Dalla rotta balcanica

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migranti

In Bosnia – nell’ultima tappa della dolorosa rotta balcanica dei migranti alle soglie della agognata Europa – si sta consumando, proprio in questi giorni festivi, una nuova e drammatica emergenza umanitaria.

Dalla primavera scorsa era stato aperto un campo profughi a Lipa, una frazione di montagna, sull’altipiano, a 30 km da Bihac, la città più prossima al confine con la Croazia. La motivazione addotta dalle autorità governative stava nella necessità di isolare temporaneamente la popolazione migrante per prevenire la diffusione del contagio.

Liberarsi dei migranti

Da subito è tuttavia apparsa la ragione più autentica: svuotare dalle persone il campo dentro la città di Bihac – il Bira – ossia il grande capannone di origine industriale faticosamente sistemato allo scopo nel corso del 2019. La cittadinanza mal sopportava infatti il transito continuo dei migranti per il centro di Bihac. Così – quella che era stata presentata come una misura tranquillizzante e transitoria – ha immediatamente ingenerato notevoli preoccupazioni e infine manifestato gli effetti più tragici.

Le ONG dedicate alla assistenza e la stessa IOM (Organizzazione Internazionale delle Migrazioni) direttamente impegnata nella gestione del campo hanno levato le loro voci, senza essere ascoltate. A Lipa non c’erano e non ci sono impianti d’acqua, energia elettrica, riscaldamento. Non c’era nulla, se non le tendostrutture. Sinché il clima è stato caldo ed il tempo è stato buono – durante l’estate e nel primo autunno – la situazione in qualche modo ha retto. Ma con l’autunno pieno e poi con l’inverno, si è giunti rapidamente al collasso.

A dicembre ha iniziato a nevicare. Alcune strutture sono crollate sotto il peso della neve. Il freddo, senza riscaldamento e senza acqua calda, si è fatto poi insopportabile. IOM ha cercato di mettere alle strette le autorità governative annunciando l’abbandono della gestione del campo entro il 23 dicembre e con ciò lanciando l’appello urgente per una soluzione.

In tanti hanno consigliato di riaprire i cancelli della fabbrica abbandonata in città: un posto di per sé orribile, ma comunque già attrezzato e pronto. Gruppi di cittadini hanno reagito alla voce circolante con proteste e picchetti attorno al Bira spalleggiati dal rieletto sindaco di Bihac e pure dalle autorità del cantone di Una Sana, riverberando in tal modo la crisi politica e amministrativa endemica della Bosnia ed Erzegozina, governata da mille poteri locali ed etnici.

L’immagine che più mi ha colpito nella vicenda – davvero emblematica – è quella del camion dei vigili del fuoco che, di loro iniziativa, hanno piazzato davanti alla struttura di accoglienza per impedire l’ingresso dei poveri migranti.

Dopo il 23, dopo il giorno di Natale, il campo di Lipa è stato effettivamente abbandonato: IOM ha lasciato la gestione e le autorità locali hanno sollecitato tutti i giovani uomini migranti ad uscirne. Qualcuno ha pensato bene di appiccare il fuoco per dare un segnale inequivocabile e in fondo condiviso sia dagli ospiti che dagli operatori: per fare terra bruciata e comunicare chiaramente che nessuno avrebbe voluto tornare più in quel posto.

Nel gelo dell’inverno

Nel folle turbine del tanto peggio tanto meglio circa 1.200 persone si sono ritrovate all’aperto, nel fango, al freddo, senza alcun riparo e senza alcuna prospettiva. Gruppi di migranti sono riusciti a raggiungere la città di Bihac. Alcuni sono persino giunti a Sarajevo. Ma la gran parte dei profughi non ha potuto che restare nell’inferno di Lipa.

Al precipitare degli eventi il governo centrale ha annunciato una possibile soluzione di emergenza producendo, di fatto, altri guasti. La proposta di trasferire circa 1.000 migranti a Bradina, in una ex-caserma nei pressi di Mostar, ha sollevato accese proteste da parte della popolazione del posto. I migranti sono stati caricati su autobus che non sono mai partiti.

Per una notte e per un giorno intero sono rimasti in pullman senza destinazione. Sinché son stati fatti scendere nello stesso fango ad allestire protezioni di fortuna. Il 2 gennaio è stata resa nota la decisione governativa di ripristinare il campo a Lipa. In questi giorni l’esercito sta lavorando per rimettere in sesto le tendostrutture incendiate, senza che nulla possa ovviamente mutare, se non in peggio, rispetto alle condizioni, già disumane, dei giorni precedenti.

Anche questa decisione potrebbe essere rivista da un giorno all’altro. Ma al momento è solo ciò che resta sotto lo sguardo pressoché impotente dei soccorritori delle ONG e dei volontari: ci sono persone che rischiano di morire di stenti.

L’impegno della Caritas italiana

L’anno 2021 – dalla primavera-estate del 2018 – sarà il quarto della manifestazione della rotta balcanica attraverso la Bosnia Herzegovina: ed è iniziato dunque nel peggiore dei modi. Nell’inverno 2018-19 abbiamo cercato di prestare qualche soccorso all’umanità dolente ammassata tra le mura scrostate e prive di infissi dell’ex studentato – il Borici – mai completato dai tempi di Tito.

Nell’inverno successivo abbiamo assistito, come abbiamo potuto, persone stanche sistemate in container rinchiusi nell’immenso capannone del Bira, ma pure quelle sotto le tende leggere del campo informale sui prati innevati di Vucjak. In questo inverno ci tocca vedere le persone completamente all’aperto. Ci sono peraltro altre circa 2.000 persone, sparse qua e là in soluzioni di fortuna, in questo paese. Mai però, sino ad ora, abbiamo visto le condizioni descritte.

Mentre la storia si ripete – in senso deteriore – non si intravvede alcuna strategia politica di soluzione al riguardo, nel gioco di rimpallo tra autorità locali, nazionali e internazionali. E pensare che i soldi ci sono, perché – nel bene e nel male – l’Unione Europea li ha già stanziati e messi a disposizione del governo bosniaco nazionale che, come detto, non riesce o non vuole decidere nulla.

Neppure in altri gravi momenti ricordo di aver mai provato tanto scoramento, di fronte ad autorità che, appunto litigano senza concludere nulla, cittadini incattiviti contro i migranti e soprattutto di fronte ad senso di umana solidarietà che, in questi frangenti, sembra scomparire.

  • Daniele Bombardi è referente di Caritas Italiana nei paesi balcanici. Vive, con la sua famiglia, a Sarajevo. I progetti di assistenza ai profughi della balkan route, con relativa raccolta fondi, si trovano all’home page www.caritas.it.
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Un commento

  1. Ana María 13 gennaio 2021

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