La Cina al centro dell’Asia

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Pubblichiamo in forma integrale un saggio di Francesco Sisci apparso abbreviato sulla rivista Limes l’8 gennaio 1999, in quanto può aiutare i nostri lettori e lettrici a comprendere meglio gli eventi che coinvolgono oggi la Cina.

Appena qualche anno fa la domanda era: può un Paese così popoloso e grande come la Cina riuscire a restare unito contro tutte le tendenze centrifughe e contro tutti i precedenti storici? I precedenti storici, specialmente non c’erano, e non ci sono. Nessun Paese ha mai amministrato 1,3 miliardi di persone in maniera efficiente. L’altro esempio di stato mammuth, l’India, era lì a provare che non si poteva amministrare un miliardo circa di persone senza andare incontro a episodi di scontri feroci in parti del Paese e fra parti della popolazione.

All’apparenza l’esempio cinese calzava anche in questo. Tensioni nell’estremo ovest del Paese, nel Xinjiang, dove una parte della minoranza musulmana e turcofona aveva preso le armi, e nel Tibet, dove i fedeli del Dalai Lama erano sul piede di guerra, sembravano indicare che questo era anche il destino della Cina. Le tensioni fra le varie provincie e Pechino avrebbero potuto degenerare.

A circa cinque anni di distanza da questi allarmi per un’implosione e una frantumazione del continente cinese, la Cina però appare oggi più solida e unita che mai. Pechino ha infatti arrestato questo processo di frammentazione del Paese invertendo le tensioni centrifughe e attivando invece verso tutta la regione una forza centripeta che la pone oggi al centro di questo continente asiatico di oltre 3 miliardi di abitanti.

Le conseguenze per l’Asia e il resto del mondo sono immense, e non solo per la geopolitica ma anche, come vedremo, per lo sviluppo di molte politiche industriali attuali.

D’altro canto occorre tener presente che tali tendenze non sono univoche e certe. Esistono linee di rischio e incertezze che possono modificare il corso degli eventi.

Ma per prima cosa occorre guardare a come la Cina ha arrestato le tendenze centrifughe al suo interno e le ha trasformate in tendenze centripete.

Dalla repulsione all’attrazione

1.1 Il primo stadio si è manifestato nel biennio ‘95-96. In questo paio di anni Pechino ha usato la forza e la minaccia della forza per arrestare due forti tendenze centrifughe che separatamente minacciavano di fatto se non la sua unità politica, il primato di pechino a essere il centro della Cina.

Rispetto all’autorità di Pechino da un lato Taiwan cercava di affermare più marcatamente una sua indipendenza, dall’altro i tibetani fedeli al Dalai Lama cercavano di conquistare spazi politici-religiosi maggiori.

I due fenomeni erano indipendenti ma certamente contribuivano allo stesso scopo: minare l’autorità centrale di Pechino nel subcontinente cinese alla vigilia di un altro importante evento storico, il ritorno di Hong Kong alla madrepatria il 1° luglio del 1997.

Il processo centrifugo di Taiwan era in parte parallelo al suo processo di democratizzazione e al suo sforzo di sanare ferite inferte 50 anni prima quando circa un milione di cinesi del continente aveva di fatto invaso l’isola al seguito del generale nazionalista Chiang Kai-shek. Questa minoranza aveva ferocemente represso le resistenze isolane e aveva imposto il suo controllo sulla maggioranza originaria dell’isola. Per decenni Taiwan aveva preteso di essere il vero erede della tradizione cinese, contro invece il tradimento, rispetto a quella tradizione, operato nel continente.

L’operazione ideologica poteva funzionare nell’auspicio di una riconquista del continente da parte di Taiwan, ma con l’affievolirsi di questa speranza, tale ideologia appariva solo come un trucco per mantenere al potere dell’isola quella minoranza nata nel continente. Ciò aveva comportato con il passaggio degli anni una delegittimazione progressiva del partito al governo, KMT, e un rafforzamento delle forze antagoniste che sostenevano le particolarità isolane, anche con un primo tacito appoggio di Pechino.

Il presidente Lee Teng-hui, originario taiwanese, a circa mezzo secolo di distanza, cercava invece di riparare quei vecchi torti ridando peso alla particolarità taiwanese al potere del KMT. In questo modo rovesciava il tavolo rispetto al sostegno che Pechino aveva finora dato agli oppositori del KMT. Lee si faceva campione delle particolarità dell’isola tanto da chiedere un riconoscimento dell’indipendenza formale di Taiwan dal resto del continente cinese.

Il salto operato da Lee a metà degli anni ‘90 appariva estremamente minaccioso per la stessa unità del resto della Cina. Se cioè Taiwan, abitata da una popolazione di etnia cinese, han, come il resto del continente, avesse potuto dichiarare l’indipendenza formale, allora tanto più avrebbero potuto fare quelle province e regioni della Cina abitate da maggioranze non cinesi, han, come il Tibet e il Xinjiang.

In altre parole Pechino doveva riaffermare la sua autorità su Taipei per arrestare ideologicamente, prima ancora che militarmente, le tendenze centrifughe di altre regioni.

Anche perché la forza centrifuga di Taipei cominciava a sentirsi con forza nella provincia del Fujian, dove la parte meridionale della provincia parla lo stesso dialetto dell’isola e dove sono concentrati molti investimenti taiwanesi e dove la moneta di Taiwan, lo NT, circolava con frequenza.

E le spinte centrifughe in Cina non si fermavano al Tibet e al Xinjiang.

Il  processo di democratizzazione a Hong Kong, con cui il governatore inglese Chris Patten dava sempre maggiori poteri al LegCo, il parlamentino del territorio, e ne allargava la rappresentatività democratica, rappresentavano una grande forza di attrazione per la ricca e dinamica provincia del Guangdong. Essa poteva venire attratta quindi più da Hong Kong che da Pechino. Con il risultato finale che questa provincia, dopo il ritorno del territorio alla sovranità cinese nel 1997, sarebbe potuta diventare la base di partenza per una destabilizzazione e frantumazione della Cina continentale invece che – come sperava Pechino – essere l’ancora che avrebbe legato strettamente Hong Kong a Pechino.

In Tibet la situazione era ancora più delicata. La morte nel 1989 del Panchen lama, la seconda autorità spirituale della regione dopo il Dalai aveva creato un vuoto immenso per Pechino. Il Panchen era infatti vicino a Pechino, e grazie a lui, Pechino poteva sperare in un controllo morbido della regione.

Dalla morte del Panchen di fatto Pechino e il Dalai avevano collaborato nel processo religioso-politico di ricerca della reincarnazione del Panchen. Entrambi avevano da guadagnare in tale collaborazione. Pechino riceveva dal Dalai un manto di ortodossia religiosa a quello che era solo uno sforzo di controllo politico della regione, il Dalai rientrava in Tibet partecipando al delicato processo di scoperta del Panchen, ottenendo così anche una certa influenza sulla scelta. Nel 1995 tale collaborazione sotterranea si era però interrotta con la proclamazione unilaterale del nuovo Panchen da parte del Dalai.

Da un punto di vista politico ciò era inaccettabile per Pechino, che vedeva in tale proclamazione una sfida al suo potere politico in Tibet.

Infine il Xinjiang dove alcuni militanti della minoranza uigura avevano per la prima volta studiato più attentamente il Corano e avevano anche imparato dalle esperienze di guerriglia del medio oriente e dell’Asia centrale, in Afghanistan. Loro avevano così organizzato un aggressivo movimento indipendentista che nel 1996 era arrivato a compiere per la prima volta attentati terroristici a Pechino.

Accanto a queste linee di frattura marcate ne esistevano poi anche altre se pure più tenui. Erano linee di attrazione economica che alla luce delle fratture politiche più forti, avrebbero potuto diventare anch’esse pericolose. Il Sud est del Paese era attratto dal dinamismo del sud esta asiatico e lo sviluppo dell’area del Mekong calamitava lo Yunnan verso la Thailandia. Così a nord il dinamismo giapponese e sud coreano stringeva rapporti più forti con le tre province del Jilin, Heilongjiang a Liaoning.

Il risultato poteva essere spaventoso: una balcanizzazione della Cina. E nel 1996 studiosi come Hu Angang mettevano in luce il parallelo tra frantumazione della Jugoslavia e rapporto fra divisioni delle entrate fiscali tra governo centrale e governi provinciali.

Dati alla mano Hu Angang sosteneva che esisteva una pericolosa tendenza non solo politica ma anche amministrativa e finanziaria secondo cui una parte sempre maggiore di risorse passava dal centro alle provincie indebolendo il potere di intervento finanziario, e quindi anche politico, della capitale.

