Lo specchio di Erdogan

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nato

“Ci aspettiamo azioni più incisive”: sono le parole con cui il governo turco fa pressioni sulla Svezia ma anche sulla Finlandia, i Paesi che ospitano, quali richiedenti asilo politico o rifugiati, dirigenti o ex dirigenti curdi, qualcuno del PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, tutti considerati terroristi da Ankara.

Se Stoccolma e Helsinki vogliono lo scudo della Nato devono dare soddisfazione alla intimazione di Erdogan. Ma neppure i recenti colloqui – faccia a faccia – con gli inviati speciali dei governi hanno trovato una soluzione. L’asticella della contesa si è alzata.

Parole del tutto equivalenti – “ci aspettiamo azioni più incisive” – vengono nel mentre pronunciate a Il Cairo e sono rivolte, allo stesso modo, ad Ankara. Se Erdogan vuole infatti riallacciare quelle relazioni diplomatiche con l’Egitto che in questo momento gli premono, deve cedere, a sua volta, alla intimazione egiziana e procedere contro i Fratelli Musulmani che sta ospitando in Turchia, tutti terroristi per Il Cairo.

Il doppio gioco della Turchia

Rispetto alla curiosa simmetria delle posizioni di partenza, Erdogan si è già mosso, facendo scadere il permesso di soggiorno a numerosi “Fratelli”, anche se ad al-Sisi questo non basta. Gli scandinavi sono chiaramente più prudenti, perché sono in questione i diritti delle persone ospitate.

Andare verso Erdogan pone evidentemente seri problemi di coerenza giuridica a Stoccolma ed Helsinki. Sebbene qualche fuggiasco curdo, ospite dei Paesi scandinavi, possa avere inclinazioni all’azione armata, i 33 nomi di cui la Turchia ha chiesto l’estradizione stanno a mostrare la pretestuosità con cui si muove.

Tra loro, infatti, ci sarebbe pure chi è già deceduto da anni: possibile che ciò sia sfuggito ai turchi nel momento in cui hanno inoltrato la loro minacciosa richiesta? Oppure si è trattato di un errore voluto, per allungare i tempi della ricerca di un accordo? Tempi un po’ più lunghi potrebbero servire ad Ankara per concludere altri accordi nel complesso puzzle della geopolitica mondiale e, in particolare, mediorientale.

Erdogan deve trovare il tempo per trovare un accordo con Il Cairo, innanzi tutto, come anticipato. Ricordo che, dopo il golpe che portò alla deposizione del presidente egiziano, regolarmente eletto, Morsi, esponente dei Fratelli Musulmani, proprio Erdogan si autoproclamò erede e leader dei Fratelli Musulmani nel mondo.

Difficilmente potrà ora riconoscere che i Fratelli che sta ancora ospitando sono tutti terroristi. Tra quelli già fatti uscire e quelli che rimangono nel Paese – anche da quest’altra parte – qualche inclinazione alla lotta armata c’è o ci potrebbe essere.

Le elezioni

Ankara si specchia in Helsinki e in Stoccolma, in questo caso? Gli specchi funzionano allo stesso modo. E tuttavia lo specchio di Erdogan è sempre uno specchio assai speciale. Il suo problema politico è ben diverso da quello della politica – giuridicamente fondata – delle cancellerie di Svezia e Finlandia.

Per Erdogan il problema politico è del tutto interno e proiettato sulle elezioni del prossimo anno: gli elettori si aspettano un chiarimento sul ruolo dei sunniti turchi nella Turchia che uscirà dalle urne.

Deve perciò sostanzialmente decidere se rientrare nei ranghi regionali, rinunciando a essere il nuovo leader del mondo arabo sunnita, da lui definito allo sbando – consegnando quindi la leadership ad Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto – e piegando la testa all’estero, oppure no. Come fare in patria come per giustificarsi?

Ecco, pertanto, l’importanza strategica della linea dura da tenere, nella contingenza, proprio con la Finlandia e con la Svezia, per poter dire al nazionalismo turco – suo principale serbatoio elettorale – che userà senz’altro la mano dura, come sempre, con i curdi. Bisogna intendere.

Lo Stato dei curdi, come noto, non esiste. I turchi combattono i curdi di Turchia che – nel PKK – hanno basi in Siria e Iraq. Con il governo del Kurdistan iracheno, al momento, la Turchia non ha problemi, anzi. La netta sensazione è dunque che Erdogan usi il problema-pretesto dei guerriglieri del PKK – in parte realtà e in buona parte pretesto – al di là dei propri confini, in Siria e in alcune sacche dell’Iraq, per una vasta operazione militare dalle molteplici finalità: si tratta di occupare una fascia di 30 chilometri al di là dei propri attuali limiti, smantellando l’esperimento di autonomia curda nel nord della Siria.

In quella fascia operano, in prevalenza, altri curdi che non sono turchi, bensì siriani. Il terrorismo del PKK offre dunque il motivo per intervenire ed estinguere la minaccia di un esperimento di autogoverno curdo inclusivo in terra siriana: questo preoccupa molto Ankara perché potrebbe fare da modello ispiratore anche per i curdi di Turchia.

