Una guerra e le nostre responsabilità

di:

ucraina

Davanti alla storia che si muove sui cingoli dei carri armati, occorre fermarsi e prendere coscienza di come c’entriamo noi, e di come la nostra libertà non è ancora sconfitta.

«Esistono tipi diversi di menzogna, e il più interessante è quello che non viene inteso come peccato e come vizio, ma come dovere. Nel mondo attuale la menzogna, riconosciuta come socialmente utile, ha raggiunto dimensioni così inaudite e ha deformato a tal punto la coscienza, che si pone il problema di un radicale cambiamento nel rapporto con la verità e la menzogna, il problema della scomparsa del criterio stesso di verità… La menzogna è il fondamento primo dei cosiddetti Stati totalitari, che senza la menzogna organizzata non potrebbero mai essere edificati. La menzogna viene inculcata come un sacro dovere, un dovere nei confronti della razza eletta, della potenza dello Stato, della classe eletta. E non la si riconosce neppure come menzogna.… La menzogna può anzi sembrare l’unica verità».

Così scrisse Nikolaj Berdjaev all’alba della seconda guerra mondiale, non questa mattina per commentare l’invenzione di un «genocidio» che non esisteva, la presenza di un «neonazismo» del tutto inventato, il rovesciamento di ogni criterio di verità, un accumulo così grande di falsificazioni che sembra di sentir parlare di un altro mondo, di un’altra storia, di un altro universo…

E invece siamo qui, di fronte a una sfida che ci impone di guardare in faccia la verità, innanzitutto la verità delle nostre responsabilità, del nostro non saper trovare una via alternativa tra la reboante indignazione che ti mette il cuore a posto ma non chiede a nessuno di cambiare, e l’interessato calcolo dei profitti e delle perdite, che gira la faccia dall’altra parte e preferisce un complice «quasi silenzio».

E questa via invece c’è: è quella del rischio, la via della libertà, che vuol dire sapere che esiste qualcosa che ti strappa dall’odio, che ti dà un luogo in cui sentirti accolto, in cui i nemici non hanno l’ultima parola, in cui il loro odio non diventa il tuo, per cui può valer la pena di morire e quindi di vivere e di chiedere una vita vera e pacifica anche per gli aggressori.

Amici, è la via che ha già vinto: quante volte l’abbiamo visto nella storia di questa Russia che ora ci fa soffrire, nei martiri che ci dicevano di avere trovato la libertà in prigione (sia benedetta la prigione, perché hai tutto il tempo di pensare all’anima, scriveva Solženicyn) e in quelle prigioni avevano scoperto la forza della non violenza, una forza che alla fine aveva rovesciato il drago, meglio, aveva con-vinto il drago così che la glasnost’ che era stata la parola d’ordine dei dissidenti, da Sacharov e anche prima di Sacharov, divenne la parola d’ordine di Gorbačëv.

È la via che alla menzogna e alla violenza del potere non rispondeva con le stesse armi, ma con passi di responsabilità personale che univano tutti gli uomini liberi senza distinzione di appartenenza statale, nazionale, religiosa: come quando il 25 agosto del 1968, pochi giorni dopo l’invasione della Cecoslovacchia, un pugno di dissidenti russi scese sulla piazza Rossa per protestare contro quell’ennesima violazione della sovranità di un paese indipendente: furono tutti arrestati in pochi istanti e apparentemente non ottennero nulla; in realtà, come subito dissero i dissidenti di altri paesi del sistema comunista, quella infima minoranza riscattò l’onore di milioni di cittadini sovietici e segnò l’inizio di una nuova solidarietà.

Perché non ricordiamo tutto ciò in questi momenti di smarrimento e di dolore? Una via ancora c’è.

Adriano Dell’Asta, docente di lingua e letteratura russa presso l’Università Cattolica, Accademico della Classe di Slavistica della Biblioteca Ambrosiana, è vicepresidente della Fondazione Russia Cristiana.

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Un commento

  1. Christian 26 febbraio 2022

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