Una tale tendenza alla frantumazione era un problema di sovranità politica di Pechino ma anche di rilegittimazione del potere del Pc in Cina. Le due cose andavano mano nella mano. Il Pc per rafforzarsi e trovare una nuova legittimazione doveva riaffermare il potere di Pechino nelle provincie.

1.2 Il primo passo per arrestare questa tendenza fu in qualche modo suggerito dalle circostanze e non pianificato a tavolino. Nel 1995 il presidente di Taiwan Lee Teng-hui, contrariamente alle assicurazioni in tale senso date dal dipartimento di stato americano, ottenne dal Congresso Usa il visto per un viaggio in America.

Si trattava di una vittoria politica enorme per Lee che poteva accreditarsi in patria come un autentico campione dell’indipendenza di Taiwan, e quindi tagliare le gambe all’opposizione del partito indipendentista, Il partito democratico progressista (DPP).

Ma per Pechino era anche una sfida senza eguali alla sua legittimazione a governare il Paese. Da quel momento la minaccia dell’uso della forza, costruita intorno a una dura offensiva retorica, e a un dispiegamento di un apparato militare spesso pletorico ma comunque efficiente per quanto riguardava la missilistica aveva molteplici scopi.

Da una parte doveva terrorizzare la popolazione taiwanese con una minaccia di guerra o invasione se l’isola avesse osato proclamare l’indipendenza di fatto. D’altro canto avrebbe dovuto convincere i più scettici imprenditori isolani che il semplice danno economico di una pressione diplomatico militare poteva essere enorme per i loro affari. Durante la fase di pressione di Pechino su Taipei, Taiwan spese circa 20 miliardi di dollari per la difesa della sua borsa, e la pressione costò circa il 2% di crescita economica in meno all’isola.

Accanto al bastone agli imprenditori taiwanesi Pechino offriva anche la carota: essi avevano ottime prospettive di affari nel continente se avessero scoraggiato la linea indipendentista di Taiwan.

La stessa linea era applicata con Hong Kong alla fine dell’anno dove la scelta di Tung Chee-hwa, ricco armatore di famiglia taiwanese, come governatore del territorio dopo il passaggio di consegne, era un chiaro ammiccamento ai benefici per i ricchi taiwanesi.

A cavallo del 1996 e del 1997 all’esterno si cementava un rapporto stretto fra élite commerciali ed economiche di Hong Kong, si iniziava a creare un rapporto con quelle di Taiwan.

Inoltre la feroce retorica patriottica su Taiwan aveva un effetto centripeto anche per l’opinione pubblica interna anche perché non era visto come un fenomeno puramente ufficiale. Anzi pur avendola iniziata il governo si trovò nei mesi tra il 1996 e il 1997 e inseguire cercando di arginare la dura campagna nazionalista.

Il successo travolgente che accolse allora il libro di Zhang Xiaobo “Zhongguo keyi shuo bu” (La Cina può dire no) non può essere sottostimato. Il volume è un insieme non approfondito e talvolta semplicistico di pregiudizi anti americani e anche xenofobi. Ma le milioni di copie vendute e le decine di volumi usciti sullo stessa ondata provano l’interesse del pubblico per la materia.

Inoltre le polemiche con l’America per quanto riguarda la protezione dei diritti di proprietà intellettuale e le controversie con il Giappone per quanto riguarda il possesso delle isole Diaoyu/Senkaku, rafforzavano il sentimento patriottico del Paese.

Era l’inizio di un cambio di tendenza che poi ha preso ritmi tumultuosi nel 1997 con l’avvicinarsi del ritorno di Hong Kong alla sovranità cinese.

L’avvicinarsi del 1° luglio 1997 ha promosso un crescendo di sentimenti nazional-patriottici. Sondaggi non divulgati pubblicamente rivelavano un aumento di sentimenti nazionalistici che andavano ben al di là delle aspettative ed esigenze di pechino, e potevano trasformarsi in altro. Un acceso sentimento patriottico è infatti storicamente un’arma a doppio taglio per la Cina: dimostrazioni patriottiche sono tradizionalmente in questo Paese prima un’occasione per dimostrare contro gli stranieri e poi per opporsi ai governanti cinesi che non hanno fatto abbastanza contro gli stranieri. Tale logica è alla base del movimento del 4 maggio 1919, che diede inizio alla rivoluzione da cui sono figli sia la Cina di Pechino che quella di Taipei.

la prova della pericolosità politica di per Pechino di tali sentimenti lo si vede nel fatto che Pechino proibì una serie di dimostrazioni anti giapponesi e non fece uscire il secondo volume di Zhang Xiaobo “Zhongguo hai keyi shuo bu” (La Cina dice ancora di no). Ciò prova che a quel punto un sentimento nazionalista si muoveva indipendentemente dalle spinte del governo e anzi andava al di là di quanto pechino avesse in un primo momento voluto.

D’altro canto una serie di studi mettevano in prospettiva le prime analisi di Hu Angang, sottolineando che il il peso del carico fiscale va letto con più attenzione, e che comunque Pechino manteneva un forte potere di controllo sugli apparati provinciali con il suo potere di nomina e rimozione di tutti i livelli dell’amministrazione.

D’altro canto proprio gli allarmi degli anni passati facevano sì che nel 1997 Pechino si apprestasse a varare il suo nuovo programma di riforme economiche presentato poi al XV congresso del partito a settembre.

Il congresso licenziava circa la metà del comitato centrale, presentava un vasto programma di dismissioni e ristrutturazione dell’industria statale accompagnato da un vasto programma di riforma della burocrazia che, a marzo nel 1998 diventava ufficiale con un piano di licenziamento di quattro milioni di burocrati statali.

Scopo di questo immenso cambiamento era rafforzare le linee di comando e controllo di Pechino nel territorio cinese.

La riforma amministrativa allora diventava il pendant del nuovo sentimento centripeto del Paese. La realtà di questa nuova atmosfera, in cui le ombre centrifughe appaiono per il momento allontanate si ha da un fenomeno esterno: la testimonianza delle difficoltà oggi sentite dai tibetani fedeli al Dalai Lama. Mentre il Dalai Lama stesso medita di cercare un compromesso con Pechino.

Ma il successo interno è dovuto anche a un più complesso successo internazionale, anche questa volta ottenuto cavalcando le circostanze.

L’insperato regalo della crisi finanziaria e dell’esperimento atomico indiano

2.1 Alla vigilia dello scoppio della crisi finanziaria asiatica a luglio l’atmosfera che circondava la Cina nella regione non era delle migliori.

Il Giappone l’anno prima aveva siglato una nuova patto con gli Stati uniti in cui i due Paesi si impegnavano a mantenere la stabilità della regione. La formula era vaga tanto da comprendere possibilmente anche la stabilità dello stretto di Taiwan, da dove passano le rotte petrolifere giapponesi. E nonostante le insistenze cinesi gli americani non volevano chiarire se Taiwan era da considerarsi all’interno di tale patto (cosa che avrebbe urtato la suscettibilità di Pechino) o meno.

In tutta la regione gravava ancora il ricordo delle esercitazioni militari intorno all’isola e la tensione che aveva provocato quella crisi con l’arrivo di due portaerei Usa nello stretto.

L’ondata patriottica che all’interno della Cina aveva colmato molte linee di frattura, all’esterno offriva un lato allarmante con piccoli, ma pur sempre preoccupanti, frizioni con il Vietnam e con le Filippine per questo o quello scoglio delle isole Nansha, e con il Giappone per le isole Diaoyu/ Senkaku.

Infine c’era l’accusa che la crisi finanziaria fosse stata in realtà messa in moto dalle esportazioni cinesi competitive con quelle del sud est asiatico e della Corea del sud.

Tali esportazioni avevano tolto fette di mercato a tali paesi privandoli quindi della liquidità necessaria a finanziare gli alti tassi di crescita in cui si erano proiettati. Di fatto i cinesi non facevano mistero allora di voler lanciare la loro industria dell’elettronica di consumo in concorrenza con quella Coreana o Giapponese.

Tale atmosfera era destinata a cambiare radicalmente nei mesi seguenti quando da settembre in poi Hong Kong respingeva gli attacchi speculativi per la svalutazione della moneta del territorio e si impegnava a non svalutare il renminbi.

A settembre, ottobre del ‘97 si arenava l’ipotesi cara alla Cina di creare un fondo di aiuti asiatici per la crisi. Gli americani vi si opponevano per ragioni ufficialmente di efficienza. Temevano che tali aiuti guidati dalla Cina e il Giappone avrebbero coperto le magagne e le inefficienze delle economie anziché risanarle.

