Nuove guerre

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Sarajevo

Sarajevo

Le guerre cambiano rapidamente. Ma molti – nella discussione pubblica – usano gli stilemi della guerra di resistenza per sostenere chi viene aggredito o il precedente dell’invasione americana dell’Iraq per relativizzare le responsabilità di chi invade.

Ma le guerre sono cambiate profondamente. Gli Stati Uniti si sono ritirati da molti conflitti mediorientali, ma Russia, Libia, Siria, Iran, Arabia Saudita, Turchia, molti Stati africani, Francia (in Africa) stanno combattendo utilizzando direttamente gruppi che ricorrono ai metodi propri del “terrorismo” – piuttosto che quelli degli eserciti regolari -, dando parvenza di minimizzare i traumi a cui sottopongono intere comunità o riducendo le responsabilità della grande politica. Intanto abbondano armi chimiche, decapitazioni, eserciti di mercenari, assedi medievali, sequestri e deportazioni di massa, città annichilite: perché così, di fatto, funzionano le guerre del terzo millennio, oggi.

Trasformazione delle guerre

Ciò non avviene, penso, per accresciuta crudeltà delle parti. È piuttosto l’epoca del trionfo del potere dei servizi segreti e delle nuove élites politico-militari, capaci di spacciare per vere realtà quelle capovolte, o creare mostri indispensabili, come quando Hitler favorì l’incendio del Reichstag per incolparne gli avversari.

Nell’Ottocento le grandi battaglie – quali Magenta, Austerlitz o Waterloo – si svolgevano lontano dai centri abitati. Dalla II Guerra Mondiale non è stato più così. In questi termini, nessuno può negare che gli Stati Uniti abbiano svolto un ruolo fondamentale nel processo di trasformazione dei conflitti, ormai costruiti sulla distruzione e il terrore: l’uso della bomba atomica in Giappone, del napalm in Vietnam e dell’uranio impoverito in Iraq, stanno a testimoniare.

Mi sembra evidente che il problema è sentirsi sicuri di ciò che si ascolta, si vede e si legge. Ci si trova, infatti, facilmente trascinati in dinamiche tanto superate quanto manichee: “vittime contro carnefici”, “buoni contro cattivi” e via di questo passo. Certamente esistono torti e ragioni, ma le vittime non sono sempre buone, eroiche, innocenti. E poi, come potrebbero oggi i “buoni” restare immuni dall’uso dei “cattivi” sistemi?

Nelle nuove guerre si percepiscono spesso complicità inconfessabili, intrecci globali di malavite, trafficanti di armi, di droga e di esseri umani. Se non si prende atto di tutto questo marciume, ci si può trovare a coprire i grandi poteri dell’oggi, intrappolati nelle categorie del passato. Con queste guerre non si può ragionare come nel Novecento, sebbene il cuore non cessi di battere, e fatalmente batta più da una parte che dall’altra.

Guerre e società

Più le guerre divengono feroci, più trasformano le società coinvolte, perché creano nuove narrazioni e nuove cerchie di ultra-ricchi. Le storie dei popoli costruivano una psicologia collettiva, e questa emergeva nei conflitti.

È ancora così. Ma ora i nuovi poteri usano l’odio, i traffici e il terrore non solo in relazione ad interessi e territori più o meno circoscritti, bensì in ragione di ideologie fanatiche al servizio di élites miliardarie, operanti su scala mondiale, che facilmente usano anche le religioni per legittimarsi.

Porto qui qualche ricordo – da giornalista – sperando possa giovare alla ricostruzione della enormità del cambiamento.

La guerra libanese – quella che cominciò nel 1975 e si protrasse fino alla fine degli anni Ottanta/inizi Novanta – ha contenuto in sé tante guerre: la principale è stata la trasformazione di un conflitto territoriale in un conflitto religioso che interessava all’ Iran. L’ho vista nella sua “coda” quella guerra.

Ho cominciato a capirla quando mi sono chiesto perché il centro di Beirut fosse polverizzato, mentre i quartieri limitrofi erano in piedi. Almeno una parte di quel conflitto, dunque, è stata volutamente rivolta contro il centro di Beirut e il suo stile architettonico, intenzionalmente promiscuo. I falangisti cristiani lo volevano solo “occidentale”, ieri: oggi gli Hezbollah sciiti lo vorrebbero solo “orientale”.

Beirut anni ’90

Ricordo benissimo quella sera in cui mi sono trovato davanti alla “resistenza della cultura borghese”. Cerco di spiegarmi. Erano gli anni Novanta quando giunsi a Beirut. Una sera, appunto, ero ad Hamra, il cuore del cosiddetto versante musulmano di Beirut.

Camminare di sera, senza illuminazione stradale, era complicato: le persone sembravano ombre, le strade erano piene di pozzanghere sulla cui natura era meglio non indagare. Una donna, velata, varcò un portoncino: scoprii che lì c’era un negozio. Entrai anch’io: la vidi chiedere senza esitazioni una bottiglietta di Chanel n.5. Ho vissuto quei minuti come un momento di rivelazione della rivoluzione borghese del Libano.

Chanel – simbolo francese per eccellenza della Francia prediletta dai cristiani maroniti – era la scelta borghese di una donna musulmana, sicura di quel che faceva, quindi cosmopolita, quindi libanese nel senso profondo di una identità condivisa nelle diversità. Forse non amava le truppe francesi, ma quel Chanel lo chiese a voce alta, in un emporio affollato da musulmani.

