Famiglia: per non lasciare il tema ai fanatici

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Il recente vespaio di polemiche suscitato dal convegno di Verona sul problema della «famiglia naturale» induce a chiedersi se sia possibile, oggi, una riflessione serena su questo tema, o se non sia più prudente eluderlo accuratamente.

Consapevole di andare incontro al rischio di incorrere in guai mediatici di ogni genere, ho scelto di seguire la prima strada e di affrontare qui e adesso questo tema spinoso, nella convinzione che lasciarlo in mano ai fanatici dell’uno o dell’altro fronte sia una specie di fuga.

Mi ostino a pensare, infatti – malgrado  le smentite che ogni giorno arrivano scorrendo i deliranti messaggi dei social –, che anche tra persone che la pensano diversamente sia possibile un confronto rispettoso e intellettualmente onesto, senza la pretesa di “vincere” una battaglia dialettica, ma nell’umile sforzo, da parte di ciascuno, di  far almeno vedere all’altro le proprie ragioni.

Atteggiamenti da evitare, in un contesto problematico

La questione è resa più delicata dal fatto che il problema della «famiglia naturale» ha dei risvolti etici e giuridici che esasperano gli animi.

Chi afferma la sua esistenza, negando tale qualifica ad altre forme di unione, ha spesso l’atteggiamento moralistico del giudice che ha la missione di difendere i sani costumi dalla corruzione dilagante.

Chi la nega assume, altrettanto spesso, l’aria indignata di chi rivendica il progresso della morale contro modi di pensare tradizionali stupidi e bigotti.

Non si tratta solo di stili polemici soggettivi

C’è, dietro questo dibattito, una storia dolorosa di persecuzioni verbali, morali e fisiche nei confronti delle persone omosessuali, che per secoli sono state derise, vilipese ed emarginate dall’opinione pubblica e condannate come viziose dalla Chiesa (e non solo dalla Chiesa: la posizione di altre comunità religiose su questo tema è stato ed è ancora più dura).

E c’è una reazione pubblica, comprensibile, ma spinta a volte fino a forme estreme, che si manifesta nei gay pride con toni volutamente dissacratori ed offensivi nei confronti della tradizione cattolica. Per non parlare delle ricadute giuridiche legate all’una o all’altra posizione e le cui conseguenze ricadono su persone in carne ed ossa, che si trovano a pagarne il prezzo.

Dalla condanna al rispetto

Parlare pacatamente del problema è possibile solo se si è consapevoli del suo spessore umano e si è disponibili a rispettare il carico di gioie, sofferenze, paure, speranze, che sono in gioco e che forse troverebbero migliore risposta nel silenzio, se non fosse che alla fine è necessario adottare, a livello politico, certi o certi altri criteri.

Chi, come me, si trova a scrivere su un blog di dichiarata matrice cattolica deve, alla luce di quanto detto, cominciare con un atto penitenziale per quanto è accaduto nella storia delle passate cristianità e con la necessaria presa di distanza da quanti si appellano al severo giudizio morale e religioso che Paolo dà dell’omosessualità nella lettera ai Romani.

L’apostolo ha presente una società dissoluta e ne condanna i vizi, frutto di corruzione morale. La mia esperienza invece è che – ferma restando la possibilità, in alcuni casi, di una libera scelta – la maggior pare delle persone gay e lesbiche con cui mi sono incontrato non ritenevano di aver scelto affatto il loro orientamento affettivo (perché di questo si tratta, prima di ogni altra cosa) e sessuale, ma di essersi ritrovati ad essere così com’erano senza alcuna loro decisione etica. La linea della condanna morale si rivela a questo punto inadeguata.

È questa, del resto, la posizione del Catechismo della Chiesa cattolica (11 ottobre 1992), dove si insiste piuttosto sulla necessità di capire e rispettare i soggetti in carne ed ossa che vivono la condizione omosessuale:

«Un numero non trascurabile di uomini e di donne presenta tendenze omosessuali profondamente radicate. Questa inclinazione, oggettivamente disordinata, costituisce per la maggior parte di loro una prova. Perciò devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione. Tali persone sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita, e, se sono cristiane, a unire al sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione» (n. 2358).

Una posizione, peraltro, che suppone comunque una valutazione critica dell’omosessualità come tale – si parla di «inclinazione oggettivamente disordinata» – che, ovviamente, i movimenti LGTB respingono come un residuo del medio evo.

Al di là del materialismo

È chiaro, dunque, che per la Chiesa esiste una «famiglia naturale» fondata sul matrimonio tra due persone di sesso diverso. È davvero una posizione superata?

Oggi lo dicono concordi quasi tutti gli intellettuali. Il modello tradizionale di famiglia, a loro avviso, è un residuo del passato. Non sempre, però, il livello delle argomentazioni è adeguato a sostenere una tesi così radicale.