D’altro canto era evidente che una cordata di aiuti sino-giapponese in Asia avrebbe rinsaldato i rapporti tra Pechino e Tokyo ai danni della influenza strategica di Washington nella regione e che un risanamento economico guidato dal Fondo Monetario Internazionale, avrebbe creato un ambiente economico più adatto al movimento delle aziende americane che di quelle cinesi o asiatiche.

Comunque l’ipotesi della cordata non era cara neppure agli influenti Singaporiani, che comunque vedevano la necessità di un risanamento in alcuni paesi della regione, ma ritenevano che una ricetta imposta dagli americani sarebbe stata meglio accetta di una ricetta proposta dai vicini di Singapore. La ricetta dell’IMF non funzionava però per arrestare l’onda d’urto della crisi regionale. Con il passaggio dei mesi la crisi travolgeva anche la Corea del Sud pian piano investiva sempre più ampiamente anche il Giappone, la seconda economia del mondo.

Non solo, i modelli IMF proposti in Indonesia non davano i frutti sperati e questo gigante di 200 milioni di persone, il quarto più popoloso del mondo, il più grande Paese musulmano del pianeta, sprofondava in una crisi finanziaria, poi sociale e politica da cui per ora non si vede l’uscita. In pochi mesi per insipienza sue e probabilmente anche degli altri, 30 anni di lento sviluppo economico scivolavano via, come in fondo allo scarico di un lavandino.

La crisi Indonesiana rimane ancora oggi il più grave elemento di instabilità della regione.

All’inizio del 1998 lo scenario della regione era allarmante. In sostanza la Cina era l’unico Paese rimasto in piedi e mentre ancora a marzo aprile molti speravano che la situazione andasse a riprendersi in realtà la crisi si andava approfondendo sempre di più.

In tale situazione Pechino dava quello che molti governi del Sud est asiatico riconoscevano essere il più grande contributo all’uscita della crisi: manteneva fisso il cambio con il dollaro sia per il renminbi che per il dollaro di Hong Kong.

Economisti cinesi hanno più volte spiegato che oltre alle ragioni di stabilità finanziaria per la regione non c’erano ragioni economiche per svalutare il renminbi. In sostanza una svalutazione del renminbi avrebbe innescato una serie di svalutazioni competitive nella regione che a sua volta avrebbe presto azzerato il vantaggio della prima svalutazione cinese. Inoltre dato che oltre il 50% delle esportazioni cinesi è di riesportazioni, una svalutazione avrebbe aumentato i costi di importazione e la Cina avrebbe anche importato inflazione, che alla fine del 98 era invece negativa.

Di fatto ragioni per svalutare potevano essere trovate in abbondanza.

È vero che la Cina finirà l’anno ancora con un abbondante surplus commerciale, oltre 30 miliardi di dollari secondo statistiche cinesi. Ma è è anche vero che molti di questi miliardi non si sono trasformati, come accadeva in passato in riserve valutarie perché sono stati portati all’estero. Secondo alcune fonti cinesi fino a 20 miliardi di dollari potrebbero essere stati portati fuori dal Paese. Di fatto poi esiste una tensione oggettiva al ribasso del renminbi provata dal ritorno del cambio nero che da il dollaro a 9,2 yuan contro gli 8,3 yuan del cambio ufficiale.

Inoltre la maggiore ragione che militerebbe per una svalutazione è la situazione in cui versa Hong Kong che ha finito il 1998 con la peggiore recessione del dopoguerra. Il territorio è arenato da un cambio ormai troppo alto se comparato con il resto dell’Asia, dove tutti i Paesi hanno svalutato del 20% e più.

Ma svalutare a Hong Kong significa anche inserire un cuneo nei rapporti tra il territorio e il continente. Il commercio bilaterale è denominato in dollari ma avviene normalmente in dollari di Hong Kong. Spostare il cambio allora creerebbe una serie infinita di problemi commerciali, ma più ampiamente di rapporti tra Pechino e il territorio. Inoltre una svalutazione a Hong Kong significherebbe importare svalutazione in Cina.

Ci pare invece che le ragioni per cui la Cina non ha voluto svalutare nel ‘98, e non voglia svalutare neanche nel 1999 siano in ultima istanza di natura geopolitica. Una serie di svalutazioni competitive avrebbe da una parte enormemente complicato le relazioni con Hong Kong e avrebbe azzerato il vantaggio geopolitico ottenuto dal luglio del 1997 nella regione.

Una svalutazione in altre parole avrebbe riaperto delle pericolose linee di fratture interne ed esterne. Hong Kong, pochi mesi dopo il ritorno alla madrepatria sarebbe stata impelagata in ben peggio che una crisi finanziaria, sarebbe affogata in un mare di diatribe commerciali, e quindi politiche, con il continente. Ciò a sua volta avrebbe aperto linee di frattura con Taiwan, tra il Guangdong e il resto del Paese… In altre parole gli attacchi speculativi contro il dollaro di Hong Kong andavano ben al di là della cornice finanziaria: rappresentavano un vero attacco geo strategico all’unità cinese.

Inoltre una svalutazione avrebbe riaperto ferite appena rimarginate con molti Paesi della regione. Invece così tutti i Paesi dell’Asia sanno che la Cina sta facendo diga. Impedendo alla sua moneta di cadere di fatto mette le sue esportazioni fuori commercio rispetto a quelle dei vicini, dà fiato alle esportazioni dei vicini, gli da modo di accumulare liquidi e quindi abbrevia i tempi di ripresa economica.

Da un altro punto di vista si può guardare con allarme alla situazione in Indonesia, ma una svalutazione del 15-20% del renminbi, in linea con svalutazioni analoghe nella regione, cosa comporterebbe a Giakarta? Una esplosione o un ulteriore avvitamento della situazione lì potrebbe minacciare direttamente Filippine, Malaysia e Singapore e avere riverberi ovunque.

Non c’è niente e nessuno che possa impedire questo scenario disgraziato, tranne la Cina, che in tale modo per sè accumula influenza strategica e molta gratitudine, in un continente pervaso da un senso di lealtà più forte che fra gli occidentali.

Inoltre tali credenziali sono state confermate da un altro inaspettato sviluppo nella regione: gli esperimenti atomici in India e Pakistan.

2.2 All’inizio di maggio 1998 il ministro della difesa indiano George Fernandes alla fine di una visita in India del capo di stato maggiore cinese Fu Quanyou, affermava che la Cina rappresentava una minaccia strategica per l’India. Era uno schiaffo gravissimo per la Cina che stava appena uscendo dalla selva di accuse di essere una minaccia strategica per tutti. Inoltre appena qualche giorno dopo New Delhi annunciava di aver condotto cinque esperimenti nucleari.

I test innescavano poi la reazione del Pakistan che per ammissione Indiani era stata autenticamente dalla Cina. Infatti seconda tali funzionari la Cina aveva un maggiore interesse a che l’India fosse del tutto isolata nella condanna internazionale per i test. Viceversa una partecipazione anche del Pakistan a questa rincorsa nucleare avrebbe inevitabilmente diviso colpe e responsabilità tra i due vicini.

I test complicavo molto la lettura degli avvenimenti geostrategici nella regione. Non era da una parte più facile isolare la Cina come unica grande “minaccia” nella regione e d’altro canto i Paesi del sud est asiatico potevano apprezzare la reazione fredda e calcolata di Pechino nel tentativo di dissuadere il Pakistan dalla rincorsa nucleare.

Il Giappone, urtato nella sua sensibilità anti nucleare dagli esperimenti, doveva interrompere lo sviluppo di una linea di collaborazione con l’India e anche gli Usa alla luce dei test dovevano rinviare al 1999 il viaggio del presidente a New Delhi, mentre in primo momento, e con grande valenza simbolica, era previsto in rapida sequenza con il viaggio in Cina di giugno.

In altre parole a giugno, dopo la visita di Clinton la Cina diventava un punto di stabilità politico oltre che finanziario della regione.

Diplomatici giapponesi confessavano privatamente di essere sorpresi e presi in contro piede per l’ampiezza dell’accordo strategico che gli americani erano disposti a sottoscrivere nel loro rapporto con i cinesi.

Per Washington l’azione combinata della crisi finanziaria e dei test indiani e pakistani, l’approfondirsi della crisi in Indonesia e l’allargarsi alla Malaysia provava l’importanza e la centralità della Cina nella regione. Il suo ruolo era insostituibile con nessun altro Paese nella regione. Solo Pechino poteva mantenersi fredda davanti alle escandescenze indiane, aveva l’influenza da esercitare sul Pakistan o la Corea del nord, o l’Indonesia.

