Le primavere arabe dieci anni dopo

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A dieci anni di distanza, quando oggi si parla della stagione delle rivolte arabe del 2010-2011, spesso si finisce per dimenticare che non si trattava di fenomeni isolati. A livello globale, infatti, si assisteva a un fermento di movimenti di protesta contro lo status quo anche ad altre latitudini che non ha risparmiato neanche il Mondo occidentale.

Sembra impossibile, a dieci anni di distanza, capire cosa siano state le cosiddette Primavere arabe, considerato quanto anche all’epoca siano state poco comprese o, nella migliore delle ipotesi, male interpretate. La definizione stessa di Primavera araba, infatti, risponde alla necessità occidentale di usare “lenti proprie” per inquadrare fenomeni di altre regioni del globo.

In quel caso fu scelto il paradigma della Primavera di Praga del 1968 per circoscrivere, se non ingabbiare, in un’unica chiave interpretativa fenomeni complessi, diversi e magmatici come le manifestazioni di piazza che a cavallo tra 2010 e 2011 fiorirono nelle piazze di Tunisia, Libia, Egitto, Marocco, Giordania, Yemen, Bahrein e Siria. Senza contare, tra l’altro, che gli arabi di altre zone rimasero tutt’altro che indifferenti al vento delle rivolte che in quei mesi soffiava sul Mediterraneo sudorientale.

Quando oggi si parla della stagione delle rivolte arabe, spesso si finisce per dimenticare che non si trattava di fenomeni isolati. A livello globale, infatti, si assisteva a un fermento di movimenti di protesta contro lo status quo anche ad altre latitudini. È il caso di Occupy Wall Street, movimento nato a settembre del 2011 come forma di protesta contro gli abusi del capitalismo finanziario, considerato responsabile della crisi economica deflagrata tre anni prima.

A maggio dello stesso anno vedeva la luce in Spagna anche il Movimiento 15-M (più noto al grande pubblico col nome di Indignados). Anche nelle piazze di Madrid – comprese quelle della Giornata mondiale della gioventù convocata proprio in Spagna da papa Ratzinger – si protestava contro le condizioni economiche drammatiche innescate dalla crisi del 2008.

I pezzi di un mosaico complesso

Parlare in maniera unitaria di fenomeni come le rivolte arabe, così stratificate e diverse da Paese a Paese, è molto difficile. Il disagio economico, e il conseguente malcontento diffuso tra le popolazioni del mondo arabo, è forse uno dei pochi elementi rintracciabili in tutti i movimenti di piazza d’inizio decennio. In molti casi lo svantaggio economico delle classi lavoratrici corrispondeva a una smisurata concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi individui, quasi sempre membri della cerchia vicina al potere autocratico.

In Tunisia, primo tra i Paesi arabi a scendere in piazza contro il regime di Zine El-Abidine Ben Ali, una buona fetta del tessuto produttivo e strategico del Paese era in mano a persone vicine al presidente, se non suoi parenti diretti. Non a caso, ad esempio, Leila Ben Ali – moglie del capo dello Stato – divenne uno dei principali bersagli delle proteste del dicembre 2010, additata dai manifestanti come simbolo della corruzione e dell’apparato “cleptocratico” che reggeva le sorti del Paese nordafricano.

Un discorso simile si può allargare alla Siria, dove l’imprenditoria ammanicata con il regime di Bashar al Assad controllava – e tuttora controlla – il nerbo dell’economia nazionale. Basti pensare al caso eclatante di Rami Makhlouf, cugino del Presidente, che secondo le stime più incaute gestisce il 60% dell’economia siriana, tramite un impero industriale che va dall’edilizia alle infrastrutture, passando per le telecomunicazioni. La situazione, però, era molto diversa in Paesi dall’economia più solida come Bahrein e Libia.

Quest’ultima, controllata dal regime di Muammar Gheddafi sin dal 1969, era il classico Stato rentier, cioè un Paese la cui economia dipende in grandissima parte dall’esportazione di un determinato bene, in questo caso gli idrocarburi. La popolazione libica, che nel 2011 ammontava a soli 6 milioni di abitanti, viveva sostanzialmente delle rendite petrolifere, mentre i lavori di manovalanza e servizio venivano affidati a manodopera straniera (soprattutto africana).

Un altro tratto comune individuabile in tutti i teatri delle rivolte arabe è sicuramente il controllo autoritario della vita pubblica. L’azione repressiva delle mukhabaràt – i famosi servizi d’intelligence operativi in diversi Paesi dell’area come Egitto, Siria e Iraq – aveva desertificato l’attività politica per quasi mezzo secolo, sradicando ogni forma di dissenso. Il malcontento, la sensazione di disagio e di inagibilità politica contribuirono sicuramente a catalizzare i processi di rivolta contro i regimi dell’area.

