Congo: La strada? Una via crucis

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lettera rruaro

In questi giorni, la cronaca riporta a grandi titoli la disgrazia avvenuta nei pressi di Goma, nella Repubblica Democratica del Congo: l’attentato al nostro ambasciatore italiano Luca Attanasio.

Malgrado la gravità del fatto, e la legittimità della richiesta, non sono in grado di rispondere al bisogno di informazioni che molti manifestano: Mambasa, dove io vivo, dista più di cinquecento km da Goma, e i media qui in Congo sono spesso insufficienti quanto a tempestività e oggettività delle notizie.

Il nostro ambasciatore Luca Attanasio l’avevo incontrato fortuitamente a Beni, alcuni mesi fa, in casa di un amico, il signor Mauro. Una persona gioviale, molto accogliente e attenta alle persone. Padre Silvano lo conosceva meglio, avendolo incontrato più volte a Kinshasa. Ha molta stima di lui.

La sua tragedia solleva un po’ il velo su una situazione di sete di dominio, brama di ricchezza, corruzione, connivenze, violenze, distruzioni, che affliggono tutta la parte orientale della Repubblica Democratica del Congo.

Le irruzioni di gruppi armati nei villaggi e anche nei centri un po’ più importanti che sorgono a lato delle vie di comunicazione, sono all’ordine del giorno e provocano distruzioni, saccheggi, morti e ingenerano nella gente angoscia e una grande inquietudine.

Moltissimi scappano, lasciando tutto quello che possiedono: casa, mobilio, campi… Percorrendo la strada da Beni, verso Mbau, Oicha, Eringeti, si è impressionati e sconvolti: per quindici/venti km le case che fiancheggiano la strada, sono deserte, porte e finestre spalancate o sfondate, il cortile sommerso dalle erbe alte tre o quattro metri. Uno spettacolo desolante.

Noi (padre Silvano e il sottoscritto) ci passiamo spesso, ma non ci siamo rassegnati a un tale squallore.

La settimana scorsa mi ero recato a Beni. Dovevo andare in banca, per ritirare l’aiuto che alcuni amici ci avevano inviato: a padre Silvano per sostenere il convitto dei bambini pigmei di Nduye (un centinaio) e a me, per continuare e finire la costruzione della canonica della nuova parrocchia di Cristo Re, affidata ai sacerdoti diocesani.

Arrivato a Beni lunedì dopo pranzo, ripartivo per Mambasa il giorno seguente, verso le due pomeridiane. Al km 80, siamo costretti a fermarci: due o tre km più avanti ci sono degli uomini armati che sono arrivati in un villaggio, Mambalenga, e seminano distruzione e terrore fra gli abitanti. Alcuni militari dell’esercito regolare arrivano e poi proseguono per il luogo degli scontri. Dopo due ore di attesa sembra che la situazione sia ritornata alla normalità. La gente riprende il viaggio: diverse macchine, moltissime moto e qualche camion. Noi ci accodiamo.

Dopo tre km, un crepitio di spari sorprende la comitiva. Scompiglio generale, e fuga alla disperata, gente che cade, che abbandona moto, merci…, uomini che saltano sopra le cabine delle macchine in movimento per salvarsi più in fretta. Poco a poco la fuga diventa meno affannosa, si ha il tempo di guardarsi, di scambiare qualche parola.

Ma ecco, dietro una curva, una sorpresa: due militari in divisa, armati, fermano moto e macchine che cercano salvezza, ed esigono soldi. Diversi cedono e pagano per poter passare; qualcuno, più coraggioso, oppone resistenza. Ci è mancato veramente poco che uno dei due perdesse la testa e sparasse sul giovanotto che si permetteva di opporsi.

Ad un certo punto si accorge di me e dice: «Tu, bianco, da dove salti fuori?». Lo guardo tranquillamente accennando ad un sorriso. Ma dentro di me sento una grande pena a vedere questo ragazzo così abbrutito, così arrabbiato e senza dignità.

E mi torna alla mente quanto mi disse un giorno un comandante rwandese, durante l’invasione di Kisangani da parte dei rwandesi, alleati di Kabila (marzo 1993): «Padre, la gente ci accoglie bene perché siamo venuti a liberarli, ci batte le mani come fossimo degli eroi. Non è vero, padre. Anche noi siamo cattivi, anche noi uccidiamo, anche noi approfittiamo delle ragazze… Quando avevo dieci anni, sono stato portato via da casa di forza; mi hanno insegnato a odiare, mi hanno obbligato ad essere violento, ad essere cattivo. Adesso non ne posso più. Sono malato di Aids, so che vivrò pochi mesi. Voglio tornare a casa e morire vicino a mia mamma». Come si può condannare?

Alla fine passiamo la barriera, senza pagare. Ci fermiamo a Luna, un piccolo centro, dove trovo una cameretta e un piatto di riso e passo la notte senza nessun incidente.

Il giorno dopo, verso le otto possiamo riprendere il nostro cammino. Passando per Mambalenga, si vedono moto abbandonate sulla strada, ciabatte, berretti, sacchi di merci cadute durante la fuga. Noto anche un gruppetto di persone attorno qualcuno steso per terra: è uno dei sedici morti registrati alla fine di questa pazzia. E mi rimangono impresse nell’animo alcune mamme, che si allontanano dal villaggio, portando un bimbo sulla schiena e alcune cianfrusaglie sulla testa e tenendo per mano un bambino più grandicello. Se ne vanno, scappano, lasciando la loro casa, tutto quello che hanno, i campi, i raccolti…, tutto. Forse qualcuno degli uomini caduti era il marito di una di loro…

Drammi che bruciano, ma che non trovano spazio nelle cronache dei nostri media. Eppure la sofferenza delle persone, guardata e accolta con rispetto e umanità, è una grande maestra di vita.

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