La crisi del Libano

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Per capire cosa stia rapidamente divorando il Libano  – e i libanesi – bisogna fissare due fotogrammi molto recenti.

La lista dei ministri e l’Iran

Il primo è quello dell’ex premier incaricato – Saad Hariri – che consegna finalmente la lista dei ministri del suo governo al presidente della Repubblica il 15 luglio scorso: un governo che attende di essere formato da dieci mesi. Hariri doveva sapere che il presidente Aoun, collocato al vertice della Repubblica da Hezbollah, non avrebbe controfirmato l’atto costitutivo del nuovo governo e che quindi sarebbe stato obbligato a rinunciare.

Il Libano per Hezbollah, e quindi per Aoun, è una carta nelle mani della diplomazia iraniana nel grande gioco negoziato con Washington sul nucleare: il negoziato ora è infatti sospeso, in attesa che si insedi il nuovo presidente iraniano.

Il Libano è una carta – nulla di più – e va quindi giocata al momento giusto. Hariri sapeva inoltre che i suoi sforzi per tornare ad essere accettato a Riad erano falliti. Oltre al blando sostegno occidentale, era solo riuscito a ottenere un’udienza benedicente da parte del delegato saudita – l’egiziano al-Sisi – poco prima di recarsi dal capo dello stato.

Sebbene il Paese stia letteralmente morendo di fame, Hariri sapeva che il blocco imposto da una logica “superiore” – cinica ed indifferente alle sofferenze – non sarebbe stato superato. Perché dunque ha tentato ugualmente trovandosi poi costretto a rinunciare all’incarico?

Impunità

Il secondo fotogramma è quello offerto dalla scelta di Muhammad Fahmi – già ministro dell’Interno, dimissionario da un anno insieme a tutto il governo, peraltro tuttora in carica – voluto dal presidente Aoun per il “disbrigo degli affari correnti”.

Ricordo che Fahmi, pochissimi giorni prima della rinuncia di Hariri, ha rifiutato al giudice inquirente l’autorizzazione ad interrogare il potente capo di una delle due intelligence libanesi, Abbass Ibrahim, vicinissimo ad Hezbollah: doveva essere interrogato sull’esplosione che ha distrutto il porto di Beirut – e con esso di mezza città – il 4 agosto dell’anno scorso.

Appena si è sparsa la notizia che i familiari delle vittime si erano radunati sotto la sua casa – portando con loro casse da morto vuote – Fahmi ha ordinato di disperdere i manifestanti con le maniere più rudi. Nei fatti ha detto: “noi non ci facciamo processare”.

In quel modo è partita una autentica e diffusa repressione armata contro tutti i numerosi sit-in in corso in un Paese che sta affondando nelle lacrime e nel subbuglio: un Paese che sta “soltanto” chiedendo la verità sull’esplosione del porto di Beirut – sui morti – e, insieme, sulla corruzione che, a tutti i livelli, sta divorando tutto e tutti.

Dunque, la verità su quanto accaduto al porto di Beirut non potrà emergere, non deve emergere. Lo ha detto chiaramente pure l’assassinio del noto e autorevolissimo intellettuale sciita dissidente, Luqman Slim, ucciso vicino a Beirut pochi mesi fa dopo aver affermato di avere le prove del coinvolgimento di Hezbollah e del regime siriano nell’esplosione del porto di Beirut.

Il potere elettorale dell’intimidazione

Unendo questi due fotogrammi e i relativi eventi si ha ben chiara la percezione che i leader politici libanesi non stiano affatto pensando alla crisi economica, bensì alla loro campagna elettorale. In primavera si voterà – o si dovrebbe votare – per il rinnovo del Parlamento.

A quell’appuntamento ciascuno di loro vuole arrivare con le chances elettorali migliori ovvero con le pressioni più forti e intimidatrici.

Ma nessuno di loro ancora sa come andrà il negoziato tra Stati Uniti ed Iran sul nucleare: perciò nessuno sa quando potranno darsi le condizioni per formare un nuovo governo. C’è già chi sussurra che il vuoto governativo si protrarrà ad arte sino a ottobre.

Crisi economica e governo

Intanto la valuta precipita. Dal 1991 era legata al dollaro al cambio di 1.500 lire libanesi per un dollaro. In questi mesi la lira è precipitata a 22.000 per un dollaro. La stampa già parla di un cambio che sarà presto a quota 40.000. In queste condizioni che dicono della vita della gente, si potrà davvero votare?

Per formare un governo occorre in ogni caso individuare un premier che per la legge libanese deve essere necessariamente di appartenenza sunnita. Chi potrà accettare di sostituire il maltrattato Hariri, il sunnita di maggior prestigio?

Ora il rischio è che, se qualcuno accetterà senza il suo sostegno, venga presentato come il “traditore della comunità” e questo perché il presidente cristiano maronita Aoun ha confermato l’allineamento del suo partito con Hezbollah, il partito khomeinista avverso ai sunniti, nel nome della cosiddetta “alleanza delle minoranze”, ossia  della teoria secondo la quale solo con l’alleanza di chi rappresenta la minoranza dell’Islam, ossia gli sciiti, i cristiani possono resistere alla tendenza totalitaria che sarebbe connaturata alla maggioranza sunnita.

Questa teoria eternizza in Libano – e, ahinoi, non solo in Libano – lo scontro politico tra filo-iraniani e filo-sauditi, enfatizzando uno scontro religioso che ineluttabilmente militarizza le comunità, cancellando la prospettiva della pari cittadinanza e impedendo ai cristiani di svolgere il loro più autentico ruolo storico: quello degli onesti mediatori tra le comunità usate dal gioco perverso degli opposti imperialismi.

I cristiani e il paese

Recandosi verso il palazzo presidenziale il nunzio apostolico in Libano – mons. Joseph Spiteri – aveva detto che il paese ha urgentemente bisogno di un governo. Mancava poco alla rinuncia di Hariri.

Chi ha parlato con i libanesi, con i cristiani così come con i sunniti e gli sciiti, riferisce una forte sintonia: questo è il nuovo modo di pensare del popolo, soprattutto dei giovani che vedono nella rinuncia di Hariri la dignitosa ammissione della fine inesorabile delle caste – tribali e miliziane – che hanno portato questo Paese al disastro.

È questo il sentire che i cristiani avrebbero potuto esprimere con forza per una nuova politica fondata sui cittadini, non più sui leader di appartenenza. Ma non è questo, certamente, il verso in cui si sta muovendo il presidente Aoun, responsabile del disfacimento nazionale e della crisi che sta eliminando il ceto medio arabo, con le sue scuole e le università.

Il Libano è ora in ginocchio. Nel Paese riverbera pure il virus violentemente, con una sanità allo stremo. Intanto Aoun ha deciso di aspettare che passi la festa islamica di Eid el-Adha (che durerà sino al 23 luglio), per poi riprendere a cercare un improbabile nuovo premier da incaricare.

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Un commento

  1. Claudio Lo Jacono 20 luglio 2021

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