Profughi siriani

In quella fascia negletta e disperata – in quei 30 chilometri – Erdogan ha poi la mira di trasferire il maggior numero possibile di siriani che da anni sono rifugiati in Turchia. Questi sono stati i benvenuti della guerra di Siria, quando Erdogan si atteggiava a leader sunnita: turco – sì – ma pronto ad offrire il proprio mantello a tutti i fratelli arabi, i sunniti ritenuti privi di leadership adeguate.

Ma ora il volto da Sultano non interessa più all’Erdogan che va al voto con una Turchia sull’orlo del baratro economico.

Come già sostenuto su queste pagine, la gravissima crisi economica rende i profughi siriani ospiti sempre più sgraditi anche in Turchia. Erdogan ha dismesso i panni del leader panislamista ed è divenuto il leader nazionalista dei turchi stanchi dei profughi. Incapace di risolvere la questione economica spera di recuperare voti espellendo i poveri siriani, che sono tantissimi.

Tale svolta spiega anche l’altra strabiliante svolta: sauditi ed egiziani non sono ora più, rispettivamente, gli assassini di Khashoggi e i golpisti che hanno fatto morire Morsi, ma gli amici con cui provare a rimettere in sesto la barca economica turca che fa acqua da tutte le parti. Tra un anno dunque si voterà. I sondaggi danno il crollo verticale di Erdogan. Le opposizioni lo incalzano. Erdogan deve muoversi e sfruttare tutte le circostanze.

Le mire e gli affari di Erdogan

Ecco allora che la guerra in Ucraina diventa l’occasione per provare a incassare il massimo su più fronti: ad Erdogan interessa che Svezia e la Finlandia confermino agli elettori turchi che solo lui sa imporre all’Europa il marchio di terroristi ai curdi. L’approccio arcigno gli ha già fruttato il riconoscimento della minaccia terrorista ai suoi confini. Ciò gli ha consentito di annunciare l’imminente operazione militare anti-curda, senza destare alcun clamore. Ma non basta.

Erdogan vuole ora ottenere anche gli aerei ultramoderni F-16 dagli Stati Uniti, per dimostrare che, in campo militare, è un campione: se non può riempire gli stomaci, deve almeno riuscire a gonfiare i petti dei turchi di patrio orgoglio: orgoglio già peraltro ben alimentato dall’acquisto dei missili russi S-400 nel 2017. Un affare miliardario che non piacque evidentemente a Washington, che poi tuttavia apprezzò la vendita a Kiev dei droni Made in Turkey.

Su questa strada – quantomeno perigliosa -, che dovrebbe portare gli F-16 ad Ankara, questa ha incontrato il “no” secco della Grecia, Paese Nato, ovviamente. Cosa farà dunque ora Washington, restia ad armare l’uomo forte di Ankara ma bisognosa di sbloccare la questione dell’adesione alla Nato di Finlandia e Svezia in chiave antirussa? Sullo sfondo, infatti, c’è il rapporto con Putin, col quale Erdogan continua ambiguamente a relazionarsi, proponendosi persino nel ruolo di mediatore affidabile del conflitto in Ucraina.

Le preoccupazioni di Erdogan non sembrano fermarsi al giorno in cui i turchi avranno eletto il loro nuovo Presidente della Repubblica. Vanno evidentemente oltre: c’è voce – attendibilmente suffragata da documenti contabili – che attesta ingenti trasferimenti di capitali all’estero; si parla di centinaia di milioni di dollari che società legate al Presidente e ai suoi familiari starebbero portando fuori dai patri suoli, per preparare la fuga se il voto dovesse andare male.

Il leader dell’opposizione parlamentare, possibile candidato presidenziale contro Erdogan, lo ha detto chiaramente. È un’accusa per ora indimostrabile. Certo è che c’è un Paese in cui milioni di persone vivono con l’acqua alla gola e oltre. In queste condizioni, la partita che sta giocando Erdogan è più che politica: è esistenziale. E quando le partite diventano esistenziali, si è disposti a tutto.

L’intreccio delle trattative – vere, nascoste e presunte – è più ampio di quel che si narra. Il futuro potrà riservare sorprese. Quanto amaramente sorprendenti? Difficile dirlo, ma ricordo che solo due anni fa, quando ancora Erdogan si atteggiava a Sultano, ha fatto di Santa Sofia una moschea, non più un museo. Da allora è controllata dal ministero del culto. Pochi giorni fa il portone è stato vandalizzato da ignoti.

L’episodio ha determinato un intervento straordinario che ha evidenziato lo stato di abbandono in cui versa oggi l’immensa Santa Sofia. Quel simbolo universale che doveva servire a proiettare l’immagine mondiale della nuova leadership sultanale di Erdogan non interessa più: quel progetto è stato abbandonato. I tecnici che si prendevano cura di questo tesoro dell’arte e della spiritualità lavorano ora per altri ministeri. Secondo alcuni esperti, di questo passo, la cupola potrebbe crollare alla prima alba del 2050.

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