Il Giappone deve scontare il suo mal digerito passato imperialista e la sua pratica anche recente di investimenti in loco però sempre finalizzati a un’integrazione economica dei settori industriali dei singoli Paesi con l’apparato industriale di giapponese. Quindi un intervento politico, finanziario o di altro genere del Giappone nella regione è privo di grande forza politica.

Come gli americani non possono fare a meno di una qualche forma di cooperazione politica, oltre che finanziaria con la Cina, tanto più non ne possono fare a meno i Paesi del sud est asiatico. La calma con cui hanno reagito al linciaggio di indonesiani di etnia cinese nel 1998 contrasta con l’attivismo quasi pan cinese degli anni di Mao, quando i cinesi erano visti tout cour come una quinta colonna di Pechino.

Ciò non vale a dire che i rapporti privilegiati tra Pechino ed emigrazione cinese si siano infranti ma certo il comportamento cinese in occasione delle rivolte di Giakarta ha confermato un atteggiamento più misurato in cui da una parte la ricca minoranza cinese non ha dato in escandescenze, dall’altro lato la maggioranza indonesiana era conscia del peso politico di Pechino ma non aveva motivo di lanciarsi in allarmi indiscriminati per sue possibili interferenze dirette.

Persino l’India che aveva lanciato pesanti strali contro la minaccia cinese ha poi lavorato duramente per mantenere un alto livello di relazioni diplomatiche con la Cina, mentre dopo i test si prospettava anche un ritiro dell’ambasciatore indiano a Pechino. E successivamente hanno ripreso a lavorare duramente per la riapertura di un dialogo sulle questioni di frontiera ancora aperte. Persino le linee di relazioni esistenti a auspicate tra India e Giappone oggi devono triangolare attraverso la Cina che dopo i test e la crisi finanziaria ha forza di leva con l’India, a cui può ricordare le minacce, e il Giappone, a cui può ricordare il suo insufficiente contributo per la ripresa economica della regione.

Queste condizioni hanno creato una grande forza centripeta in Asia, la Cina. Ma per ora è su una forza che si basa su due grandi circostanze (crisi finanziaria e test atomici indiani) che Pechino ha saputo cavalcare bene ma che non bastano polarizzare nel lungo termine la regione.

Qui i nuovi patti di scambio e forniture militare che gli Usa hanno concluso con Singaporee si preparano a concludere con altri Paesi della regione e l’adattamento dei piani di aiuto dello IMF creano le condizioni per una nuova atmosfera politica in Asia. Gli Usa si preparano in altre parole a concludere una serie di patti di sicurezza bilaterali in cui forniscono tecnologia e know-how militare, che si fanno comunque pagare, e di cui rimangono in ultima analisi possessori della tecnologia finale. Perché tali servizi si basano sul continuo sviluppo di tecnologia americana e sull’aggancio all’apparato di intelligence satellitare. Entrambe le cose possono essere chiuse in qualsiasi momento, lasciando il cliente-alleato in braghe di tela.

D’altro canto l’impegno finanziario americano in Asia attraverso lo IMF e la World Bank, pur alla luce dei fallimenti passati, rimane senza alternative. Non c’è banca europea o asiatica che abbia proposto una strategia quadro alternativa a quella del Fondo Monetario.

Questa assenza propositiva, che è limite di forza economica ma anche di capacità di proporre un modello strategico di sviluppo alternativo, limita la forza della Cina in queste condizioni pur molto favorevoli.

La Cina al momento allora ha tre sfide concentrate che deve potere affrontare nei prossimi anni senza perdere la condizione di privilegio in Asia

  • deve dotarsi di un muscolo economico per intervenire in senso positivo nella regione, e non limitarsi solo ad avere una forza di diga, arrestando lo scivolamento della svalutazione nella regione, con il suo impegno per la difesa del renminbi.
  • deve dotarsi di un modello strategico di intervento. Avere i soldi infatti non basta se poi alla fine del giorno sono gli americani a dire cosa bisogna farne. La Cina oggi non può certo usare il vecchio pensiero socialista, né le fole del modello asiatico, ormai frantumato dalla realtà.
  • deve fare tutto questo eliminando o almeno limitando i tre grandi sospetti geostrategici nella regione: i timori giapponesi di isolamento, i timori indiani di un containment cinese, e i timori russi di essere virtualmente fagocitata.

La soluzione di queste sfide risolverebbe a un tempo i rischi geostrategici della Cina e annullerebbe le tensioni centrifughe all’interno della Cina.

Seppure l’ordine in cui tali compiti devono essere affrontati è quello che abbiamo esposto, nell’ordine dell’analisi cominceremo dal punto (3) per passare al punto (1) e quindi concludere con il punto (1).

Non isolate gli isolani

3.1 Il Giappone è stato tormentato per gran parte della sua storia da un complesso di isolamento che in molti periodi è stato nutrito ad arte come quint’essenza della cultura nazionale. Molti cinesi percepiscono il senso di isolamento che assilla Tokyo, timorosa in ultima analisi di un abbraccio tra Pechino e Washington, la cui alleanza umiliò i sogni di vittoria giapponese nella seconda guerra mondiale.

Questi timori furono rinfocolati quando a giugno del 1998 Clinton durante la sua visita in Cina parlò di partnership strategica con Pechino e soprattutto non si fermò a Tokyo sulla via del ritorno per Washington. Tale atteggiamento era stato in qualche misura forzato dalla Cina.

Il 17 giugno infatti l’indice Hang Seng di Hong superava ogni peggiore previsione di caduta e contemporaneamente molti quotidiani economici cinesi lanciavano violenti attacchi contro Giappone e Stati uniti, colpevoli di non agire di fronte alla caduta dello yen.

Hong Kong crollava del 5,72% chiudendo a 7,462 punti, sotto quota 7,500 che solo qualche settimana prima appariva come il peggiore degli scenari possibili. Causa immediata del crollo era la continua scivolata dello yen contro il dollaro che andava verso soglia 150.

Se Washington non fosse intervenuta a sostegno dello Yen, spiegava Liu Ji, consigliere economico del presidente Jiang Zemin su, Pechino sarebbe potuta diventare un avversario degli Usa. Il giorno dopo Washington e Tokyo spendevano sei miliardi di dollari e riportavano lo yen intorno a quota 130 sul dollaro.

Il Giappone calcola che con lo yen a 144-145 sul dollaro il suo Pil potrebbe avere una crescita facilitata dell’1%, denunciava l’editoriale di Notizie finanziarie, quotidiano della banca centrale cinese, del 17 giugno. E con un dollaro forte gli Usa finanziano il continuo successo della loro borsa. Washington infatti teme che la caduta del dollaro, dovuta a interventi a sostegno dello yen e a un taglio dei tassi di interesse “comporti probabilmente una fuga di capitali esteri, e quindi un crollo della borsa americana,” continuava Notizie finanziarie.

Allo stesso tempo invece il Giappone non intende usare i suoi 220 miliardi di dollari di riserve a sostegno della sua moneta e vuole uscire dalla sua crisi aumentando le esportazioni, scriveva il giornale. Queste scelte però sono pagate dagli altri Paesi asiatici, le cui esportazioni perdono di fronte alle più competitive merci giapponesi, ed alla Cina che mantiene il cambio dollaro-yuan.

Una conferma di tale analisi veniva poi dalle quotazioni della borsa di Tokyo che continua a viaggiare in quei giorni saldamente intorno a quota 16.000, margine entro cui le banche sono assicurate contro possibili minusvalenze.

La Cina in altre parole minacciava di non difendere più lo yuan e di dare la colpa del nuovo tormentone di crisi asiatica che ne sarebbe seguito alla politica egoista di Usa e Giappone. Le conseguenze geopolitica di una guerra di propaganda in Asia sulle responsabilità di un nuovo crollo erano fuori da ogni possibile calcolo. Ma in tale ipotesi sarebbe stato facile per Pechino provare numeri alla mano quanto era costato finora alla sua economia, in termini di mancata crescita, la difesa dello Yuan.

Gli esiti di un tale confronto non erano affatto scontati ma certo Giappone e Usa, specialmente, avrebbero potuto perderci pesantemente. Il Giappone poteva citare a sua discolpa le sue patenti difficoltà economiche.

Tale bordata che aveva assicurato l’aiuto degli Usa nel sostegno dello yen e aveva indotto gli Usa ad accettare un deficit commerciale con la Cina ancora crescente per aiutare a sostenere lo yuan. Ma dopo la Cina aveva bisogno di recuperare terreno con il Giappone che con il lancio di un missile nord coreano sopra il suo spazio aereo provava di essere per la seconda volta esposto a possibili minacce missilistiche dall’estero.