Avanguardia rivoluzionaria

Poste queste premesse, nella memoria storica resta il fatto che al volgere degli anni 2010-2011, l’onda della protesta iniziò ad abbattersi sul mondo arabo. Un’avanguardia rivoluzionaria – fatta soprattutto di giovani colti e qualificati ma esclusi dal mercato del lavoro e dall’apparato dirigente – riuscì a coinvolgere masse popolari stanche dopo anni di vessazioni. Questo fu possibile anche grazie all’aiuto dei social network – che in quel periodo dirompevano nel sistema informativo globale – e a una simbologia potente ed evocativa.

Fu così che Mohammed Bouazizi, il pescivendolo tunisino che si immolò dandosi fuoco in segno di protesta contro i soprusi del regime, divenne l’emblema dell’insurrezione. Stessa sorte toccò all’egiziano Khaled Said, ucciso a maggio 2010 mentre era tenuto in custodia dalla polizia a Sidi Gaber, presso Alessandria.

Le rivolte, infatti, hanno bisogno di simboli per alimentarsi: che i soprusi ci fossero lo sapevano tutti, ma dare un volto a quelle vessazioni diede una concretezza diversa alla tirannia, e l’impeto necessario perché il malcontento latente si trasformasse in protesta palese. Le immagini trasmesse dalle emittenti panarabe, come la qatariota Al-Jazeera, permisero inoltre al verbo della thawra (“rivoluzione” in arabo) di travalicare i confini nazionali e di raggiungere l’intera area del Medio Oriente e del Nord Africa.

Ben Ali fuggì in Arabia Saudita il 14 gennaio 2011, e l’11 del mese successivo cadde anche il presidente egiziano Hosni Mubarak a seguito delle oceaniche proteste di piazza Tahrir, al Cairo. Il 20 ottobre 2011 venne trovato in un canale il cadavere di Gheddafi, defenestrato nei mesi precedenti dalle piazze in sommossa e dall’intervento occidentale in favore dei rivoltosi libici. Dopo un anno convulso, in Yemen, il presidente Ali Abdallah Saleh rassegnò le dimissioni il 25 febbraio del 2012, lasciando davanti a sé un paese tutt’altro che pacificato.

Il vento delle rivolte soffiò anche in Marocco e Giordania, dove però le monarchie hashemite riuscirono a non farsi scalzare grazie a un mix ben dosato di aperture riformistiche e aiuti internazionali. In Bahrein le sommosse iniziarono a febbraio 2011, dando sfogo alle tensioni settarie di un Paese dall’assetto istituzionale tutto particolare.

La maggioranza sciita della popolazione, circa il 70 % del totale, è governata dalla dinastia sunnita degli Al Sabah, accusata di discriminazioni interconfessionali su vasta scala. La repressione della Primavera bahreinita fu brutale e chirurgica, anche grazie all’aiuto di paesi dell’area – sauditi in testa – che inviarono truppe in ausilio della monarchia al potere.

Il vento della protesta arrivò anche in Siria, dove alcuni adolescenti della città di Deraa – nel Sud del Paese – furono catturati a inizio 2011 dagli apparati di sicurezza per aver scritto su un muro «Dottore, il tuo turno sta arrivando». Il “dottore” era Bashar al Assad, laureato in oftalmologia, e l’allusione al “suo turno” si riferiva agli omologhi autocrati già rovesciati negli altri paesi arabi. Di quei ragazzini, però, non si ebbe più notizia.

I mesi successivi videro le piazze riempirsi di centinaia di migliaia di siriani. La repressione e la svolta armata della rivolta precipitarono il Paese in una guerra civile, sfociata in una guerra regionale per procura, sfociata a sua volta in un conflitto internazionale.

Al culmine degli scontri – con un bilancio di mezzo milione di morti – la guerra in Siria vedeva coinvolti numerosi attori locali e non solo. Dalla parte del regime si schierarono l’Iran, il partito milizia libanese Hezbollah e la Russia di Vladimir Putin. I ribelli, specialmente quelli più vicini all’islam militante, furono supportati da Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar.

A complicare il quadro, già di per sé molto intricato, contribuì nel 2014 la nascita del sedicente Stato islamico nell’Iraq e nel Levante (passato alla storia come Is, Islamic State).

