Israele: la debolezza della sinistra

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Nelle ultime elezioni svoltesi in marzo – la terza tornata elettorale in un anno – la sinistra ebraica, unitasi con l’alleanza fra il partito laburista, più attento alle istanze socio-economiche – il degrado del welfare state, l’acuirsi delle disparità di reddito – e il Meretz, unico a sostenere con forza il diritto dei palestinesi ad uno Stato e a difendere la democrazia incompiuta del Paese, ha subito un’ulteriore flessione al 5 per cento circa dei suffragi, soffrendo in parte dello slittamento del voto “utile” verso il partito di centro “Blu e bianco”.

La Lista araba unita ha ottenuto un corposo successo giungendo a 15 seggi: vi hanno influito la crescente partecipazione al voto dei cittadini arabi di Israele; la loro volontà di incidere in misura maggiore sul corso politico del Paese in parallelo al processo di integrazione economica e civile nella società israeliana; infine, la stessa disponibilità manifestata dalla leadership dei partiti unitisi nella Lista a sostenere un governo di centro-sinistra.

Soltanto il governo guidato da Yitzhak Rabin fra il 1992 e il 1995 si avvalse infatti del sostegno dei partiti arabi, che fu rilevante nelle trattative che condussero agli accordi di pace di Oslo fra israeliani e palestinesi.

La novità dirimente post-elezioni sarebbe stato un appoggio esterno in Parlamento da parte della Lista araba ad un governo guidato da Benny Gantz, il leader del partito centrista. Uno sviluppo siffatto avrebbe rappresentato la rimozione di un tabù paralizzante per il sistema politico del Paese sin dalle origini: soltanto il governo guidato da Yitzhak Rabin fra il 1992 e il 1995 si avvalse infatti del sostegno dei partiti arabi, che fu rilevante nelle trattative che condussero agli accordi di pace di Oslo fra israeliani e palestinesi.

Ciò non è avvenuto.

Al di là dei fatti contingenti, vi è in atto da tempo uno spostamento profondo e permanente della società israeliana verso posizioni etno-nazionaliste. Nelle inchieste d’opinione oltre il 50% degli intervistati si dichiara di destra, contro il 25% di centro e meno del 15 di sinistra, un orientamento prevalente soprattutto fra i giovani.

Fenomeno dovuto alle trasformazioni sociali e demografiche del Paese: la grande immigrazione dalla Russia post-sovietica dei primi anni ‘90 (circa 800.000 persone); il prevalere di una visione del mondo etnocentrica, che combina in molti casi rigorismo religioso e chiusura nazionalista, fra molti dei 600.000 immigrati giunti in Israele negli  ultimi venti anni da Russia, Ucraina, Francia, Stati Uniti; il crescere del peso demografico ed elettorale dei religiosi, circa il 15% del Paese.

Nelle inchieste d’opinione oltre il 50% degli intervistati si dichiara di destra, contro il 25% di centro e meno del 15 di sinistra, un orientamento prevalente soprattutto fra i giovani.

La debolezza della sinistra è anche una conseguenza nefasta della strada nichilista imboccata dai palestinesi: l’esplodere della violenza terroristica contro civili israeliani negli anni 2001-05, la guerra di guerriglia mossa da Hamas dalla striscia di Gaza, il rigetto da parte di Abu Mazen delle offerte positive del governo Olmert-Livni nei negoziati del 2008.

La sconfitta della sinistra ebraica è eclatante anche nella retrospettiva storica. Quella sinistra socialdemocratica fondatrice dello stato, anzi delle prime istituzioni pre-stato (la Histadrut, il sindacato operaio, i kibbutzim), che ha retto il Paese nei suoi primi trenta anni fino alla vittoria del Likud di Begin nel 1977 e che ancora nel 1992 guidata da Rabin ottenne il 47% dei suffragi (56 seggi su 120) è oggi ridotta al 5% (7 seggi).