Perciò, per rispetto di questa posizione, preferisco riferirmi a quelle portate da un intellettuale che stimo, Massimo Recalcati, il quale, in un recente articolo sul Corriere della Sera, ha spiegato perché a suo avviso non si possa parlare di «famiglia naturale».

Partendo dagli esempi di famiglia della Bibbia (a cominciare da quella di Gesù), Recalcati può concludere che «il mistero della generazione della vita e della sua accoglienza non può mai essere ridotto materialisticamente alle leggi della natura, perché porta con sé quel miracolo della parola senza il quale l’umanizzazione della vita sarebbe semplicemente impossibile (…). Senza il miracolo della parola che adotta la vita del figlio non esiste né padre, né madre».

Insomma, quello della genitorialità è «un gesto che eccede ogni legge della natura». Perciò «non è sufficiente uno spermatozoo o un ovulo né per generare davvero un figlio, né per fare un padre o una madre».

In questa logica, «è davvero eterosessuale chi sa amare l’altro nella sua differenza. Può esserlo o non esserlo con le stesse possibilità una lesbica, un omosessuale o un cosiddetto eterosessuale. È così difficile capirlo?».

Una certa passione polemica, indubbiamente, traspare da questa frase finale ripetuta due volte, tra un passaggio e l’altro dell’articolo. E la domanda sembra rivolta proprio ai cattolici, visto che, sottolinea Recalcati, «quello che fa davvero la differenza è la legge dell’amore e non la legge della natura. È il cuore della predicazione cristiana».

E conclude chiedendo ancora una volta: «È così difficile capire che c’è padre e c’è madre, che c’è famiglia non perché c’è continuità di sangue o differenza anatomica degli organi genitali dei genitori, ma perché c’è dono, amore?».

Un salto logico

Nessuno, a mio parere, poteva dire meglio i motivi contro la «famiglia naturale». Eppure, a me viene difficile – non “capire” (almeno, spero) quello che l’autore dice –, ma essere d’accordo con lui. E a farmi difficoltà non è la mia fede – non potrei certo farla valere con chi non è credente –, ma la mia ragione.

C’è nel discorso di Recalcati un salto logico. Comincia dicendo una cosa più che vera, e cioè che la dimensione biologica non è sufficiente perché ci siano la genitorialità e la famiglia, e conclude da questo che essa non ne è una componente necessaria.

Ora, dire che senza l’amore non ci sono padre e madre è verissimo; ma questo non significa affatto che da solo l’amore sia sufficiente, come l’autore crede di aver dimostrato.

Il corpo racconta…

L’amore è senza dubbio generativo, ma questo non sostituisce, come dimostra l’evidenza, la generatività biologica quella degli spermatozoi e degli ovuli, che, a sua volta, suppone due persone eterosessuali non solo in spirito, ma nel corpo (salvo complessi e costosi artifici tecnici).

E questo dipende, a sua volta, dal fatto che non c’è una storia di uomo che non passi attraverso il racconto del suo corpo. È chiaro che la famiglia è, come tutto ciò che esprime la nostra umanità, un sistema simbolico irriducibile alla biologia.

Ma è evidente altresì che i simboli esprimono la complessa realtà di un essere fatto di carne e di sangue, e attraverso questa carne e questo sangue non possono non essere veicolati. Un sorriso è immensamente di più che una contrazione dei muscoli del volto, ma senza il volto non sarebbe neppure concepibile.

Perciò mi ritrovo nella posizione della Chiesa che, in un tempo in cui la fisicità dei corpi viene svalutata – si pensi al ruolo del virtuale nei nostri rapporti umani, sempre più svincolati dal ritrovarsi fisicamente faccia a faccia –, sta rimanendo paradossalmente l’ultimo baluardo della inscindibile unità tra spirito e corpo.

Senza per questo alcun atteggiamento di disprezzo verso quelle forme di amore familiare che, per vari motivi, non possono realizzare tale unità, è però innegabile una diversità.

La «parola» non sostituisce le corde vocali, normalmente ne è il frutto. Dove si deve fare a meno della genitorialità biologica, qualcosa manca. Si può accettare come inevitabile, in certi casi, questa mancanza, non negarla. E forse non è un caso che molti figli adottivi, pur circondati d’amore, avvertano l’insopprimibile nostalgia del padre e della madre che li hanno generati nella carne…

Non è un motivo per fare crociate né dall’una, né dall’altra parte. Una saggia legislazione deve saper tutelare le persone che vivono storie diverse e nessun essere umano – meno che mai dei figli – deve essere discriminato. Però, finché qualcuno non mi farà discorsi più convincenti di quelli, pur così affascinanti, di Recalcati, continuerò a pensare che il modello di famiglia pienamente umano debba tendere a unire la biologia con l’amore, e non scegliere tra i due.

Giuseppe Savagnone è direttore dell’Ufficio per la pastorale della cultura dell’arcidiocesi di Palermo. Post pubblicato nella rubrica «I chiaroscuri» (su www.tuttavia.eu), il 19 aprile 2019.

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