Il viaggio di Jiang a Tokyo a novembre avrebbe dovuto riconciliare i due Paesi son una dichiarazione scritta in cui Tokyo avrebbe offerto scuse formali per l’invasione e soprattutto i due Paesi avrebbero potuto parlare di questioni di sicurezza che tanto interessavano Pechino.

Nessuno delle due cose si è però verificata. A pochi giorni dalla visita pare che i giapponesi abbiano avuto un’approvazione da Washington e abbiano fatto marcia indietro sugli accordi presi. La visita però si è fatta comunque per evitare da parte cinese di esacerbare gli animi, una mossa in qualche modo in linea con la reazione di Pechino verso New Delhi.

Tale ragionevolezza mieteva successi nella regione ma non fermava quello che appare oggi come un preciso programma di riarmo giapponese. Alla fine di dicembre Tokyo approvava lo studio su un sistema di difesa con missili da teatro da organizzare con gli Stati uniti.

La tesi che sostiene tale studio è che il Giappone prima o poi debba badare alla sua difesa e non possa per sempre delegarla a Washington. Inoltre l’approfondirsi della crisi in Nord Corea svela gli altarini della sicurezza est asiatica. 100mila soldati americani sono concentrati in Giappone e Sud Corea formalmente contro una possibile minaccia Nord Coreana. Ma se e quando la Nord Corea si scioglierà gli americani non avranno senso nella regione e allora Giappone dovrà assumersi in prima persona la responsabilità della sicurezza che finora ha delegato agli Usa, con il tacito consenso della Cina, che preferisce uno yankee armato che un giapponese armato.

Ma tale situazione non può essere trascinata in eterno e mentre Usa e Giappone si stanno muovendo pensando a un ordine di sicurezza dopo il crollo nord coreano la Cina è ancora timida in questo senso.

L’unica cosa che sembra chiara è che Pechino non deve sottolineare il senso di isolamento di Tokyo. Ma oltre questo non si sa bene cosa fare.

D’altro canto questa situazione di diffidenza tra le due grandi capitali asiatiche gioca a favore di Washington e non solo in termini strategici, ma anche puramente economici.

Tokyo e pechino sono i due maggiori creditori del mondo, con circa 220 miliardi di dollari di riserve per uno, per la maggior parte poi in titoli del tesoro americani.

L’America d’altro canto è il maggiore debitore al mondo con circa 1,000 miliardi di dollari di debiti all’estero. Tokyo e Pechino controllano quindi tra il 20% e il 40% del debito estero americano. È vero che questi crediti sono in parte una partita di giro: cinesi e giapponesi finanziano gli acquisti americani, che tirano su il loro surplus commerciale e fanno accumulare riserve. Ed è vero che in questo strano incrocio di debiti e crediti, surplus e deficit commerciali alla fine il peso politico del Paese è quello che conta, ma proprio per questo se le due capitali asiatiche dovessero riavvicinarsi la cosa non sarebbe tanto conveniente per Washington, anche perché a Taiwan e Singapore ci sono altri 180 miliardi di dollari di riserve (ancora una volta per la maggior parte in dollari). Sarebbero troppi soldi nelle mani di troppa poca gente, il che darebbe un grosso potere di ricatto all’Asia nei confronti di Washington.

Con questi fatti la scelta delle politiche dipende da Pechino: vuole essere fieramente indipendente da quella che definisce pubblicamente l’egemonismo americano? Allora deve cercare di strappare, o almeno allontanare Tokyo all’abbraccio con Washington. Vuole venire a patti con gli Usa? Può scegliere di fare da suo proconsole generale in questo caso strappando il primato del rapporto al Giappone. Lo stesso discorso in sostanza vale anche per il Giappone.

Queste le due linee strategiche principali, anche se ne esistono tante altre medie.

In generale però un buon rapporto con gli Usa si mantiene non piegandosi completamente ai suoi voleri. E poi il gioco non è a due ma a tre, anche con l’India e la Russia.

3.2 Per la Cina l’india costituisce un problema strategicamente non fondamentale come il Giappone. L’India non ha invaso la Cina e anzi è stata vinta da essa in una guerra di confine nel 1962. Questi i motivi, secondo funzionari indiani, per cui i colloqui sulla definizione dei confini avviati alla fine degli anni ‘80 poi non sono andati avanti. Gli Indiani si lamentavano che i cinesi “non li prendessero sul serio” e quindi la questione indiana poteva essere tranquillamente rinviata sine die.

L’atteggiamento sembra in principio cambiato dopo i test. Ma il cambio di atteggiamento comporta anche un ripensamento della strategia cinese in Asia meridionale, regione che Pechino riteneva finora non turbolenta.

Infatti esiste di fatto un “contenimento” cinese nei confronti dell’India. A ovest la Cina può contare su una stretta alleanza con il Pakistan e a est conta su un rapporto ancora migliore con la Birmania di cui sta riarmando le truppe e sul cui territorio ha forse attrezzato punti di osservazione per l’Oceano Indiano.

Tale “contenimento” non funzionava in maniera efficace. Il Pakistan è influenzato dalla Cina ma non si fa certo pilotare da essa, come prova l’episodio dei test nucleari, fortemente scoraggiati da Pechino che pensava a un obiettivo di lungo termine di isolare New Delhi, e che invece Islamabad a portato avanti per pressioni interne.

Problemi simili esistono con la Birmania dove i cinesi sono insoddisfatti per i risultati della giunta militare che non riesce a rilanciare l’economia nazionale. Questa mancanza di risultato economico rende socialmente e politicamente ancora più instabile un Paese diviso tra feroci lotte etniche e sociali, Paese che rappresenterebbe un pezzo importantissimo per una eventuale futura penetrazione cinese nell’Oceano Indiano.

Con questi due pezzi di scacchiere non perfettamente a posto il carico strategico ritorna a pesare sul Tibet, posto dove è difficile mantenere a lungo truppe per condizioni fisiche (è un altipiano a 4.000 metri a cui spesso i cinesi non sono abituati) e sociali interne (una maggiore presenza di truppe innervosisce i già delicati rapporti con la popolazione di etnia tibetana).

Qui un sostenuto progresso economico negli ultimi anni sembra avere indebolito le forze irredentiste tanto che i tibetani in India sono divisi e alcuni meditano di tornare alla lotta armata. La cosa incidentalmente giocherebbe a favore di Pechino, più capace di reprimere guerriglieri che pacifici dimostranti. D’altro canto l’India non ha giocato la carta della sovversione interna in Tibet.

Ma attrezzare il Tibet con armamenti e sistemi di controllo moderni è una cosa più difficile da gestire e costosa. Nuove postazioni radar e truppe nella regione sarebbero una prova delle intenzioni bellicose cinesi, ma d’altro canto, dopo i test e le dichiarazioni di fuoco di Fernandes, può la Cina esimersi dall’essere più vigilante nei confronti di questo grande vicino?

Per il momento la Cina rinvia il confronto, prendendo più tempo possibile e quindi massimizzando il vantaggio ottenuto con i test indiani. Ma prima o poi appare chiaro che dovrà intavolare una seria trattativa con New Delhi per i confini e da questa trattativa potrebbero uscire novità fondamentali per l’assetto geostrategico del continente.

Infatti se la questione del Kashmir è quella che mantiene l’identità del Pakistan, spesso si dimentica che una parte del Kashmir è occupata dalla Cina ed è zona contesa con l’India. Una trattativa sui confini dovrebbe arrivare a parlare di Kashmir e, se affrontata con lo spirito giusto, potrebbe non solo risolvere i problemi fra i due giganti ma anche aiutare a porre le basi per una soluzione o minimizzare l’importanza del problema Kashmir per il Pakistan.

Più ampiamente una trattativa di ampio respiro tra Cina ed India potrebbe porre le basi per un riavvicinamento strategico tra questi due Paesi e porre le loro relazioni bilaterali su basi molto più solide del rapporto di fratellanza degli anni ‘50 fra Zhou Enlai e Nehru. Mentre allora valevano molto questioni ideologiche, oggi i due Paesi sarebbero uniti da obiettivi comuni strategici ed economici.

Entrambi i Paesi hanno bisogno di una stabilità nella regione e di procedere a un rapido sviluppo economico. Entrambi hanno di fatto la stessa agenda nell’affrontare le pressioni internazionali sull’impatto ambientale della loro crescita economica. Inoltre negli ultimi 15 anni l’India ha un interesse crescente per il modello di sviluppo cinese, che vorrebbe emulare. E l’India, con la sua burocrazia i suoi tribunali e il suo sistema politico democratico è un esempio senza pari per la delicata e lenta transizione alla democrazia che Pechino intende seguire.

