Senegal: un racconto/2

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Un’amica delle comunità dehoniane di Bologna e Modena si trova per alcuni mesi in Senegal per compiere delle ricerche legate alla sua tesi magistrale di specialistica. Le abbiamo chiesto di mandarci, di tanto in tanto, delle «impressioni di viaggio» da condividere con i lettori e le lettrici di SettimanaNews. La scoperta di un’alterità culturale, nella quale ci si trova immersi dovendo imparare a comprenderla e rispettarla, vista con gli occhi di una giovane giunta verso il termine dei suoi studi universitari. Ci è sembrata una forma di collaborazione significativa, sia per lo sguardo che ci permette di gettare su un pezzettino di Africa, sia per il fatto che chi scrive è una di quelle giovani che, come comunità ecclesiale, facciamo fatica a raggiungere o non intercettiamo addirittura più.

Verso metà ottobre Dakar si è fermata per una settimana in occasione del Grand Magal di Touba. Il termine Magal significa in wolof “celebrare, rendere omaggio” e designa il più grande pellegrinaggio annuale che i fedeli della confraternita musulmana dei Murid organizzano per arrivare a Touba, loro città sacra.

Grand Magal di Touba

Alcuni amici che fanno parte di questa confraternita ci hanno detto che il termine Murid – colui che ha grandi aspirazioni – rinvia a un senso di ricerca spirituale incessante che anima il fedele lungo tutta la sua esistenza.

Senegal, un racconto

Cheikh Amadou Bamba

Durante questa settimana di preghiere, i Murid incontrano i Marabout, messaggeri della parola di Dio, e rendono omaggio a Cheikh Amadou Bamba, fondatore della confraternita e della città sacra di Touba.

Sembra che la predicazione spirituale e non violenta di questo poeta e religioso, fu interpretata dalle autorità francesi come resistenza alla colonizzazione e per questo motivo alla fine del XIX secolo venne perseguitato ed esiliato a più riprese.

I Murid sono profondamente legati alla figura di Cheikh Amadou Bamba e la sua unica immagine si trova esposta su muri, luoghi pubblici e mezzi di trasporto.

Villaggio di Ngor

Le mie compagne di viaggio e io abbiamo approfittato di questo vuoto in città per andare a visitare il villaggio di Ngor, sulla costa nord di Dakar, e l’omonima isola situata a 500 metri dalla costa. Arrivate sulla spiaggia ci viene incontro un signore senegalese, alto e sorridente. Ci scambiamo le poche parole wolof che conosciamo e lui si propone di farci da guida nel villaggio. Il villaggio di Ngor è abitato dai Lebou, popolo di pescatori imparentato con gli wolof.

Nel porto veniamo accolte dall’eccezionale presenza di numerose piroghe che, abbandonate sulla spiaggia, danno un affascinante tocco di colori a un paesaggio che già di per sé è particolarmente pittoresco.

Senegal un racconto

Normalmente, è quasi impossibile trovare le piroghe sulla spiaggia in tarda mattinata perché solitamente accompagnano i pescatori nelle loro lunghe giornate in mare, ma con il Grand Magal moltissimi pescatori si sono recati a Touba, svuotando il paese e concedendo alle loro imbarcazioni una giornata di riposo.

La pesca rappresenta l’attività centrale nella vita dell’etnia Lebou, attorno alla quale gravitano anche eventi importanti come i matrimoni. Nel caso di un matrimonio, infatti, è proprio una piroga che la famiglia della sposa regala allo sposo. Al marito spetta la scelta del nome che verrà dato alla piroga mentre la moglie ne sceglie i colori e i motivi.

In mezzo al tripudio di decorazioni colorate delle imbarcazioni, la presenza di una piroga spoglia e rovesciata ci suggerisce che il villaggio ha da poco festeggiato un matrimonio.

Il porto vecchio da accesso al villaggio di Ngor, che si presenta come un labirinto di stradine in pietra bianca così strette da impedire l’accesso al forte inquinamento che caratterizza le strade trafficate di Dakar.

Senegal un racconto

Place à palabre

Ngor è diretta da un capo del villaggio e una ventina di consiglieri spirituali che si riuniscono settimanalmente nella place à palabre – la piazza della parola – situata nel centro.

Il suono di uno strumento nella piazza convoca gli abitanti del villaggio per le riunioni e a seconda del ritmo i cittadini riconoscono il motivo della chiamata. La presenza di alcuni alberi sacri per i Lebou lascia pensare che questa etnia sia particolarmente legata al culto della natura, presente nelle occasioni importanti della loro vita. Grande protagonista del villaggio di Ngor è infatti un grande baobab di 600 anni. Davanti a questo albero sacro si possono esprimere due desideri, uno per sé e uno per altre persone, consacrati dal lancio di un rametto che deve colpire l’albero. Anche Gérard Depardieu è venuto a visitare il villaggio di Ngor e il baobab Ioré. Dopo aver lanciato il suo rametto dei desideri non riuscì ad attraversare lo stretto passaggio per continuare la visita del villaggio; da allora i Lebou di Ngor chiamano questa porta “passaggio Depardieu”.

