Cina – Santa Sede: l’accordo e l’armonia

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Entro il 22 ottobre l’accordo Cina-Santa Sede per la nomina dei vescovi dovrebbe essere formalmente rinnovato. Accesamente discusso in questi ultimi mesi (cf. SettimanaNews: Ripartenza più che celebrazione) sarebbe prorogato, così come giace (il testo non è pubblico), per due anni.

L’irrituale pretesa di Mike Pompeo (cf. SettimanaNews: L’elefante nella cristalleria), segretario di stato americano, di condizionare l’attività della Santa Sede, pur arrivando alla fine a posizioni più sfumate (29 settembre-1 ottobre), ha lasciato il posto a un intervento importante del card. segretario di stato, Pietro Parolin, e del segretario per il rapporto con gli stati, mons. Paul R. Gallagher, oltre che a una scelta dolorosa come quella di mons. Guo Xijin, vescovo ausiliare di Mindong (Cina), di dimettersi da ogni carica pubblica.

Parolin: per una Chiesa cinese

Il card. Parolin ha parlato a Milano in occasioni dei 150 anni di presenza in Cina dei padri del PIME (3 ottobre). All’interno di un’ampia ricostruzione dei rapporti fra cattolicesimo e Cina, ha così fissato l’ottica da privilegiare, la fondazione di una Chiesa locale. Una linea «che da Benedetto XV porta a papa Francesco, rivolta più al futuro che al presente, più alla Chiesa che deve crescere in Cina che ai contenziosi ecclesiastici di ieri e di oggi, più all’annuncio del Vangelo in questo grande paese che alle regole e ai metodi ereditati dal passato».

Dopo l’instaurazione della Repubblica Popolare (1949), l’espulsione dei missionari stranieri e la spinta ai cattolici di accettare le «tre autonomie» la domanda era: «la Chiesa cattolica sarebbe scomparsa dalla Cina?». Si aprì un tempo confuso e drammatico, di grande disorientamento, ma «è stata vinta la battaglia più importante: fidem servare». La fede cristiana è ancora viva.

Col governo ci fu un primo tentativo di intesa nel 1951 attorno a due principi: seguire l’autorità religiosa del papa e piena lealtà patriottica. Dopo quattro stesure, il documento si arenò. «Credo che al fallimento di tale tentativo abbia contribuito – oltre alle tensioni internazionali: erano gli anni della guerra di Corea – anche le incomprensioni fra le due parti e la sfiducia reciproca. È un fallimento che ha segnato tutta la storia successiva».

I primi spazi di un rinnovato dialogo si aprirono negli anni ’80 e, con alterne vicende, si arriva alla Lettera ai cattolici cinesi di Benedetto XVI nel 2007. Lo stesso papa «approvò il progetto di accordo sulla nomina dei vescovi in Cina, che soltanto nel 2018 è stato possibile firmare». Oggi tutti i vescovi del paese sono in comunione con Roma. L’obiettivo dell’accordo è ecclesiale e pastorale e mira a scongiurare l’eventualità di ordinazioni episcopali illegittime.

«Sono consapevole dell’esistenza di molti altri problemi riguardanti la vita della Chiesa cattolica in Cina. Ma non è stato possibile affrontarli tutti insieme e sappiamo che il cammino per una piena normalizzazione sarà ancora lungo». Due anni di tempo sono un periodo breve per valutare i risultati, «perciò c’è la volontà che l’accordo sia prolungato, ad experimentum come è stato finora, in modo da verificarne l’utilità».

Potere forte e “potere debole”

«Se la Chiesa non avesse concesso a Pechino un ruolo significativo nella scelta dei vescovi – ha detto l’arcivescovo Paul Gallagher, segretario per il rapporto con gli stati della segreteria di stato – ci saremmo trovati – non immediatamente ma fra dieci anni – con pochissimi vescovi, se non nessuno, in comunione con il papa» (intervista a John Allen, 7 ottobre).

