Lockdown sulla rotta balcanica

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coronavirus rifugiati

Dopo la proclamazione dello stato di emergenza del 16 marzo 2020 a motivo della diffusione del virus Covid-19, il governo bosniaco ha applicato, in progressione, diverse misure di prevenzione, quali il distanziamento sociale, la chiusura delle scuole, dei negozi, dei bar e dei ristoranti, il divieto di assembramenti, la chiusura delle frontiere, l’obbligo di quarantena, ecc.. I provvedimenti hanno toccato fortemente la vita della popolazione migrante lungo la rotta balcanica, in Bosnia in particolare, specie per chi viveva all’interno dei centri di raccolta del paese.

I campi controllati solitamente dalla milizia privata, normalmente aperti al transito dei migranti registrati da IOM, sono stati chiusi senza più alcuna concessione di permessi di ingresso e di uscita. La chiusura ha avuto pesanti conseguenze anche sul lavoro di assistenza delle organizzazioni umanitarie quali IPSIA sostenuta da Caritas Italiana.

I migranti, costretti nei centri, hanno conosciuto un ulteriore incremento dei livelli di stress e di precarietà, si sono sentiti in trappola in luoghi in cui il contagio avrebbe potuto propagarsi con effetti devastanti: nessun presidio sanitario è stato loro messo a disposizione, ovviamente non sono state distribuite né mascherine, né guanti, né igienizzanti, in spazi di vita in cui il distanziamento sociale era e resta pressoché impossibile.

Le persone si sono viste inoltre impossibilitate ad acquistare qualsiasi bene in proprio, dal cibo ad altri generi. Non hanno potuto uscire per ritirare i soldi che i parenti mandavano da casa (come sempre avviene lungo la rotta attraverso gli uffici Western Union). Non hanno potuto tentare il game ossia il drammatico gioco di attraversamento delle frontiere per raggiungere le destinazioni stabilite in Europa. Tutto ciò ha facilmente determinato l’incremento del mercato nero all’interno dei campi, prontamente fiorito dalle organizzazioni illegali aduse a rifornire i migranti di alimentari, ricariche telefoniche, sigarette, ma anche di alcool e di droghe, con la collusione degli agenti corrotti.

Le ONG ritenute non essenziali nei centri hanno dovuto sospendere le loro attività, ovvero ridurre la loro presenza e lavorare secondo un meccanismo di rotazione molto blanda.

Al di fuori dei campi almeno duemila persone su quasi seimila presenze calcolate in marzo nel paese, si sono ritrovate così escluse dal sistema dei ricoveri, adattandosi a dormire in rifugi di fortuna, quali vecchie fabbriche, case abbandonate e tende costruite con la plastica nei boschi.

Nella zona di Tuzla e di Sarajevo, la polizia e le istituzioni locali hanno comunque ricercato le persone sparse nel territorio e le hanno forzate nei campi di Blazuj e Usivak.

Contestualmente, stante la rigida chiusura delle frontiere e i trasporti bloccati ovunque, i nuovi arrivi dagli altri paesi della rotta balcanica si sono arrestati per circa due mesi. Per tutto il mese di marzo e per larga parte del mese di aprile gli stessi migranti che si trovavano di per sé “liberi” non si sono mossi, perché informati delle estreme difficoltà di proseguire nella rotta verso la Croazia, la Slovenia e l’Italia.

I problemi si sono ulteriormente aggravati nel Cantone di Una Sana e in particolare nel nodo della città di Bihac, ove più di mille persone si sono ritrovate, in condizioni di miseria estrema, all’interno dello stadio e in una vecchia fabbrica devastata.

Il disagio della popolazione locale

La popolazione locale ha, ancora una volta, manifestato un forte e accentuato disagio, accusando i migranti di essere portatori del virus e di altre malattie, oltre che di delinquenza.

Per cercare di fare fronte alle proteste, le autorità di governo hanno aperto in fretta, in aprile, con fondi dell’Europa, un nuovo centro per l’emergenza: un campo di tendostrutture e tende è stato approntato in una località denominata Lipa a circa trenta chilometri da Bihac.

All’apertura del campo, i corpi della polizia speciale hanno iniziato a trasportare in autobus le persone prelevate dai  principali squat – ovvero i cosiddetti luoghi di fortuna in cui si vive “accovacciati” – verso il nuovo campo di Lipa. Ma, nel giro di pochi giorni, le stesse persone sono riuscite in buona misura a scappare ritornando a piedi in città. Nella seconda settimana di maggio abbiamo dunque assistito a Bihac ad una vera e propria “caccia all’uomo”, con tanto di polizia, camionette e furgoni cattura-migranti. In molti casi i loro zaini sono stati bruciati con i sacchi a pelo e le loro povere cose. Trattenuti in garage di privati di notte sono stati riportati allle tendostrutture di giorno. Ogni volta hanno ritentato il tragico gioco.

L’apertura di Lipa ha dato dunque un nuovo improvviso impulso al game che era stato temporaneamente sospeso in attesa dell’allentamento delle misure restrittive collegate al virus. Ora i migranti stanno riprendendo a muoversi massicciamente da Bihac. Tanto è vero che tra la fine di aprile e i primi di maggio, si è assistito ad un significativo incremento degli arrivi anche in Italia, nel Carso triestino.

Nel mentre si è verificata una certa inversione di tendenza rispetto ai respingimenti praticati con durezza da Slovenia e Croazia nei mesi precedenti il lockdown. In effetti un buon numero di persone partite da Bihac è giunto in Italia senza incappare nelle pattuglie di confine. Ciò può significare una certa apertura della politica europea verso i migranti della rotta balcanica? Vorrei crederlo. Ma temo che così non sia.

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