Sempre a Beirut, città allora senza telefoni, alcuni libanesi presero i cavi delle linee telefoniche di Cipro e, con un’operazione sottomarina, li portarono in città, con le prolunghe: con pochi dollari fu possibile chiamare ovunque nel mondo da cabine create allo scopo.

Con questi ricordi ben fissi, mi sono convinto che il sistema tribale del tiranno siriano Bashar al-Assad abbia continuato a combattere la cultura borghese e cosmopolita di Beirut, anche dopo la fine della guerra. Oggi, infatti, la borghesia libanese è scomparsa.

Baghdad-Belgrado

Mi servì tempo per capire poi che in Iraq stava accadendo la stessa cosa, in termini persino più gravi. Vi resisteva, un poco, la vecchia élite, colta e di gran qualità, ma la borghesia mi sembrava ormai svanita, dopo un ventennio della cura infernale del satrapo Saddam.

All’inizio del nuovo millennio, a Baghdad, i negozi delle grandi firme c’erano, ma solo in un noto quartiere periferico, quello in cui viveva parte dell’élite, un po’ di alta burocrazia e i tanti arricchitisi con i contrabbandi di regime. A Beirut invece i negozi di stampo occidentale si trovavano in tanti quartieri.

Pure a Belgrado, nei terribili anni di Milosevic, c’era una vera, preparatissima borghesia, europeista e nemica giurata del regime che voleva creare la Grande Serbia, a tutti i costi. Quella borghesia non credeva al mito nazionalista, parlava volentieri francese, pensava all’Europa. Ha vinto? No, ma ha sfidato Milosevic, senza aiuti dall’estero.

Cos’altro c’era se non la stessa forza rivoluzionaria nella donna che, dal sedile posteriore di un’auto saudita, aveva deciso di voltarsi verso di me, abbassare il velo che le copriva la bocca e sorridermi per un solo momento, prima che le rispettive auto si allontanassero? Ho pensato: «Paese che vai, resistenza che trovi!».

Sebbene poco ci si creda, ho visto le borghesie saper sfidare – almeno in parte – le verità etniche e confessionali della guerra che vuole fare dell’altro il nemico assoluto.

Cultura contadina

Ho visto scendere in campo, peraltro, anche la cultura contadina. Mi ha sorpreso, dallo stesso punto di vista, l’alterità culturale contadina, forse la più atavica. Nel deserto iracheno, nel 1990, un plotone dell’esercito di Saddam uscì dal nulla per arrendersi nelle braccia del collega del Tg3, Filippo Landi: e ciò prima ancora che la guerra per liberare il Kuwait fosse cominciata: erano soldati ed erano tutti vestiti di stracci.

Una diserzione – così davvero popolare – da una guerra che apparteneva al regime, l’ha potuta raccontare solo Landi. Quando incontrai il collega – che mi mostrò il filmato – provai una grande ammirazione per quel gruppo di contadini, improvvisati guerrieri, per la forza rivoluzionaria del loro gesto solo apparentemente senza coraggio, se non quello di indicare che il loro re era nudo. Forza contadina!

Le guerre imposte da ideologie perverse odiano i loro stessi popoli, usati e gettati. Ma il loro punto di vista poco o per nulla, però, tuttora ci interessa. La guerra, dunque, cambia e trasforma le società, con i soldi, l’odio e le ideologie. Eppure, il racconto   degli inviati rimane prioritariamente un racconto di “trincee”, di questi o di quelli, degli uni contro gli altri armati.

A occhi aperti

Ma certo, è importante distinguere e sostenere la guerra difensiva da quella offensiva: nei comportamenti, nei valori, nei metodi. È qui che la nonviolenza può diventare un prezioso alleato di chi “resiste”. Chi combatte la mafia raramente riserva ai mafiosi gli stessi trattamenti da loro applicati alle loro vittime. Se lo dimentichiamo, la disumanizzazione dilaga.

Faccio allora un ultimo esempio. Un giorno volevo raggiungere il cosiddetto versante serbo di Sarajevo, arrivando da Belgrado. La “Sarajevo serba” ha un suo nome che non ricordo: è un agglomerato di case abbastanza lontano da Sarajevo città. Partii e fu un viaggio lungo, in un paesaggio agreste, tra covoni di fieno e contadini al lavoro. Improvvisamente mi apparve una casa bucata al suo centro da una cannonata: evidentemente ci doveva abitare una famiglia dell’etnia “sbagliata”.

Superata la fittizia capitale serbo bosniaca di Pale, imboccai la strada che conduce sul monte Igman, che sovrasta Sarajevo: dal suo fianco i cetnici – i miliziani serbi – tenevano sotto assedio la città. Uno di loro mi ha invitato alla sua postazione e mi ha “offerto” la “ghiotta” possibilità di sparare un colpo di mortaio su Sarajevo. Mi guardava ridendo, felice di offrire allo straniero un simile privilegio. Sono tornato in macchina col cuore in tumulto. Tanti discorsi sulla NATO, sugli errori o sugli orrori degli americani mi sono spariti dalla testa.

Non dimenticherò mai lo sguardo di quel cetnico che mi ha inviato a lanciare un colpo di mortaio su Sarajevo: per certi versi, mi ha aperto gli occhi, “per sempre”, sugli ideologismi. Proprio quello sguardo mi ha riportato in me stesso, quasi legandomi a quelle piccole sagome nere – umane – che vedevo, da lontano, muoversi in quella città: per vivere, per sopravvivere.  Non ero forse chiamato a custodire il loro diritto di difesa? Parlarne voleva dire anche aiutarli a non odiare nello stesso modo.

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