Bye bye Afghanistan

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ritiro usa

Il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan è stato deciso da tempo. Il predecessore di Biden, Donald Trump, aveva negoziato requisiti minimi di sicurezza del Paese con i Taliban, assicurando l’addio per il 1° maggio 2021.

Biden ha spostato di poco più avanti l’impegno, cercando, nel mentre, di spiegare agli americani che ci si ritira perché la missione è semplicemente conclusa.

La tesi è stata espressa in maniera molto semplice: perché gli Stati Uniti sono andati in Afghanistan? Per impedire che dall’Afghanistan fossero orditi altri attentati contro i cittadini americani: ipotesi decaduta! Perciò – dice Biden – ce ne possiamo andare proprio nella data simbolica dell’11 settembre, ad indicare la vittoria conseguita.

Via l’ultimo soldato

Intanto l’ultimo soldato statunitense ha già lasciato la base aerea di Bagram, cuore e simbolo della presenza americana in Afghanistan. Mentre la contemporanea avanzata dei Taliban ha indotto molto repubblicani a definire Biden il responsabile della prossima e possibile caduta di Kabul nelle loro mani, obliando abbondantemente che il processo che si sta concludendo è stato avviato da Donald Trump.

Non crede alla retorica della vittoria neppure l’ufficiale che sta sovrintendendo al ritiro, il generale Austin Scott Miller. Nella scelta di Biden appare evidente il bisogno di convincere l’opinione pubblica che l’Afghanistan non è un nuovo Viet Nam. Molti analisti sostengono che pure la spacciata certezza di aver scongiurato attacchi terroristici non può essere definita fondata, posto che al Qaida traffica ancora da quelle parti e che ora esiste anche lo Stato Islamico del Khorasan.

Di più: è impossibile tacere che la presunta via negoziale tra governo afghano e Taliban è stata smentita poco dopo lo stesso annuncio in cui Trump cercava di accreditarla: il 27 ottobre scorso 1.000 talebani e 2.500 afghani di varia provenienza hanno preso militarmente il controllo di un’area considerevole del Paese, le regioni di Arghandab, Panjwai e Zharey.

Per assumerne il controllo, i berretti verdi americani avevano impiegato anni.  In quella occasione i Taliban sono arrivati alle porte di Kandahar e da tempo si dice che altri siano tornati in forze dal Pakistan – almeno 80.000 operativi – ormai armatissimi e in grado di prendere il controllo dei depositi di un esercito nazionale in grande difficoltà.

Dunque, di quale natura è il ritiro americano?

Un nemico finanziato dagli USA

Il giudizio su una guerra durata vent’anni non può che partire dalle sue cifre ufficiali, ricordando ovviamente che già nel 2008 il comandante delle forze britanniche sul terreno, Mark Carleton-Smith, ebbe il coraggio di ammettere che quella guerra non avrebbe potuto essere vinta militarmente. La prima cifra è ovviamente relativa ai costi, stimati in due trilioni di dollari. La seconda cifra importante è quella delle vite umane: 3.500 soldati occidentali sono morti, oltre 40.000 sono i civili uccisi negli ultimi quindici anni.

Ma è il terzo dato quello decisivo: riguarda il livello di comprensione da parte dell’occupante del contesto nel quale è intervenuto. Per farsi un’idea va tenuto presente che chi creò i Talebani, la forza islamista che ha controllato l’Afghanistan negli anni precedenti l’attacco e che si candida a controllarlo di nuovo, è l’ISI – Inter Services Intelligence – l’intelligence del Pakistan, il Paese dove si nascose Bin Laden dopo il crollo dei Talebani in Afghanistan, disponibile ad ospitare i loro dirigenti e leaders dopo la disfatta.

Alleato degli Stati Uniti, il Pakistan ricevette 12 miliardi di aiuti straordinari proprio in quegli anni, in gran parte a modo di rimborso spese dei combattimenti in cui erano impegnati.  Washington non ha forse capito qualcosa del Pakistan e del suo braccio operativo, l’ISI?  Di mezzo ci sta il timore dell’India.

L’alleanza tra Stati Uniti e Pakistan sarà anche “sincera”, ma ancora più vero appare il timore pakistano, a cominciare dalla sua intelligence, di finire accerchiati dall’India. Perciò il rigore islamista dei talebani è sempre apparso all’ISI quale giusta garanzia della scelta anti-indiana. É un elemento al quale se ne sommano molti altri.