La questione Tibet, che oggi è una spina nel fianco cinese, potrebbe invece ritornare a essere quello che è stato per mille anni: un ponte tra la cultura indiana e quella cinese. D’altro canto nessuna civiltà ha avuto più influenza in Cina di quella indiana.

Queste potrebbero essere le linee di sviluppo di un rapporto nuovo in Asia, e naturalmente la nascita di tale rapporto, con quello che comporta (un super gigante da 2,5 miliardi di persone) cambierebbe molti assetti geopolitici nel pianeta.

Ciò però è gettare oltre molti ostacoli, perché una trattativa sui confini, proprio per le immense prospettive che apre, è piena di trappole particolari e generali. Il governo indiano deve avere una grande forza per poter negoziare su compromessi territoriali, senza timore che tali concessioni gli vengano ritorte contro per questioni di politica interna. Inoltre tale prospettiva potrebbe trovare una netta opposizione da parte di molti altri Paesi, Usa e Giappone per primi, che dovrebbero completamente ripensare il loro ruolo in Asia.

Da tale prospettiva la presenza russa, se il Paese non riesce ad uscire dalla sua crisi attuale, è del tutto ininfluente, al di là delle ambizioni in tal senso avanzate a dicembre dal premier Primakov. La Cina già ora ha sufficienti leve strategiche per penetrare in Asia centrale dove i buoni rapporti con il Kazakhstan hanno convinto il governo locale ha non appoggiare le forse indipendentiste uigure. Ma tranne questo rapporto cementato dagli acquisti di campi petroliferi cinesi in Kazakhstan nel 1997 e i suoi relativi piani di costruire un gigantesco oleodotto, Pechino non ha mostrato finora lo stesso entusiasmo nell’investire in Siberia.

Di fatto a dispetto della magniloquenza sfoggiata dai due paesi in occasione di ogni vertice, Mosca e Pechino non appaiono affatto vicini ad avere l’esplosione di commercio bilaterale auspicata. Un sistema creditizio antiquato in Russia impone che di fatto le transazioni bilaterali siano gestite da banche tedesche o scandinave. A ciò si va ad aggiungere che i cinesi si lamentano dell’inaffidabilità commerciale dei russi. Anche la capacità russa di esportare armi in Cina non sembra destinata a durare a lungo, visto che i cinesi hanno sempre più bisogno di elettronica sofisticata, che Mosca non possiede.

Se le risorse naturali e tecnologiche hanno smesso di essere attraenti, la Siberia rimane un deserto di ghiaccio con la stessa popolazione della Mongolia, Paese rientrato nella sfera di influenza cinese, nonostante che i cinesi non abbiano di fatto mosso un dito al riguardo.

Un minimo di attivismo cinese verso Mosca produrrebbe gli stessi risultati su Vladivostock, dove la pressione della popolazione cinese è tale che ad essi viene concesso un visto di ingresso valido solo poche ore. Ma Pechino non preme al riguardo, per questioni di antica prudenza geostrategica e anche di scarso interesse oggettivo per il profondo nord.

Infatti le priorità cinesi oggi, e probabilmente per molto tempo non sono di un allargamento indiscriminato della sua area di influenza, ma in un’accelerazione del suo sviluppo economico.

Il grande mercato cinese

Fino ad oggi la Cina, il Paese più popoloso del mondo, è cresciuto facendo leva sugli investimenti diretti, che in totale sono 220 miliardi di dollari, oltre il 20% del Pil, e grazie al commercio con l’estero, che rappresenta circa il 40% del Pil. Queste proporzioni più adatte a piccoli Paesi, ma non a un territorio che è potenzialmente il più grande mercato del mondo. E mercato significa automaticamente flusso di contanti.

Inoltre grazie allo sviluppo degli ultimi 20 anni la Cina non è priva di soldi. Alla fine del terzo trimestre del 1998 il totale del monte depositi bancari era di 9.442 miliardi di yuan, il 18,2% in piu’ rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, cresciuti a un tasso più che doppio rispetto al tasso di crescita del Pil. Tra questi i depositi di aziende erano 3.153 miliardi, il 16,1% e il totale dei depositi privati invece era di 5.295 miliardi, il 18% in più.

Infatti fino alla fine del 1998 i risparmiatori cinesi avevano praticamente un solo modo di investire i propri risparmi, metterli in banca. Questo significa che le banche monopolizzano l’allocazione dei fondi per gli investimenti, ma anche che se ne assumono tutti i rischi, cosa che ha portato a far sì che nel 1997 circa il 20% del totale del monte crediti nazionale fosse in una misura o nell’altra in ritardo. Tale proporzione dovrebbe essere drasticamente diminuita con l’emissione di 270 miliardi di buoni destinati alla ricapitalizzazione delle banche statali. Ma sarà solo nel luglio del 1999 con l’entrata in vigore di una nuova legge quadro sulla borsa che i risparmiatori potranno avere più scelta per i propri investimenti, che le banche non monopolizzeranno tale flusso ma né se ne assumeranno tutti i rischi.

La misura è tesa a creare quel mercato interno che serve strategicamente alla Cina per svilupparsi e potenziare la sua voce nell’Asia e nel mondo.

La nuova legge quadro sulla borsa cinese dovrebbe rivoluzionare e bonificare il modello degli investimenti indiretti e contribuire a dare un profilo più moderno alla struttura finanziaria del Paese. La legge entrerà in vigore il 1 luglio, 78/o anniversario della fondazione del partito comunista cinese.

I 214 articoli divisi in 12 capitoli servono in sostanza a creare trasparenza e apertura in un mercato che finora è rimasto inquinato da insider trading, corruzioni, accordi fatti sotto il tavolo, speculazioni senza scrupoli che hanno allontanato la maggior parte degli onesti risparmiatori e hanno lasciato sul campo persone che si comportano nelle due borse, a Shanghai e Shenzhen, come se fossero a un tavolo di roulette. In gergo qui infatti la compravendita in borsa viene definita “chao gupiao”, cucinare titoli, un’arte delicata da queste parti, dove tenere le azioni troppo a lungo o troppo fa perdere una gran parte del ritorno.

La maggior parte degli articoli infatti sono concentrati intorno a uno scopo primario: impedire che i broker giochino in proprio usando i fondi istituzionali che hanno in mano. Quello che succedeva finora era che alcuni broker vendevano o compravano prima in proprio e poi facevano seguire le compravendite istituzionali.

Dopo che fu loro proibito di avere conti personali in borsa, molti di loro hanno aperto conti con prestanome. Il risultato era che alcuni movimenti al rialzo o al ribasso erano artificiali, al solo scopo di massimizzare profitti personali, magari ai danni dell’agenzia per cui lavoravano. Con la nuova legge, che prevede attente misure di controllo, tutto questo dovrebbe finire o almeno dovrebbe drasticamente diminuire.

La legge sulla borsa è cruciale anche nella strategia di trasformazione economica del Paese. Da una parte dovrà servire a raccogliere i fondi dei risparmiatori che dovranno sostituire la proprietà oggi tutta statale delle grandi aziende. D’altro canto dovrebbero accedere alla borsa le aziende private che hanno bisogno di finanziamenti per decollare.

Inoltre dovrebbero poter tranquillamente fare shopping in borsa i fondi pensione che la Cina sta gia istituendo e che dall’anno prossimo intende allargare in maniera molto importante. Ciò servirà a creare un primo sistema di welfare state a livello nazionale, che 50 anni di “socialismo” non hanno creato. I contadini infatti sono ancora oggi fondamentalmente senza nessuna forma di pensione o assistenza sanitaria o sociale, e l’assistenza sociale per gli abitanti in città era non a carico del governo ma a carico direttamente delle aziende per cui si lavorava.

Questo ultimo meccanismo perverso fa ancora oggi sì che la liquidazione di una industria decotta non comporti solo la cassa integrazione per i suoi operai in forza attiva, ma un decurtamento drastico della pensione anche per quanti sono già usciti. Il che significa una moltiplicazione dello scontento sociale per le riforme in corso dove, appunto, tante industrie sono in liquidazione.

La legge quindi va a riempire un vuoto immenso, e sottrae enormi fette di potere alle industrie statali e ai suoi grandi manager. Questa aspetto di lotta di potere è infatti dietro i lunghi anni di discussioni e scontri su questa legge.

Altri sconfitti dalla legge sono le istituzioni finanziarie, come le Itic (specie di finanziarie su base locale con poteri di azione spesso molto vaghi), che non avranno più margini per giocare in borsa i fondi raccolti non si sa bene in che modo. Se la borsa avrà una sua trasparenza ed efficienza risparmiatori privati ed istituzionali non avranno più tanto bisogno di cercare alternative strane, nelle Itic, alla sicurezza dei depositi bancari. Potranno se vorranno rischiare direttamente in proprio.