La divisione fra destra e sinistra nella storia politica di Israele concerneva tipicamente tre questioni : a) il welfare state e l’intervento pubblico nella sfera economica; b) il rapporto fra religione e stato ; c) il conflitto con i palestinesi. La frattura fra i due schieramenti negli ultimi dieci anni ha investito anche il tema del rispetto dello stato di diritto e delle norme di una democrazia liberale minacciata dalle pulsioni autoritarie dei partiti di destra.

Due gli elementi determinanti del regresso dei partiti di sinistra. Il primo, forse preminente, attiene all’identità affermatasi via via dagli anni ’90 fra la sinistra e il “campo della pace” – partiti, movimenti, organizzazioni della società civile attivi nel promuovere prima la trattativa fra Israele e l’OLP, poi l’attuazione degli accordi di Oslo e una composizione negoziata del conflitto basata sul principio di “due stati per due popoli”. Il fallimento di questo disegno nei negoziati di Camp David (2000) e Annapolis (2008), lo scetticismo circa la fattibilità della soluzione “a due stati” – ritenuta ancora con favore dal maggior numero di israeliani, ma percepita come non più possibile – si è riflesso pesantemente sulle sorti politiche della sinistra vista come incapace di guidare il Paese, garantirne la sicurezza e gestire, se non risolvere il conflitto.

Meglio allora conservare lo status quo, un regime di occupazione di parti rilevanti della Cisgiordania e il blocco rigido della striscia di Gaza, un’occupazione che persiste da oltre 50 anni, corrompe occupanti e occupati, ma protegge gli israeliani  dal rischio di una pace vissuta come qualcosa di distante, velleitario o utopico.

Il fallimento di questo disegno nei negoziati di Camp David (2000) e Annapolis (2008), lo scetticismo circa la fattibilità della soluzione “a due stati” si è riflesso pesantemente sulle sorti politiche della sinistra vista come incapace di guidare il Paese, garantirne la sicurezza e gestire, se non risolvere il conflitto.

Su  tale esito ha agito la retorica scatenata da partiti, opinion makers e media vicini alla destra e dediti a dipingere il movimento per la pace come visionario, utopista o, peggio, traditore.  Smolanit, in ebraico “di sinistra”, è diventato nel lessico politico-popolare in Israele quasi un insulto, l’immagine di gente antipatriottica disposta a sacrificare le ragioni della sicurezza dello stato per rincorrere astratti ideali.

Il secondo elemento attiene al tema delle identità in senso etnico e socio-culturale. Il Likud già dalla vittoria elettorale del 1977 ha teso a rappresentare la sinistra come espressione dell’élite di origine europea – ashkenazita più specificamente – che ha dato vita al Paese e alle sue istituzioni, lo ha dominato per anni sul piano economico, sociale e politico e tuttora esclude gli ebrei di origine “orientale” dal potere effettivo.

Di qui un sentimento di frustrazione rabbiosa di molti elettori di quella parte del Paese che si riversa contro la sinistra. Nonostante il tentativo del partito laburista in anni recenti di ritornare alle sue fondamenta socialdemocratiche, enfatizzando la questione delle disuguaglianze di reddito e coltivando gli interessi degli strati emarginati della società e delle aree arretrate del Paese dove sono più numerosi ebrei immigrati dai Paesi arabo-islamici, l’esito sul piano elettorale è stato deludente.

Smolanit, in ebraico “di sinistra”, è diventato nel lessico politico-popolare in Israele quasi un insulto, l’immagine di gente antipatriottica disposta a sacrificare le ragioni della sicurezza dello stato per rincorrere astratti ideali.

L’unico modo per una riscossa del centro-sinistra è forse  un’intesa con la minoranza araba nel Paese, un’alleanza anche politica per costruire una società fondata su principi di eguaglianza e democrazia, in base alla quale i partiti ebraici si battano per modificare la legge dello “Stato-nazione ebraico” che, approvata nel 2018, codifica una condizione di disuguaglianza fra cittadini ebrei ed arabi di Israele e per includere gli arabi nel body politico del Paese alla pari e gli arabi accettino Israele come stato democratico a maggioranza ebraica.

  • Giorgio Gomel, economista, è membro dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), del Comitato direttivo di Jcall-Italia e dell’organizzazione Alliance for Middle East Peace. Ripreso dalla rivista Confronti.
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