Afghanistan, un promemoria

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Il dramma che si sta consumando in Afghanistan rappresenta uno choc per il mondo. Avremo tempo e modo di riflettere a lungo al riguardo.

Per intanto, abbozziamo un primo, incompleto promemoria di problemi sui quali si dovrà ritornare al riparo dalle emozioni e dalle polemiche contingenti e di corto respiro. Per punti sintetici.

 1. È d’obbligo chiamare le cose con il proprio nome: siamo a fronte dell’epilogo infausto del fallimento della missione varata dalla vasta coalizione internazionale in risposta all’attacco alle torri gemelle del 2001. Si leggono giudizi edulcorati e autoconsolatori, del tipo: comunque, per venti anni, quel tormentato paese avrebbe sperimentato civiltà e democrazia.

Se l’epilogo è stato così precipitoso e comunque preceduto dalla decisione di un ritiro certo non motivato dal “compimento della missione” ciò palesemente significa che i cambiamenti attesi, nella società e nella politica, non hanno messo radici.

2. Sin dall’origine, quella missione scontava una dubbia legittimità. Formale perché priva di un inequivoco avallo dell’Onu (discusso e discutibile l’appello alla legittima difesa ex art. 51 non trattandosi dell’aggressione di uno Stato sovrano), la quale, sia chiaro, resta un riferimento prezioso e comunque, allo stato, privo di alternative per stabilire la legalità internazionale, ma che – va sempre rammentato – sconta due vistosi limiti: un meccanismo decisionale ipotecato dalle cinque potenze vincitrici della seconda guerra mondiale e dunque spesso non equanime e la indisponibilità di strumenti di intervento efficaci cui surroga, come in questo caso, la Nato, la quale, in verità, avrebbe un’altra missione (a sua volta da ripensare in radice).

Dubbia legittimità sostanziale perché si considerò l’Afghanistan santuario del terrorismo islamista, salvo poi apprendere che gli attentatori avevano radici altrove.

3. Si è accesa puntualmente la disputa intorno all’interrogativo se la democrazia sia suscettibile di essere esportata. Con opinioni spesso frettolose e sloganistiche.

Per ragionare ci si deve intendere sul concetto complesso di democrazia. Giovanni Sartori, padre della scienza politica italiana, parlava più esattamente di liberal-democrazia, tuttavia distinguendo tra il profilo liberale (di garanzia e difesa contro oppressione e dispotismo) e quello democratico (di promozione e sviluppo dei diritti). Il primo condizione e presupposto del secondo, concludendo che “la democrazia si può esportare sì, ma non sempre e non ovunque”.

La cosa, a suo dire, sarebbe riuscita in India e in Giappone, non laddove l’elemento religioso fondamentalista – il monoteismo duro, specie nel caso dell’islam politico – vi si oppone recisamente. Di mio, al “non sempre e non ovunque” aggiungerei “non con ogni mezzo”.

Cioè non con mezzi che troppo apertamente configgono con il fine dichiarato (o che sono percepiti come tali), visto che quello della democrazia è per definizione un regime politico che sublima il conflitto con la competizione pacifica, dunque ripudia la violenza.

4. Quale che sia il giudizio circa la possibile conciliazione tra tradizioni/culture/religioni e democrazia – un altro caso interessante e controverso è quello rappresentato dai paesi del centro e dell’est europeo un tempo occupati dall’Urss – certo è che non è improprio porre la questione della “inculturazione” della democrazia, cioè delle condizioni perché essa si insedi e delle forme (non univoche) che essa può assumere a seconda dei contesti storico-culturali.

5. Ciò non significa misconoscere la intima valenza universalistica della democrazia, né negare la circostanza storica – è un fatto – che essa ha avuto un singolare e virtuoso sviluppo in occidente grazie a una doppia matrice, cristiana e illuministica, con le loro due rispettive stelle polari: il primato della persona e i diritti di libertà e di autodeterminazione.