In questo modo d’altro canto lo stato, con la sua presenza nelle banche, fa anche un passo indietro. Non sarà più attraverso la gestione dei depositi bancari di fatto l’unico gestore dei risparmi, ma sarà in competizione con le industrie più efficienti.

Non sarà comunque una piena liberalizzazione, né bisogna sognare che Shanghai o Shenzhen si trasformino come di incanto in Wall Street, e non solo per questioni gestionali, ma soprattutto per il permanere della chiusura del mercato interno.

Un altro obiettivo della legge è infatti mettere chiarezza nei due mercati originalmente pensati come divisi ma che oggi sono spesso confusi: quello delle azioni A per cinesi e delle azioni B per stranieri. Sarà molto più difficile per i cinesi comprare azioni B, più appetite, mentre non si sa se, con le norme di cambio vigenti, degli stranieri si avventureranno presto nel mercato finanziario cinese.

Se però effettivamente entreranno presto nel mercato i potenzialmente immensi fondi pensione cinesi, degli stranieri potrebbero essere tentati di cavalcare l’onda. In fondo può essere comunque più sicuro investire in borsa che fare un investimento diretto in una industria nazionale. Se così fosse, e se il mercato riuscirà a mantenere il livello di trasparenza che promette, il prossimo decennio potrebbe essere quello della borsa di Shanghai.

Qui si innesta il programma concreto tracciato per il 1999 ma che in realtà sarà valido fermamente fino al 2001. La parola d’ordine per i prossimi anni è infatti è aumentare il consumo interno “attraverso qualunque mezzo”, ma certo non aprendo le cataratte del credito facile e della svalutazione che comporterebbe un alto tasso di inflazione. L’introduzione del libro blu, curata da Liu Guoguang, principale consigliere economico del premier Zhu Rongji, infatti precisa che non è possibile pensare a un tasso ragionevole di inflazione, bisogna solo promuovere una crescita senza inflazione.

Liu analizza come negli otto anni precedenti allo scoppio della crisi del 1997, il differenziale di inflazione fra Thailandia e Stati uniti abbia creato la condizioni perché il cambio fisso tra baht e dollaro divenisse poi insostenibile. Non esiste, conclude Liu, un tasso accettabile di inflazione, anche perché il modello di crescita degli Usa in questi anni ha eliminato l’assunto keinesiano che la crescita debba comportare inflazione. Gli Usa e il mondo sono cresciuti in questi anni praticamente sconfiggendo l’inflazione.

È questo uno degli obiettivi strategici per la Cina nei prossimi anni, accoppiato a un radicale cambio della struttura produttiva e finanziaria del Paese. La Cina in altre parole vuole da oggi in poi crescere in modo sano, con modelli moderni, come cresce oggi l’Europa o gli Usa, senza inflazione. La crescita nel prossimo paio di anni sarà trainata da questa immensa pioggia di investimenti in infrastrutture, ma non ci saranno spese incontrollate. Anzi chi vincerà offerte per lavori che poi concluderà male sarà punito con severità. I fondi devono essere usati bene, i prodotti che escono dalle fabbriche devono essere di qualità competitiva e non solo a buon mercato. In altre parole la qualità, finora trascurata, deve entrare fra i criteri produttivi.

È allora un misto di misure principalmente amministrative e secondariamente finanziarie, perché il problema cinese è principalmente di riforma amministrativa e non di semplice uso delle leve finanziarie, come nel caso giapponese.

“Lo sviluppo della nostra economia – scrive il libro – è nel mezzo di due importanti fasi di transizione (passaggio del sistema economico e passaggio del modo di crescita economica [dalla quantità alla quantità più qualità, ndr])… dobbiamo fare attenzione non solo al perseguimento dell’aumento della velocità [di crescita] ma dobbiamo anche promuovere il passaggio del modo di crescita economica e promuovere il cambiamento e il miglioramento della struttura economica, per creare un migliorare ambiente macroeconomico e così promuovere uno sviluppo economico sostenibile a lungo termine”.

Il libro blu d’altro parte spiega che il successo di molte riforme nel 1998 è stato al di sotto delle aspettative perché molte riforme sono state introdotte contemporaneamente. Ciò ha creato un’improvvisa contrazione della spesa da parte degli individui che ha frenato la crescita del mercato interno che avrebbe dovuto sopperire alla mancata crescita delle esportazioni, contratte per la crisi asiatica l’anno scorso.

“La gente si è sentita presa da un’ondata di panico – spiega uno degli estensori del rapporto – vedeva che bisognava mettere i soldi da parte per timore di essere cassaintegrati, bisogna mettere i soldi per la riforma sanitaria che entrerà in vigore quest’anno, bisogna risparmiare per mandare i figli alla scuola che ormai costa cara eccetera. Ci sono tanti motivi per risparmiare e a questo punto non resta tanto liquido per comprare la casa.”

La privatizzazione della casa è stato infatti un fiasco, non è riuscita a innescare l’auspicato ciclo virtuoso per cui lo stato riusciva contemporaneamente a disfarsi di un inutile patrimonio immobiliare e raccogliere fondi per finanziare l’ulteriore crescita del settore edilizio. A un anno di distanza dal lancio di questa riforma lo stato è riuscito a disfarsi di gran parte dei suoi pesanti immobili, ma praticamente regalandoli a prezzi molto al di sotto di quelli di mercato. Così la seconda fase della crescita di un settore immobiliare a qualità più elevata parte senza l’auspicata forte base di liquidità.

Queste ragioni strutturali nel complesso, secondo il libro blu, spiegano perché nel 1998 c’è stato un fenomeno di mancato aumento dei consumi. Le industrie statali hanno continuato a produrre prodotti a bassa qualità, sovra saturando settori di consumo che avevano già raggiunto il loro tetto, mentre per prodotti di qualità più alta, dove c’è ancora richiesta, il mercato è occupato solo dalla produzione straniera o di joint venture.

Allora per i prossimi anni la Cina crescerà facendo leva sugli investimenti statali in infrastrutture. Il giornale spiega che il commercio con l’estero rimane certo importantissimo “ma per un popoloso paese in via di sviluppo come il nostro, la domanda interna è la forza principale per spingere la crescita economica.”

Maggiori investimenti in infrastrutture dovrebbero metter in circolo una grande massa di capitali, 1200 miliardi di dollari di spesa sono previsti fino al 2001, che, a loro volta per il prossimo paio di anni, dovrebbero garantire l’alto tasso di crescita necessario ad assorbire gli operai licenziati dalle aziende statali in via di ristrutturazione.

Tra le priorità il giornale citava il processo di urbanizzazione, una novità dopo che per decenni il governo centrale ha cercato di arrestare il flusso migratorio nelle città.

Se quindi così nei prossimi anni la Cina riuscisse a espandere il suo mercato interno, ciò, nel prossimo decennio, potrebbe aiutare molto la ripresa regionale.

Inoltre tale sviluppo interno è necessario anche di fronte alle crescenti irritazioni americane per un deficit commerciale che quest’anno dovrebbe toccare i 60 miliardi di dollari. Non è possibile che gli Usa sostengono ancora per molto tempo la pressione di tale deficit, specie se poi l’euro dovesse affermarsi effettivamente come seconda moneta di scambio internazionale e ciò potrebbe avvenire con un rafforzamento dell’Euro.

Qui c’è un accumulo di dettagli rischiosi per gli Usa. Se i prezzi in dieci anni sono fissati in euro oltre che dollari il tesoro americano calcola una perdita di 30 miliardi di dollari l’anno. Una sciocchezza, ma sommiamolo al fatto che Francoforte cercherà di finanziare il commerico in euro, il che comporterà uno spostamento dai 500 ai mille miliardi di dollari, e al fatto che contemporaneamente il deficit commerciale Usa toccherà i 300 miliardi di dollari nel 1999 mentre il deficit di bilancio statale è stabilmente oltre i mille miliardi.

Questi fatti sono dietro l’esplosione del ministro della giustizia giapponese Shozaburo Nakamura che a gennaio ha accusato gli Usa avere un’economia gonfiata in sostanza finanziando con un deficit statale i suoi consumi eccessivi e usando le sue leve politico militari per controbilanciare effetti sgraditi del successo commerciale altrui. Un chiaro riferimento al fatto che più volte in passato gli Usa hanno imposto al Giappone misure di apertura dei suoi mercati.

L’argomento può essere rovesciato, spiegando che in realtà gli Usa finanziano con soldi altrui l’espansione industriale di altri Paese, essi infatti crescono perché esportano appunto negli Usa e gli Usa non chiudono il loro mercato interno.

