Notizie dai Balcani

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Intervista a Daniele Bombardi, coordinatore dei progetti di Caritas Italiana nell’area balcanica.

  • Daniele, come è iniziata la “rotta balcanica”?

La rotta balcanica è assurta alle cronache – come tale – nel 2015, col primo flusso significativo di profughi, all’epoca soprattutto siriani, diretti verso l’Europa. La stima è che, in quegli anni (2015-16), quasi un milione di persone l’abbia percorsa e sia riuscito a raggiungere l’Unione Europea.

Successivamente, gli accordi presi dalla U.E. con la Turchia e le chiusure dei paesi balcanici, hanno reso la rotta sempre più difficile e dolorosa per chi tenta di percorrerla. Ma il flusso dei profughi non si è mai arrestato: le devastazioni da lasciare alle spalle e i desideri di costruire altrove una nuova vita – per sé e per i figli – ha continuato a muovere centinaia di migliaia di persone.

Lo snodo e il punto di partenza della rotta balcanica è, di fatto, ancora la Turchia. Ricordo che la Turchia, in qualche modo, ospita 4 milioni di profughi di cui 3 milioni e mezzo di provenienza dalla Siria. La Turchia – nel bene e nel male – ha conferito uno status speciale ai profughi siriani: li ha collocati nelle cosiddette “città satellite”, città – ossia immensi campi profughi – che non esistevano prima, distanti dalle altre città del paese.

Nelle città satellite sono garantiti ai profughi gli essenziali diritti di assistenza sociale e sanitaria, ma in stato di permanente, passiva, attesa. Chi lascia questi luoghi, del tutto artificiali per la vita, perde tali diritti.

La scelta drammatica a cui questi milioni di persone si trovano, da anni, di fronte è, pertanto, tra il restare, con qualche diritto ma senza futuro, o l’andare a tentare una sorte sicuramente avversa. Facile immaginare poi quali effetti collaterali di illegalità e di sfruttamento si siano sviluppati attorno e dentro i campi turchi in questa condizione.

È dunque del tutto comprensibile, nel lungo periodo, come molti abbiano deciso e decidano di partire, ovvero letteralmente di incamminarsi rischiando la vita. Due sono sostanzialmente le possibilità: andare verso il confine terrestre a nord della Turchia, oppure raggiungere il mare Egeo ed imbarcarsi per raggiungere le isole greche più prossime: Lesbo, piuttosto di Samos.

La Grecia è già – evidentemente – il primo paese di approdo nell’Unione Europea. In teoria i profughi che riescono a raggiungerla dovrebbero poter beneficiare delle tutele delle leggi europee. In realtà così non avviene. Contare su garanzie e possibilità di ricollocamento nei paesi europei – quali la Germania, l’Austria o la Francia (i più agognati) – fa solo perdere del tempo prezioso. Se questo è vero per siriani – che avrebbero tutte le condizioni per essere riconosciuti come profughi provenienti da aree di guerra- figuriamoci per altri: pakistani, afgani, iraniani, iraqeni, nord-africani…

I migranti ormai lo sanno. Perciò dalla Grecia ripartono numerosi addentrandosi nei Balcani, un’area geografica, tutto sommato piccola, ma piena di confini, tra Bulgaria, Macedonia, Albania, Serbia, sino in Bosnia Herzegozina. Ogni attraversamento di confine, ovviamente, costituisce un nuovo ostacolo da superare e altri soldi da sborsare ai trafficanti.

  • Cosa sta accadendo ora nei paesi balcanici e in Bosnia in particolare?

Nei paesi balcanici le situazioni che i profughi possono incontrare sono diversificate. Ogni paese è accomunato all’altro dal tremendo gioco di passare il fuoco acceso tra le mani, ossia dall’urgenza di far transitare i profughi nel minor tempo e prestando la minore assistenza.

