La guerra in Terra Santa

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Testimonianza del gesuita israeliano David Neuhaus sulla guerra in Terra Santa fra lo stato israeliano e Hamas. Nato in Sud Africa da famiglia ebrea, p. Neuhaus è cittadino israeliano da quando aveva 17 anni. Dopo gli studi di dottorato alla Hebrew University di Gerusalemme, decide di diventare cattolico per entrare poi nella Compagnia di Gesù. Attualmente vive a Gerusalemme.

Sono stati giorni di grande tristezza e profonda frustrazione, mentre la violenza infuriava e io ero ridotto a essere un semplice spettatore. Ho avuto l’impressione che i nostri leader ci abbiano manipolato per portarci alla frenesia che ha reso questa guerra un risultato atteso e accettato.

Sia l’attuale leadership israeliana che Hamas sembrano credere che ci sia qualcosa da guadagnare dal confronto militare. Entrambe le parti parlano un linguaggio di “battere l’altra parte” con mezzi militari, dove l’altra parte è vista come un nemico inumano. Particolarmente preoccupante è stato il quasi totale silenzio di tutte le voci critiche.

Da parte israeliana, il tentativo di inquadrare tutta l’opposizione palestinese come terrorismo islamico, tracciando paralleli tra l’ISIS e Hamas, giocando sul peggio delle paure ebraiche israeliane, ha portato a una risposta silenziosa alle notizie che centinaia di persone venivano uccise a Gaza. La stampa popolare israeliana era poco interessata alle vittime civili ed era molto più interessata a rintracciare e “distruggere” i “terroristi”.

La situazione era comunque pessima anche prima. Questa guerra ha mostrato la vera faccia della situazione, che era stata appena mascherata prima che la violenza scoppiasse in guerra; ma la violenza era già lì a ribollire sotto la superficie. Le guerre trasformano pensieri e parole violente in atti violenti. Questi due popoli sono stati in guerra per decenni; quattro o cinque generazioni hanno insegnato ai loro figli che l’altra parte è un “nemico” da combattere. Le ultime due generazioni non hanno avuto quasi nessun contatto tra di loro a causa della costruzione del muro di separazione.

La mia speranza rimane la stessa di sempre: che Dio ispiri qualcuno o qualche gruppo dall’interno per iniziare a formulare un nuovo linguaggio, le cui parole creino una nuova visione che afferri la gente e faccia loro capire quanto siano stati manipolati nel ridurre l’altro a essere semplicemente “nemico”. Naturalmente tali voci esistono qui, ai margini, in entrambe le società.

Ciò di cui abbiamo veramente bisogno è un miracolo per cui il nuovo linguaggio venga ascoltato. Abbiamo bisogno di un cambiamento di paradigma politico per cui i nostri leader, che hanno parlato la stessa lingua di guerra per così tante generazioni, saranno sostituiti da coloro che possono offrire un nuovo linguaggio e una nuova visione.

Anche la mia paura rimane la stessa: che i nostri leader rimangano semplicemente nelle loro posizioni come risultato dell’inerzia che ha caratterizzato la nostra situazione per decenni.

I leader religiosi, per la maggior parte, si sono lasciati assoggettare dalle élite politiche che dettano il tono dei discorsi e delle decisioni. Pochissime sono le voci critiche nell’establishment religioso che resistono alla mobilitazione politica del discorso religioso per giustificare l’agenda politica. Per la maggior parte, il “Dio” dell’establishment religioso è imbrigliato negli obiettivi di questa agenda politica.

Per questo motivo, la visita di papa Francesco è stata così interessante: perché penso che abbia cercato di rompere le catene che incatenano la religione alla politica nel nostro contesto. Nelle sue visite a Betlemme e Gerusalemme, ha rifiutato di lasciarsi manipolare e ha invitato i due leader politici che riteneva più aperti, i presidenti Peres e Abu Mazen, a rompere il confronto politico violento attraverso un atto religioso di invocazione.

In tutto questo, la Chiesa ha un ruolo molto importante da svolgere. Come organismo autonomo (la leadership ebraica e musulmana sono per la maggior parte pagate dallo stato, mentre la leadership religiosa cristiana non è integrata nella burocrazia statale), la Chiesa può mantenere un discorso indipendente. Il suo ruolo è senza dubbio quello di custodire un linguaggio di saggezza e buonsenso – un ruolo particolarmente importante quando regna la follia.

I cristiani sono statisticamente marginali, ma questo non dovrebbe essere visto solo come un’indicazione di irrilevanza, ma anche come una forza nel non dover fare lobby col potere per avere influenza e potere. La Chiesa è profondamente radicata su entrambi i lati del muro dell’inimicizia ed è chiamata ad abbracciare consapevolmente questa situazione e tenere insieme i fedeli.

Non è certo irrilevante che la parrocchia latina di Gaza e quella di Beer Sheba abbiano celebrato la messa durante tutto il conflitto in una comunione di fede. Il discorso che ne risulta non è una pia fuga dalla realtà, né un gioco diplomatico di equilibri, ma piuttosto un riconoscimento dell’umanità di tutti coloro che vivono qui, un riconoscimento della loro profonda ferita e una promozione della loro fondamentale dignità.

La Chiesa è invitata a descrivere il mondo dai margini: dal punto di vista dei bambini, delle donne, dei senza tetto, degli oppressi…. Il discorso che la Chiesa può fare a partire dalla sua realtà in questa terra è forse il suo più grande contributo alla pace. Per questo deve impegnarsi pienamente nella società in cui vive e non isolarsi da essa.

La via d’uscita è molto semplice: vedere l’altro come un essere umano. Ascoltarlo e lasciarsi toccare da lui. Ma per fare questo è necessario che sia messo in atto un processo di guarigione delle relazioni.

Entrambe le parti rivendicano il vittimismo, e le vere ferite che hanno subito in passato (gli ebrei nella loro storia di minoranza, i palestinesi nella perdita della loro patria) sono manipolate da una leadership che vive di queste ferite. Non c’è dubbio che un primo passo deve essere la fine dell’occupazione israeliana, affinché i palestinesi possano avere uno spazio vitale in cui non siano circondati e controllati. Tuttavia, questo non è sufficiente per uscire davvero dall’impasse.

In tutto questo, la Chiesa cattolica ha un ruolo molto importante: parlare e formare le coscienze. Profondamente consapevole di come il discorso dei cristiani sugli ebrei in passato abbia avuto effetti disastrosi sulla vita reale degli ebrei, la Chiesa deve continuare a formulare la rivoluzione in corso che ha portato alla nascita di un nuovo rapporto con il popolo ebraico.

Profondamente consapevole di come le pratiche dei potenti nel corso dei secoli hanno espropriato i popoli delle loro terre e distrutto le loro culture, la Chiesa deve continuare a formulare la sua solidarietà con coloro che sono vittime dell’occupazione e dell’espropriazione.

In Terra Santa, queste due sensibilità sono in incredibile tensione e la Chiesa è chiamata a formulare chiaramente una visione che promuova l’umanità, la dignità e la prosperità sia degli ebrei sia dei palestinesi. Questo implica chiaramente parlare senza paura non come un diplomatico ma come un profeta.

  • Ripreso dalla rivista dei gesuiti statunitensi America (nostra traduzione dall’inglese).
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