Mercato unico africano

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L’anno che si chiude in Africa è stato l’anno del sessantesimo anniversario delle indipendenze africane. Il 1960 non è solo l’anno delle indipendenze, dell’accesso delle nazioni africane alla sovranità internazionale.

Per l’Africa e gli africani è l’anno del “sole dell’indipendenza”, la fine dei secoli di ciò che il pensiero panafricano chiama “umiliazione”, quando, come diceva Lumumba, “abbiamo conosciuto i dileggi, gli insulti, i colpi subiti mattina e pomeriggio perché eravamo negri”.

L’indipendenza è soprattutto questo. L’uscita dalla “lunga notte coloniale” durata secoli quando – prima con la schiavitù e dopo con la colonizzazione – gli africani hanno smesso di vivere da se’ e per se’ per vivere secondo gli altri e per gli altri.

Sessant’anni di indipendenza

A lungo preparata dalle lotte di liberazione più o meno violente, l’ora dell’Africa scocca nel 1960 quando, una dopo l’altra, le nazioni africane conquistarono l’indipendenza dalle potenze coloniali ed ebbero accesso alla soggettività internazionale. Questo ingresso solenne nell’arena delle nazioni libere ha rappresentato una svola epocale nella storia del multilateralismo scaturito dalla Carta fondativa delle Nazioni Unite.

È dunque tempo di bilanci per le nazioni africane indipendente anche se la crisi dovuta all’emergenza Covid-19 ha impedito molte celebrazioni ma soprattutto una presa di coscienza collettiva sui cammini di liberta intrapresi con successo, falliti per colpa degli stessi africani, oppure bloccati dalle logiche della guerra fredda e dal neocolonialismo ha fatto rientrare dalla finestra le logiche del dominio e della predazione che le indipendenze formali avevano espulso dalla porta.

Per alcuni le indipendenze sono state un totale fallimento, un sogno trasformato in incubo determinato: dai fallimenti della costruzione dello stato-nazione; dal disastro di modelli economici fotocopiati da fuori, inadeguati a cancellare l’economia di  predazione delle risorse naturali attuati da secoli ed incapaci di assicurare la soddisfazione dei bisogni essenziali della popolazione; dall’instabilità politica e dalla violenza endemica che attraversa tutte le società africane a diversi livelli della vita sociale.

Per altri, le indipendenze sono solo il punto di partenza, un lungo processo per trasformare in realtà l’anelito di libertà e di autodeterminazione. “Non siamo liberi, diceva Mandela, abbiamo solo conquistato la facoltà di essere liberi”.

Economie locali

E in mezzo sta lo spazio per le donne e gli uomini del continente di partorire cammini di emancipazione rispetto alle logiche condizionanti della globalizzazione; cammini di innovazione capaci di abbandonare il mimetismo costituzionale ed istituzionale per inventare forme inedite di partecipazione politica adeguate alla struttura sociologica ed antropologica delle società africane; cammini di speranza per inventare modi nuovi di produrre e riprodurre la ricchezza attingendo alla vivace creatività dell’economia vernacolare africana che ci insegna che è possibile immettere nell’economia valori che l’idolatria del profitto ha espulso con supponenza e violenza.

L’economia vernacolare nelle periferie abbandonate e nelle aree rurali parlano di territori e comunità tutt’altro che rassegnate. Essa è la cattedra dei poveri che, nella loro disperazione, inventano forme nuove di economia (oikos nomos) con al centro i valori della reciprocità, dell’inclusione sociale e della comunione con l’ambiente.

Quest’ultima non è una visione utopistica che nasconde la povertà, i conflitti, la destabilizzante implosione degli Stati-nazione. È una visione afro-realista che rifiuta di considerare le realtà del continente attraverso il prisma ridotto delle statistiche ufficiali. È una visione che guarda il continente dai luoghi concreti del suo calvario quotidiano per la sopravvivenza (dentro un campo profugo, in un quartiere povero delle grandi megalopoli, nei villaggi assillati dai cambiamenti climatici); e dentro questi luoghi scorge l’Africa della resistenza e dell’innovazione.

La pietra rigettata dai costruttori, dai pianificatori della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, dagli “sviluppatori di professione” della cooperazione bilaterale e multilaterale, questa pietra è diventata (è sempre stata per la realtà) pietra d’angolo. Resistenza ed innovazione delle afriche dimenticate che sono l’ossatura di un continente definito una “pentola che bolle” dal sociologo camerunese Jean Marc Ela.

La “pentola africana che bolle” non chiede “aiuti”, non aspetta ricette miracolose preparate nelle stanze climatizzate di esperti filantropi. Le afriche dell’effervescenza creativa chiede, anzi esige di essere riconosciute, valorizzate e definitivamente considerate come soggetti attivi del proprio sviluppo. I nuclei di resistenza e d’’innovazione dentro le viscere del continente ci chiamano a riscoprire la valenza duale del concetto e della pratica della cooperazione che significa rompere la logica secondo la quale la mano che dà sta sempre e comunque sopra quella che riceve.

Quei nuclei ci chiamano alla reciprocità, alla necessità di concepire la cooperazione come una complessa operazione di restituzione dell’Africa a se stessa, ai suoi figli che siano finalmente speranza per loro stessi.

Liberazione e appropriazione del proprio destino

Ma la cooperazione da solo non basta essendo sempre e comunque un fattore esterno. Ciò che davvero serve al continente africano è una sana e buona politica. Le afriche si salveranno se sapranno rompere la doppia solitudine dei popoli del continente. Popoli soli dinanzi ai meccanismi della geopolitica e di fronte ai meccanismi dell’economia mondiale (la globalizzazione economica senza politica ne etica); ma soprattutto popoli soli di fronte ai loro dirigenti politici che si sono accontentati di essere intermediari d’affari tra i territori africani e gli interessi internazionali.

Le afriche hanno bisogno di politici che siano lievito dentro la pasta, ossia in grado in sapere leggere le aspirazioni profonde dei loro popoli e di tradurli in progetti politici innovativi, inclusivi, inculturati e fecondi.

La ricorrenza delle indipendenze aprono per il 2021 e per i decenni successivi  dei cantieri esaltanti per i popoli del continente africano. Il primo di questo cantiere è la realizzazione della zona di libero scambio africano (AfCFTA), un sogno panafricano che intende superare gli spazi angusti dei confini tracciati arbitrariamente dalla Conferenza di Berlino (1885).

  • Ripreso da Focus on Africa, nel quadro della collaborazione con SettimanaNews.
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