Le sollevazioni ebbero un’intensità minore, se non assente, in Stati come Libano e Algeria. Il Paese dei Cedri fu il teatro della cosiddetta Intifada della dignità, ma le condizioni politiche – compresi i ricordi ancora molto vividi della guerra civile – frenarono le rivolte dall’arrivare a una svolta sovversiva. Lo stesso, con le dovute eccezioni, accadde in Algeria, un Paese ancora profondamente segnato dalle violenze del “decennio nero” degli anni novanta.

Non c’è dubbio, però, che algerini e libanesi sapevano ciò che accadeva negli Stati vicini, tanto che i loro Paesi furono protagonisti – tra 2019 e 2020 – di quella che alcuni analisti considerano a tutti gli effetti la “seconda ondata” delle Primavere arabe.

Dal punto di vista politico, i movimenti di piazza del biennio 2010-11 si rivelarono per quel che erano: realtà dinamiche, coraggiose e volitive, ma purtroppo anche acefale. Gli unici movimenti strutturati da anni di militanza erano quelli legati alla Fratellanza musulmana e all’islam politico.

In Egitto, ad esempio, i Fratelli musulmani egemonizzarono la piazza, riuscendo a far eleggere presidente il proprio rappresentante Mohammed Morsi. In Tunisia, il partito islamico moderato En-Nahda – sotto la guida di Rachid Ghannouchi – riuscì a imporsi come attore chiave della transizione, sia in fase costituente che in seguito. In Libia, oggi come dopo il rovesciamento di Gheddafi, la Fratellanza gioca un ruolo molto importante specialmente nel rapporto tra Governo di accordo nazionale (Gna), nato a Tripoli sotto l’egida Onu, e attori regionali come Turchia e Qatar.

In Siria, infine, il coordinamento politico dell’opposizione anti-Assad era nelle mani di vari comitati – per lo più all’estero – dominati da nasseriani e Fratelli musulmani, entrambe realtà abbastanza scollate dalle piazze siriane, formate soprattutto da giovani lontani dalle ideologie del secolo scorso.

In altre parole, alla Primavera araba sembrò seguire una calda “Estate islamista”, con cui le cancellerie europee e statunitensi dovettero, giocoforza, sedersi a dialogare. Quello che accadde in seguito fu una sorta di “Inverno autoritario”, iniziato simbolicamente con il rovesciamento di Morsi in Egitto nel 2013, a seguito del golpe militare che mise il potere nelle mani dell’attuale presidente Abdelfattah al Sisi.

Lo sguardo dell’Occidente e la pandemia

Stati Uniti, Unione europea, Nazioni unite e policy-makers occidentali hanno continuato per l’intero periodo a guardare ai fenomeni del bacino del Mediterraneo in chiave securitaria, accettando di aver a che fare con governi autoritari e repressivi pur di perseguire il mantra della “stabilità”, inteso soprattutto come contenimento del terrorismo endogeno e dei movimenti migratori causati da guerre devastanti come quella siriana.

Nel lungo termine è molto difficile che questo tipo di politica regga. Il disagio economico, l’esclusione dai centri di controllo della vita pubblica e la repressione sistemica sono ancora presenti nel mondo arabo odierno. E se questi erano i motivi che dieci anni fa spinsero le masse a scendere in piazza, non è da escludersi che la cosa possa ripetersi oggi. Le manifestazioni a cavallo tra 2018 e 2020 in Algeria, Sudan, Libano e Iraq ne rappresentano, forse, la miglior prova al momento disponibile.

La pandemia di Covid-19 ha finito per congelare, anche se solo in parte, nuovi focolai di sollevazione e fonti di instabilità nel mondo arabo. È successo in Libia, dove il Gna guidato da Fayez al-Sarraj e l’autoproclamato Esercito nazionale di Khalifa Haftar, sembrano ancora lontani dalla svolta necessaria a uscire dallo stallo. È accaduto anche in Tunisia, culla delle Primavere arabe, dove il governo guidato da Hichem Mechichi è stato costretto nel mezzo di una nuova ondata di proteste a un veloce rimpasto di governo a metà gennaio, mentre le nuove misure anti Covid calavano sul Paese impedendo, di fatto, un rafforzamento delle manifestazioni.

È ragionevole, quindi, aspettarsi che la pandemia finirà per aggravare le condizioni economiche di tutta l’area. Se a questo si aggiunge che i governi arabi potrebbero continuare a utilizzare le misure anti-Covid come pezza d’appoggio per mettere in campo un’ulteriore stretta securitaria, ci si ritrova di fronte alle stesse condizioni che spinsero la gente a scendere in piazza nella stagione delle rivolte di un decennio fa.

  • Ripreso dalla rivista Confronti nel quadro della collaborazione con SettimanaNews.
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