Ma in sostanza, la crisi finanziaria asiatica, l’ingresso dell’Euro, la nuova direzione di marcia dell’economia cinese, la pressione crescente che gli Usa subiscono per il loro deficit commerciale e di bilancio pare tendere all’inizio di un cambiamento di modelli di crescita e modelli geostrategici in cui l’Asia è il grande spazio di manovra e dove il cambiamento strategico dell’economia cinese può giocare un ruolo fondamentale.

The soft-war

Dopo la guerra calda, la guerra fredda dobbiamo oggi prepararci alla guerra soffice. Nel 1996 le vendite all’estero di prodotti di spettacolo e software erano stati complessivamente di 60,2 miliardi di dollari, più di qualunque altra industria americana. Nel frattempo tale quantità è aumentata e inoltre l’esportazione di prodotti con un contenuto non primariamente culturale, come per esempio la Coca Cola, la Pepsi Cola, gli hamburger di McDonalds, porta con se, ed ha successo, grazie alla forte valenza culturale del prodotto. La Coca è certo buona da bere, ma è anche vero che con essa uno beve un modello di vita, un pezzo di cultura americana.

Questi nuovi prodotti hanno due facce. Da una parte portano con sé una “ideologia”, che non va pensata nei vecchi termini di ideologia comunista contro capitalista, ma di complesso sistema di valori culturali con un certo contenuto politico. Dall’altra hanno costi di produzione standard e costi di riproduzioni infinitesimali, per cui la vendita su larghissima scala moltiplica all’infinito i profitti. In altri termini il costo principale di un film è la sua produzione, ma il costo della sua riproduzione su pellicola, cassetta o disco digitale è praticamente nullo, tanto che una maggiore numero di riproduzioni di un film in cassetta eccetera richiede un investimento assolutamente marginale, rispetto alla produzione iniziale, ed è praticamente tutto profitto. La stessa cosa vale per i software e tutti gli altri prodotti che possono essere riprodotti elettronicamente.

Il dibattito che si sta sviluppando in tutto il mondo sull’economia basata sulla conoscenza e sull’importanza dell’industria culturale in senso molto lato crea una tensione globale sui mercati e per i mercati. Diventa centrale per ogni azienda e ogni Paese, la possibilità di accedere a un ampio mercato il più uniforme possibile.

Gli Stati uniti sono estremamente interessanti per questo, l’Europa lo è di meno perché divisa tra una decina di lingue. L’India è anche interessante, ma non fondamentale, perché anche lì ci sono divisioni di lingua (indoeuropee a nord, dravidiche a sud) e religiose (induisti e musulmani)… La Cina con la sua unità di lingua e cultura, è ideale. Rappresenta il più grande mercato potenziale del mondo con i suoi 1,3 miliardi di abitanti e con lo sforzo interno di ampliare i consumi interni cerca di trasformare questa potenzialità in realtà il prima possibile.

Senza tenere conto di limiti in termini di proiezioni malthusiane dello sviluppo, l’economia cinese dovrebbe crescere a ritmi vorticosi per i prossimi 70-80 anni (e forse più) per arrivare a un Pil pro capite vicino a quello dei Paesi avanzati. Ma già nei prossimi vent’anni la Cina diventerà il singolo più grande mercato del mondo in tantissimi prodotti, e certamente potrebbe diventarlo in modo facile per i prodotti culturali, che appunto hanno basso costo di riproduzione.

Solo l’esistenza di questa tendenza in questo Paese fa della Cina il punto focale di sviluppo per tutte le aziende di tutto il mondo. Non è possibile sapere se la Cina interromperà lo sviluppo, ma certo nessuno può o permettersi di restare fuori da questo mercato. È un pò quello che si dice per Internet: oggi molti ci perdono soldi, non si sa bene quando e come si comincerà a guadagnarci, ma i costi potenziali di rimanere fuori da questo sviluppo sono tendenzialmente molto maggiori delle perdite di starci oggi comunque dentro.

Questo può essere vero in termini generali e lo è molto di più per l’industria culturale.

Ciò comporta che il controllo globale si fa attraverso certo l’uso della forza ma anche di una forza industrial culturale, che ha aspetti puramente economici e aspetti ideologici, di assimilazione e favorisce altresì la comunicazione globale.

L’aspetto della comunicazione il più possibile chiara e trasparente è tra l’altro essenziale al funzionamento dei mercati globali, quindi in questo caso vi è un’integrazione quasi magica tra necessità di scambio di informazioni, necessità di nuovi sviluppi industriali, di circolazione di denaro e risorse in modo efficiente, ed ideologia. Inoltre la sostanziale vittoria nel dibattito ideologico tra est e ovest da parte dell’Ovest nella guerra fredda, dimostra come l’ideologia abbia fatto parte di quel conflitto, e che la spinta ideologica americana fu un vantaggio per l’Ovest. Del resto i cinesi sanno che come dice Sunzi la prima regola della guerra è l’inganno, cioè un processo ideologico, di catturare, vincere persuadere la mente, prima di confrontare le armi.

L’analisi delle conseguenze strategiche di questo potentissimo cocktail vanno al di là di questo saggio e del ruolo della Cina. Qui basti dire che data la nuova natura di questa industria culturale la Cina per i motivi sovra menzionati è centrale.

Se si sommano allora i vari fattori, quelli politici (il maggior peso della Cina con la crisi asiatica) quelli economici (la potenzialità di diventare con lo sviluppo del mercato interno in X anni il motore dello sviluppo est asiatico) e quello delle tendenze industriali attuali vediamo che esiste una concentrazione dei vari Paesi del mondo sulla Cina, poiché tutti possono avere un interesse a gravare su di essa la Cina nel prossimo futuro può essere destinata ad avere un peso politico e strategico crescente.

Questa situazione crea potenzialmente una infinita tensione centripeta rispetto a tutto il mondo, ma anche centrifuga, perché molti nel mondo potrebbero avere un interesse a dividersi questo enorme mercato.

La Cina globalizzante

Anche qui c’è un aspetto interno e quindi uno esterno. Per quanto riguarda l’interno la Cina lo scopo è strategico, salvare da una parte l’unità del paese, ma il mezzo oggi, come 70 anni fa quando, il Paese era nel mezzo della guerra civile è l’ideologia. L’industria culturale infatti non vive senza un ambiente non regolamentato, senza forti tutele politiche. Come il mercato funziona meglio dell’economia pianificata, così anche l’industria culturale funziona meglio laddove non c’è una tutela rigida di quello su cui si può pensare o meno.

Allora la Cina ha bisogno rinnovare la sua ideologia, liberalizzare il controllo del mondo intellettuale se vuole partecipare alla nuova corsa dell’industria culturale. Come abbiamo visto la posta è tripla: tenere un vantaggio industriale, ideologico, e assicurarsi contro spinte centrifughe.

Li Shulei prova con dovizia di dettagli che il lavoro ideologico di Mao fu essenziale per portare il Partito comunista cinese alla vittoria. Allora Mao ebbe successo perché sconfisse gli ortodossi filo sovietici e che questa sua operazione era storicamente determinata. Cioè la vera lezione da trarre da Mao è che usò lo strumento giusto al momento giusto. Quindi, cambiati i tempi bisogna cambiare anche gli strumenti altrimenti si viene sconfitti. Li Shulei non tratta della questione industrial-cultural-strategica attuale ma certo pone nel modo giusto le premesse perché la Cina affronti questo problema. Oggi la Cina ha bisogno di controlli ideologici diversi se vuole partecipare a questa sfida globale.

Se non lo fa il vantaggio strategico e ideologico oggi rosicchiato svanirà rapidamente e si potranno re innescare le spinte centrifughe che esistevano all’inizio. E anzi di più.

Perché nel frattempo sarà cresciuta l’interesse globale verso questo mercato dalle condizioni uniche. Allora o il governo riesce a tenerlo insieme (cosa che è più interessante d’altro canto per tutti) oppure potranno ricrearsi aree di influenza e frammentazione del Paese.

Se la Cina d’altro canto riesce a rinnovare la sua ideologia, mantenendo nei prossimi anni il vantaggio strategico ottenuto e migliorando la sua struttura economica e finanziaria, allora cominceremo il prossimo millennio veramente dovendo puntare gli occhi principalmente su questo Paese, che potrebbe esercitare una spinta centripeta come non si era mai vista prima.

Ovviamente per evitare che questa naturale spinta centripeta da un mercato di queste dimensioni e condizioni, crei frizioni e conflitti Pechino dovrà stare molto attenta e non irritare nessuno. Troppi sono già quelli spaventati nel mondo per una Cina solo troppo grande.

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