andando anche contro, o oltre, le strutture familiari (almeno quelle di origine, che non sono la conseguenza di una libera scelta vocazionale). Tra le conseguenze di questa posizione ve n’è una che vale la pena di sottolineare. Nel momento in cui esaltava il diritto del singolo di rispondere alla propria personale chiamata da parte di Dio, anche scegliendo diversamente da quanto voleva la sua famiglia (di origine), la Chiesa prendeva anche le parti di chi si ribellava alle scelte matrimoniali imposte. Difendeva quindi la dottrina del consenso matrimoniale: il matrimonio non poteva che essere costituito dal libero consenso degli interessati (al punto che qualunque espressione esterna della volontà degli interessati di stringere reciprocamente tale vincolo, religiosa o profana, familiare o pubblica che fosse, fino al Concilio di Trento era considerata giuridicamente valida).

Ciò che per noi oggi appare quasi una banalità, e che è confluito anche nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (§ 16: «uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione. … Il matrimonio potrà essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi»), non è stato un fatto scontato fino a tempi relativamente recenti, e in molti contesti non lo è tutt’ora. È il risultato di un percorso in cui proprio la Chiesa ha spesso preso le difese – anche oltre il limite che le autorità civili e i buoni padri di famiglia hanno considerato ragionevole – del parere degli interessati, che trovavano nel prete quel testimone autorevole che non poteva negare la benedizione di un sacramento fondato sul consenso. La regolamentazione costituita in età moderna ha reso essenziale la pubblicità di questo consenso e l’accertamento della consapevolezza degli sposi, ma non ha modificato il principio.

Ci sono però anche altri settori nei quali il cristianesimo ha portato a una significativa evoluzione dell’istituto familiare. Nelle società antiche non era infrequente che il capo della famiglia ne fosse anche sacerdote e giudice. Ciò aveva tra le sue conseguenze il diritto di vita e di morte del pater familias sui membri del gruppo. Se oggi riconosciamo un limite al diritto dei genitori sui figli, e di un coniuge sull’altro, è anche in forza del Vangelo che ha sottolineato la dignità e i diritti degli uomini e delle donne, e in particolare dei più piccoli e dei più indifesi.

Se dunque il cristianesimo ha restituito il matrimonio agli sposi, difendendoli dalle intromissioni dei genitori, dei clan familiari e di qualunque altro potere esterno, ha restituito anche ai figli la dignità di persone che vanno difese anche nel tempo in cui sono minorenni. Possiamo allora riconoscere in questi cambiamenti, che hanno portato alle moderne formulazioni dei diritti dell’uomo (e che sotto un certo aspetto sono “depotenziamenti” dell’unità familiare!), un qualcosa che ha una consistente radice cristiana.

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Ho voluto dedicare gran parte del mio discorso a una (cristianamente fondata, spero) “critica della famiglia” per mettere in guardia sia dalla sua assolutizzazione (la famiglia non è una delle persone della Trinità, anche se certi discorsi dal pulpito talvolta ce lo fanno sospettare), sia dalla sua “riduzione” nel perimetro di quelle forme di convivenza che si sono storicamente costituite. Spero di aver dimostrato, in particolare, come sia molto discutibile la posizione di coloro che parlano della “naturalità” di un certo assetto dell’istituto familiare, che secondo alcuni avrebbe bisogno solo di essere riconosciuto e difeso. In realtà la storia della famiglia è anche una storia di cambiamento. Dai tempi in cui della famiglia faceva parte anche la servitù e dai tempi in cui la donna era sottomessa al marito tante cose sono cambiate. Questo deve darci fiducia e coraggio di fronte ad altri cambiamenti che sono avvenuti e che stanno avvenendo. Nel corso della nostra vita abbiamo assistito all’emancipazione della donna dalla tutela del capofamiglia maschio, cosa che probabilmente non ha ancora dispiegato tutte le sue potenzialità positive. L’allungamento dell’età media sta ora sconvolgendo i rapporti tra le generazioni, creando situazioni che probabilmente non erano mai state vissute in passato. Non confondiamo dunque la famiglia con le forme storiche che ha assunto in un determinato momento.

Ma se la famiglia cambia, i rapporti interpersonali non cesseranno di essere il primo e principale luogo in cui gli esseri umani possono sperimentare affetto, fedeltà, solidarietà, in una complessità di rapporti incredibile per chi non li vive. La famiglia oggi, in particolare, ha forse ha minor rilievo per la tutela del “corpo”, ma probabilmente ha più importanza per la tutela dell’“anima”, vale a dire della personalità, dell’unicità irripetibile, della libertà, della moralità, della coscienza di essere responsabili per gli altri. Abbiamo infatti visto e vediamo poteri che cercano di ridurre gli individui ad atomi privi di queste dimensioni, che nascono dalla relazionalità, per poterli meglio manipolare. Si ricordi come si conclude il romanzo 1984 di George Orwell: il protagonista viene sconfitto dal potere demoniaco del Grande Fratello quando viene indotto a rinnegare ciò che lo lega alla sua donna.

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Dio ha creato a sua immagine e somiglianza l’essere umano fatto per la relazione reciproca e gratuita, e capace di dare seguito alla vita. Le comunità di vita e di affetti fanno dunque parte del piano divino: dove le persone scelgono di stringere legami, a qualunque forma giuridica o tradizione culturale e religiosa facciano riferimento, Dio misteriosamente è presente, ed è presente in modo tanto più forte quanto più queste unioni nascono dal libero consenso, sono improntate al rispetto e all’aiuto reciproco, testimoniano e vivono la fedeltà, danno seguito alla benedizione divina pronunciata nel giardino dell’Eden. La Chiesa – riconoscendo nel matrimonio uno dei luoghi in cui in modo particolare si manifesta la presenza di Dio – testimonia la sua fede nel fatto che l’amore coniugale esprime qualcosa della realtà di Dio e di quel Dio che si rivela pienamente in Gesù Cristo.

Ogni amore che vuole essere “per sempre” parla in qualche misura dell’amore incondizionato di Dio all’umanità, manifestatosi in Gesù Cristo, e lo annuncia al di fuori di sé, ne diventa testimone. La famiglia che si limita a osservare una qualche minima “legalità” ma che non sa essere punto di partenza per più ampie solidarietà, che non testimonia al di fuori di sé l’affetto, che non insegna la fedeltà, è allora una famiglia che si ripiega e fallisce. Come diceva nei primi secoli della Chiesa l’ignoto autore della Lettera a Diogneto, i cristiani «né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. (…) Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. (…) Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi».

Testo presentato in un incontro a Molina di Fiemme (TN) e poi pubblicato su Il Margine n. 5/2013.

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