«Abbiamo ragione di credere che le autorità cinesi vorranno continuare il dialogo con la Santa Sede entro i termini concordati dall’accordo. Andiamo avanti». Questo non significa essere pienamente contenti, «abbiamo molte riserve e molte cose non hanno funzionato come speravamo», ma «il fatto che siamo riusciti a mettere, per la prima volta dagli anni ’50, tutti i vescovi della Cina in comunione con il santo padre e che le autorità cinesi consentano al papa non una modesta voce in capitolo, ma alla fine l’ultima parola, è davvero notevole».

Ha ricordato inoltre che la diplomazia pontificia non può giocare sulle molte leve a disposizione delle altre (economica, finanziaria, strategica ecc.), ma solo sul «potere debole» dell’autorevolezza. Senza l’accordo non ci sarebbe altro canale di comunicazione con il governo di Pechino. «Se dovessimo abbandonare questo dialogo non avremmo alcun altra opportunità. Non abbiamo una nunziatura a Pechino, abbiamo solo una rappresentanza ad Hong Kong».

A chi dice che il risultato è molto scarso, il diplomatico ricorda il detto di un suo anziano mentore «c’è una grande differenza fra qualcosa e niente». Certo, le nomine vanno a rilento, il vaglio dei candidati è molto difficile, la differenza dei comportamenti delle amministrazioni locali è variegata e talora contraddittoria. Il percorso sarà difficile, a volte incerto, ma non ci sono ragioni per abbandonare il tentativo.

Il quotidiano Avvenire (29 settembre) annuncia per il prossimo futuro un viaggio della delegazione vaticana a Pechino. L’interlocutore vaticano che ispira il testo ricorda la recezione diversificata dell’accordo nelle Chiese locali e lo sforzo compiuto negli «orientamenti pastorali» del 2019 per andare incontro ai problemi di coscienza di preti e vescovi davanti all’obbligo di firma di adesione agli indirizzi dell’associazione patriottica.

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Sottolinea, in particolare, lo slittamento semantico del termine «indipendenza» che non significa più «separazione» dal momento che si accoglie la decisione ultima del papa nella nomina. E rimarca l’incontro storico del ministro degli affari esteri cinesi con mons. Gallagher avvenuto nel febbraio scorso.

Difficoltà e intoppi

Il segnale delle difficoltà del cammino arriva da Mindong (Cina). Il 4 ottobre mons. Guo Xijin ha preso la parola davanti ai suoi fedeli per annunciare le sue dimissioni dalla cariche pubbliche e dalle sue funzioni pastorali.

In perfetto stile confuciano svilisce le sue capacità e ostenta le sue fragilità. «Io sono una persona che non ha nessun talento, la mia testa è ormai obsoleta e non sa come cambiare con il mutare della società, un pastore nato in un povero villaggio che non possiede nessun talento, né virtù, né saggezza. né capacità, né conoscenza; dinanzi a questa epoca che cambia così rapidamente, mi sento quasi incapace. Ringrazio Dio per avermi illuminato facendomi capire che ormai non sono più in grado di essere al passo con quest’epoca; nonostante ciò, non voglio neanche diventare un ostacolo per il progresso. Per questo ho deciso di dimettermi presentando le mie dimissioni alla Santa Sede già nel mese scorso» (cf. Asianews, 5 ottobre).

Di qui la decisione di non partecipare ad alcun evento pubblico, di lasciare l’amministrazione della diocesi, di conferire tutte le offerte ai responsabili diocesani.

La sua vicenda tocca un nervo scoperto dell’accordo. Aveva infatti accettato di lasciare il titolo pieno della diocesi al vescovo “patriottico” Zhan Silu, per restare come ausiliare con una responsabilità diretta sulle comunità “clandestine”. Il suo passo indietro – non concordato con Roma – è un segnale delle difficoltà che l’accordo incontra nelle realtà locali.

Questo non cambia il giudizio complessivo, ma giustifica le puntuali critiche di Sandro Magister sul suo blog che evidenzia come il sistematico privilegio accordato ai “patriottici” da parte dell’amministrazione cinese possa svuotare dall’interno la faticosa intesa raggiunta.