Questo funziona sino al “collo di imbuto” della rotta, ossia sino in Bosnia Herzegovina. Da lì si passa – o non si passa – in Croazia, quindi di nuovo in Unione Europea. Quel confine – come è ben noto – è blindato. È molto difficile passare. La polizia è mobilitata ed è molto dura.

Così, questo fragilissimo paese, si ritrova con un problema più grande di sé in fatto di gestione di un ingente flusso migratorio. Almeno dal 2018, ogni anno, d’inverno, normalmente a – 10°, sotto la neve, la Bosnia si ritrova in una emergenza acutissima, costituita da migliaia di persone impegnate a sopravvivere cercando riparo in edifici abbandonati. La vita stessa delle persone – dopo mille tribolazioni – viene di nuovo messa qui a repentaglio.

Sapete bene quello che è avvenuto in questo inverno, in particolare a Lipa, una località su di un altopiano montano: più di mille persone – soli uomini – sono state abbandonate a sé, nel cuore dell’inverno, prive di acqua, corrente elettrica e – dopo l’incendio prodotto dalla esasperazione – senza neppure il riparo estemporaneo delle tende dell’esercito.

  • Ora come va a Lipa? Cosa può fare la rete Caritas?

Ora la situazione è, parzialmente, migliorata. Il campo è passato interamente alla gestione dello stato e delle autorità locali bosniache. L’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (IOM), da 3 anni gestore dei 5 campi del paese – dopo il caso grave dell’inverno – ha responsabilizzato il governo: si limita pertanto a fornire supporto economico e consulenza. Se da una parte ciò ha un effetto positivo appunto di responsabilizzazione locale, dall’altra coinvolge gli interventi con carattere di urgenza nella lentezza politica tipica di questo paese.

Ciò ha determinato Caritas Italiana, con Ipsia e con la rete delle Caritas diocesane al sostegno, ad intervenire massicciamente anche a livello logistico: abbiamo sistemato la strada per arrivare al campo con i mezzi pesanti e con il rifornimento d’acqua potabile, abbiamo spianato il terreno del campo e installato la tendostruttura del refettorio insieme a quella dell’isolamento e della cura degli affetti da scabbia.

Abbiamo avuto quindi la facoltà di intervenire sulle emergenze più acute. Stiamo supportando con kits di igiene personale, col cibo e gli abiti pesanti, con la legna per il riscaldamento. In altri campi – in cui si trovano intere famiglie con bambini – stiamo intervenendo anche con l’assistenza psico-sociale. Resta ovviamente ancora molto da fare. Ringraziamo tutte le comunità italiane che stanno orientando le collette della Quaresima a sostegno dei progetti.

  • Puoi raccontare una storia della rotta che tu hai incrociato e che ritieni particolarmente significativa?

Racconto in breve la storia emblematica di una famiglia siriana. La madre si trova ora in Germania, a Berlino. È stata una delle prime a percorrere la rotta, in tempi in cui era un po’ più facile. La famiglia, come spesso avviene, aveva deciso di mandare lei, la persona in quel momento più dotata di facoltà di successo nell’impresa di raggiungere l’Europa, di regolarizzarsi e di trovare un lavoro. Così è stato. Ora, appunto, lavora ed ha un alloggio a Berlino.

Ma il resto della famiglia – il marito coi 3 figli – dopo 2 anni e mezzo, è fermo a Sarajevo, dopo aver tentato ripetutamente il passaggio verso la Croazia, aver sperimentato il duro respingimento e aver tentato la via regolare del ricongiungimento famigliare, presentando tutti i documenti faticosamente conseguiti dalla Siria e consegnati all’ambasciata tedesca in Bosnia.

Nel mentre il padre non può lavorare e i bambini (che pure sono iscritti alla scuola) hanno mille difficoltà e stanno perdendo le abilità conseguite. Questa storia – mi pare – la dica lunga su quanto sia, in ogni caso, impervio e carico di sofferenze il percorso della rotta balcanica.

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