L’isola di Ngor

Alla fine della visita, il gentile Samba ci ha invitato a fare una donazione per comprare un sacco di riso in sostegno della comunità di Ngor. Sono stati Dam e Ser due ragazzi conosciuti sull’isola di Ngor che ci hanno aperto gli occhi sulla fregatura. I due Lebou originari di Ngor ci hanno svelato, non senza le dovute prese in giro, che nessun sacco di riso viene comprato per la comunità con le offerte dei turisti.

Questa lezione ci ha anche fatto rendere conto del fatto che qui siamo ancora delle turiste, in wolof toubab o khonkou nop espressione più evocativa che si traduce letteralmente “orecchie rosse”. Nelle settimane successive, dopo aver imparato qualche frase in più di wolof, abbiamo notato che parlare la lingua locale, anche se in modo molto semplice ed estremamente ridotto, ha un rapporto di causa ed effetto nel processo della negoziazione. In queste situazioni, infatti, commercianti e taxisti propongono un prezzo di partenza notevolmente più basso se ci si approccia a loro parlando la loro lingua e se si mostra di conoscere abbastanza bene la città.

Abbiamo passato una giornata molto piacevole in compagnia dei due nuovi amici che non hanno esitato a offrirci l’ataya, il buon tè senegalese, e i frutti dell’isola. Ci hanno inoltre introdotte alla lunga e complessa preparazione dell’ataya che prevede tre fasi; si dice che il primo ataya sia amaro come la morte, il secondo dolce come la vita e il terzo zuccherato come l’amore.

Senegal un racconto

La piccola isola di Ngor presenta una vegetazione molto rigogliosa e a fine giornata diventa il palcoscenico di tramonti mozzafiato che si riflettono sul mare. Le acque dell’isola sono il territorio di esperti surfisti che ogni giorno si divertono a sfidare la potenza di quelle onde altissime. Per gli apprendisti, hanno anche creato un surf camp che ho cominciato a frequentare per dare seguito alla breve ma divertente esperienza di surf fatta con mia sorella la scorsa estate.

Inizio dei corsi vita quotidiana

Dopo queste belle esperienze vacanziere sono cominciati i corsi all’università e con essi l’inizio della routine quotidiana. I corsi previsti dall’equivalente del master MITRA (MIgrazioni TRAnsnazionali) di Dakar sono molto appassionanti e sono centrati su studi geografici delle frontiere e il loro processo di costruzione, della risoluzione dei conflitti legati all’imposizione di confini e al legame tra migrazione e sviluppo.

Questi diversi temi sono affrontati in riferimento al contesto specifico del Senegal e dell’Africa occidentale, cosa che dà un tocco di interesse in più alle lezioni su temi di per sé appassionanti.

L’università si trova a soli 30 minuti di cammino da casa, durante i quali ho cominciato a interrogarmi sul mio rapporto con il concetto di “strada” e la differenza rispetto a quello che sembra che abbiano i senegalesi. Finora le strade rappresentavano per me dei non-luoghi, uno spazio di passaggio per arrivare al mio obiettivo. Per quanto ho percepito finora, pare che qui le strade siano un vero teatro della vita quotidiana dove le persone svolgono varie attività.

Le vie di Dakar sono sempre brulicanti di persone che esercitano i loro mestieri, bambini che giocano per la strada o anziani che semplicemente passano del tempo all’aria aperta. Con il passare delle settimane i volti che incrociamo lungo il tragitto sono diventati sempre più familiari, e in questo modo la mezz’ora di cammino verso l’università si è trasformato in un vero e proprio rituale di saluti alle persone che incontriamo tutti i giorni negli stessi angoli del quartiere.

Così quando salutiamo il gruppo di giovani donne che vendono frutta e verdura sappiamo che mancano circa 15 minuti all’arrivo, mentre quando ci fermiamo a salutare il gruppo di signori anziani siamo già a cinque minuti da casa.

Grazie a questi piccoli momenti di convivialità siamo diventate abbastanza forti nel formulare e rispondere a domande sul come è andata la giornata, come sta la famiglia, hai dormito bene, ecc. L’evoluzione lenta ma quotidiana del nostro repertorio wolof suscita le risate soddisfatte delle numerose persone che sono direttamente coinvolte nel nostro apprendimento della lingua: amici senegalesi, conoscenti per la strada, segretarie dell’Università, assistenti del supermercato, ecc.

Anche Lamine e il più anziano signor Kanté, due simpatici portieri che sorvegliano l’edificio accanto al nostro, sono coinvolti nel nostro apprendimento del wolof e nella scoperta della cultura senegalese. Ci fermiamo spesso per scambiare due chiacchiere anche davanti a un ataya, e con i loro affettuosi appellativi “figliole mie” ci fanno sentire un po’ più in famiglia.

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