Vi sono voci molto autorevoli che equilibrano le posizioni. Padre Peter Stilwell, per otto anni rettore dell’università San Giuseppe di Macao, sottolinea che l’accordo ha impedito la deriva scismatica in atto da parte del governo e invita a guardare agli elementi creativi e vitali di comunità alle prese con cambiamenti sociali e culturali di enorme rilevanza.

Anche Jan Johnson, esperto e premio Pulizer, sottolinea come l’intesa debba considerasi un argine prezioso in vista di un dinamismo che solo fra qualche decennio saremo in grado di giudicare. Se l’interesse del governo è quello di controllare le fedi come l’intera società civile, l’interesse di Roma è di garantire il futuro.

G.B. Chang ritiene che l’accordo sia nell’interesse dell’intera Cina e dell’insieme del cattolicesimo. Una premessa per cambiamenti che potrebbero rivelarsi importanti.

Una voce sgarbata

La voce più sgarbata e meno equilibrata è del card. J. Zen che nel suo blog scarica critiche e insulti sul segretario di stato, trasformandolo in una sorta di Rasputin, un consigliere più potente del papa e dei papi predecessori, disposto a vendere i cattolici cinesi per la propria ambizione. Fra le irose e scombinate affermazioni si può ricordare l’umiliazione del card. Etchegaray da parte dei cinesi, tacendo che questa avvenne dopo la scorante superficialità di collocare la canonizzazione dei martiri cinesi nel giorno della festa nazionale del paese.

O le (presunte) affermazioni critiche di mons. Celli rispetto agli interlocutori del governo, quando il personaggio è fra i più decisi nel sostenere l’accordo. Torna, in particolare, sull’idea del conflitto totale con il potere comunista invocando l’affermazione di Benedetto XVI in un libro intervista in cui il papa emerito privilegia la forza di resistenza di Giovanni Paolo II rispetto ai comunisti di fronte alla pretesa debolezza dell’Ostpolitik del card. Casaroli.

Dimenticando che la partita con la Cina è del tutto diversa. Nel Regno di mezzo non esiste la tradizione cristiana molto diffusa nell’Est Europa, non c’è la condivisa affermazione dei diritti umani, non c’è una società povera e indigente e non è un paese chiuso su se stesso. Scambiare la burocrazia rattrappita di Varsavia con l’amministrazione di un paese che si candida all’egemonia o alla sua condivisione a livello mondiale, significa non capire la situazione e i mezzi più opportuni per affrontarla e condizionarla.

Zen sembra aver smarrito il rapporto reale con la sua ex diocesi (Hong Kong), esibire una rappresentanza sul cattolicesimo continentale molto dubbia, non conoscere una dialettica creativa con la sua famiglia religiosa di provenienza (salesiani). Il fatto che i media a lui più vicini (come Asianews) non abbiano ripreso o condiviso le sue affermazioni dice molto.

Sul carattere fermo e mite del card. Parolin concordano i suoi antichi compagni di studio, il suoi colleghi che lo indicarono come sottosegretario alla sezione per gli stati (una sorta di capo-ufficio), o quanto si racconta del suo dialogo con Francesco nel momento della nomina. Mentre enunciava i propri limiti, il papa avrebbe aggiunto: li conosco, ma so anche la parte dei meriti.

Ricchezza non egemonia

Tornando alla Cina, il paese vive una crescente diffidenza nel contesto internazionale. In una ricerca del Pew Resarche Center la disapprovazione nei suoi confronti è al 73% negli USA, all’86% in Giappone, all’81% in Australia, al 74% nel Regno Unito, al 62% in Italia.

La diffidenza è cresciuta in particolare per la gestione della pandemia. Con un singolare contrasto. Il riconoscimento della sua potenza economica non traina un consenso alla sua politica e alla sua cultura. In una parola, la Cina è considerata decisiva ma non è egemone.

A questo contribuisce la sostanziale rimozione dell’accordo internazionale che garantiva l’autonomia di Hong Kong e la gestione violenta rispetto alla minoranza uigura, come del resto a quella tibetana. Un contesto che dovrebbe far riflettere il potere cinese e che mette in luce l’originalità dell’accordo con la Santa Sede.

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