In origine tra loro in conflitto, ma alla fine virtuosamente convergenti nel costituzionalismo moderno e nelle carte internazionali dei diritti. E tuttavia  una tale consapevolezza del carattere culturalmente situato della “democrazia che vogliamo” al riparo da tentazioni, più o meno consapevoli, di neocolonialismo suggerisce di attenersi a un concetto sobrio ed essenziale di democrazia, centrato sui diritti umani di base e non sulle forme politico-istituzionali per definizione variegate.

6. Le messe a punto qui accennate prescrivono altresì un’accurata vigilanza contro abusi e ipocrisie dai quali, diciamo la verità, l’occidente democratico è stato tutt’altro che immune. Basti pensare a interventi spacciati per umanitari (o addirittura per guerre etiche) e in realtà mossi da interessi economici o geopolitici, condotti stringendo alleanze imbarazzanti, praticando doppi standard (forti con i deboli, deboli con i forti).

Gli esempi si sprecano. Classico proprio il caso dell’Afghanistan o quello della seconda guerra all’Iraq, motivata da la conclamata bugia delle armi di distruzione di massa in possesso di Saddam Hussein. Con il brillante risultato di avere posto le premesse per la nascita del ISIS o Daesh che dir si voglia. Si pensi alla liaison dell’occidente con i regimi autoritari delle petromonarchie “amiche” del Golfo e al nostro disinvolto commercio delle armi. O al caso recente di un nostro ex presidente del Consiglio che, dietro compenso, plaude al “rinascimento” di un regime che fa a pezzi i suoi dissidenti.

7. Per una curiosa coincidenza del destino il dramma afghano è esploso negli stessi giorni della morte di Gino Strada, che lì aveva speso buona parte delle sue energie.

Rammentiamo i suoi sferzanti giudizi. Una testimonianza limpida e severa, la sua, di un umanitarismo e di un pacifismo senza se e senza ma. Contro tutte le guerre. Se ne può discutere la valenza politica perché resta pur sempre il drammatico dilemma di come conciliare il dovere di disarmare l’ingiusto aggressore con il sempre più incerto principio di proporzionalità con riguardo alle peculiarità delle guerre moderne e il loro comprovato corredo di vittime in grande maggioranza civili.

Ma ricordo un monito del cardinal Martini intorno al concetto di intercessione. Opera per la pace e per la giustizia chi letteralmente intercede (come Cristo con le sue braccia distese sulla croce), “mettendosi in mezzo” tra i contendenti, disponibile e pronto a prendere su di sé il dolore generato da quel conflitto.

Come a dire che si assurge a costruttori di pace e di giustizia solo nella misura in cui si è disposti a pagare per esse un prezzo personale concreto. Pure mi viene da ripensare ai moniti più politici di Giuseppe Dossetti contro la guerra del Golfo. Furono giudicati esagerati, dal tenore apocalittico. In realtà egli, frequentando il medioriente (aveva una comunità in Giordania), con una lucida lungimiranza della quale difettava e difetta la politica occidentale, intravide gli inquietanti sviluppi a lungo termine della reazione delle masse islamiche in ebollizione.

Testimoni e coscienze illuminate e rigorose pur così diverse, se ascoltate, avrebbero risparmiato alla nostra politica errori e tragedie.

8. Infine, il paradosso che sia toccato a Biden incassare una bruciante sconfitta. A poco serve notare, ancorché vada notato, che fu Trump a deliberare unilateralmente, senza consultare gli alleati, il precipitoso ritiro delle truppe dall’Afghanistan.

Sta la sostanza: rassegnarsi all’idea che gli Usa possano rappresentare il guardiano del mondo (tanto più se in solitudine) è non solo un errore, ma anche un illusione. Dovremmo averlo compreso.

Con ciò che ne segue in termini di multilateralismo e, segnatamente, di protagonismo dell’Europa. Al momento, solo una stucchevole litania. Purtroppo.

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Un commento

  1. don Massimo Naro 25 agosto 2021

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