Il popolo afghano e l’incomprensione statunitense

Gli afghani sono famosi per la loro fierezza: un dato non certamente posto al centro delle strategie di Donald Rumsfeld e del resto dell’amministrazione statunitense di inizio millennio, che non si dimostrò molto interessata a ricostruire il Paese e a dotarlo di un valido esercito indipendente, avendo addestrato, a tutto il 2003, solo 6.000 soldati locali. Anche da ciò è dipesa la crescente necessità di soldati occidentali, cioè stranieri, il cui equipaggiamento unitario costava molto più dello stipendio di una vita da soldato locale.

Come ha scritto uno storico americano che ha lungo vissuto in Afghanistan, Carter Malkasian, nel suo recente “The American War in Afghanistan”, la limitata comprensione delle caratteristiche degli afghani – che oggi sorprende meno alla luce della assai limitata comprensione di altre popolazioni e di altri teatri bellici, quali l’Iraq o la Libia – ha determinato l’errore apicale: l’incapacità di unire le tribù pashtun o addirittura di escluderne alcune.

Malkasian indica in particolare i Ghilzai, gli Ishaqzai ed i Noorzai. Tali esclusioni sono presto divenute aperte ostilità a motivo delle coltivazioni di oppio di cui tradizionalmente queste popolazioni vivono, nonché dei frequenti bombardamenti delle loro feste di sposalizio.

Ecco allora che i famigerati “danni collaterali” determinati dalle “operazioni antiterrorismo” sono divenuti il punto di attrito con lo straniero – in particolare americano – che ha consentito ai Taleban di riprendere fiato e di ritrovare consenso, imponendosi di nuovo quali unici interlocutori quando il ritiro è divenuto scelta obbligata di fronte alla loro forza straripante.

La basi di tutto questo sono state poste nella fase iniziale della guerra infinita, durante gli anni di Bush, quelli ritenuti della vittoria e del consenso. Sono stati quegli errori ad obbligare Obama – favorevole ai ritiri come Trump e Biden – a determinare l’incremento della presenza militare, scavando un fossato ancora più profondo con ampi settori della popolazione rurale, quella che non ha goduto dei progressi urbani, né tanto meno della emancipazione femminile.

Un difetto di origine

Esprimo qui un mio convincimento: l’ingegneria stessa della “war on terror” non ha consentito di partire col piede giusto, determinando quello che oggi appare un fallimento. L’idea che il terrorismo si sconfigga con l’antiterrorismo bellico allarga il fossato e accentua gli odiosi “danni collaterali”, non consente alcun rapporto culturale diretto.

Ha scritto Christina Lamb di aver chiesto anni fa ad alcuni giovani afghani – gli stessi giovani che di giorno ringraziavano gli americani per gli aiuti umanitari e che di notte accettavano di attaccarne le basi – perché agissero così. Le risposero: “perché loro, i buoni ragazzi, se ne andranno, mentre i cattivi ragazzi resteranno qui”. Dunque, esporsi per chi domani sarebbe andato via era considerato un prezzo eccessivo.

Il timore che oggi trasforma il ritiro afghano in una seria preoccupazione anche per il generale Austin Scott Miller è che Washington intenda ora operare da lontano, ossia con i droni. Una guerra tecnologica del genere potrebbe essere gestita dal Texas come dalla California – certamente – ma produrrebbe ulteriori danni. Si pone uno scenario inquietante.

Questa opzione è persino in grado di contraddire quella di un ritiro fruttuoso che possa avvenire da un complesso accordo regionale con quegli attori – sono sempre Russia, Cina e Iran! – che ovviamente coltivano interessi diversi in Afghanistan, ma che pure non hanno interesse ad una destabilizzazione totale del Paese.

Negli anni passati la cosiddetta “insurgency” è stata incrementata da tutti per mettere in crisi la presenza americana. Ora, come ha scritto Barnett R. Rubin, uno dei massimi esperti mondiali di Afghanistan, occorrerebbe mettere in atto un complesso ma indispensabile “concerto asiatico”.

Nella nota difficoltà di rapporti, sia con la Russia che con la Cina e l’Iran, l’amministrazione Trump aveva rifiutato di offrire risposte adeguate, soprattutto alla Cina, ma aveva anche offerto alcune indicazioni non disprezzabili: ad esempio l’impegno ad esentare l’Iran dalle sanzioni per i suoi investimenti a Chabahar, il porto iraniano in grado di facilitare l’accesso commerciale indiano in Afganistan. Era questo un segnale nato dall’attenzione di Washington per New Delhi, in grado di coinvolgere pure Tehran.

Un ritiro – dunque – che avrebbe potuto aver luogo molti anni fa, trattando con i Taliban da un ben diverso punto di forza, può funzionare ora solo a condizione di coinvolgere molti soggetti: dalle popolazioni afghane alle grandi potenze asiatiche. Le difficoltà politiche con la Cina e l’Iran non giocano tuttavia a favore di una tale prospettiva.

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