Il summit di Teheran

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In pochi giorni si è consumata in mondovisione − dal Medio Oriente − la grande competizione tra summit e leader che si detestano.

Ha esordito il presidente degli Stati Uniti dal palazzo reale di Jeddah in Arabia Saudita, ove lo attendeva il principe assassino, Mohammad bin Salman, che Biden avrebbe voluto ridurre a paria internazionale. Hanno fatto seguito in vetrina − da Teheran − i presidenti iraniano, turco e russo, in un vertice da «fratelli coltelli».

Timori e debolezze di Erdogan

Se molti hanno notato che Joe Biden è stato ricevuto a Jeddah con gli onori che si riservano ai sottosegretari agli esteri dei Paesi in via di sviluppo, pochi hanno saputo aggiungere che non è stato un piccolo dispetto orientale l’attesa che Erdogan ha imposto a Putin, costretto a stare in anticamera, prima che il bilaterale tra il sultano e lo zar potesse iniziare a Teheran, dove i due si sono poi uniti al loro omologo iraniano, Raisi.

Dietro quell’attesa, di per sé umiliante − inflitta al russo −, c’era la preoccupazione di Erdogan di tornare a casa a mani vuote, soprattutto sulla cruciale questione siriana, alla luce della sua chiara aspirazione di annettere 30 chilometri quadrati del nord-est siriano, coi limitrofi territori iracheni, oggi in mani curde: non ha trovato infatti alcun assenso al riguardo, né poteva averlo dagli altri due.

L’accordo sul grano tra Russia e Ucraina non è dunque nato a Teheran. È semmai vero che Putin non può semplicemente permettersi di apparire indifferente alla fame dei Paesi che gli stanno dando una mano, ossia tutti quei Paesi del sud del mondo che non stanno aderendo alle sanzioni contro la Russia.

Così − appena Erdogan è tornato in patria − è scattato il cannoneggiamento di un centro vacanze nel nord iracheno, ove 9 iracheni, tutti arabi, tra cui una bambina di un anno, sono morti. Ankara ha peggiorato poi il quadro della situazione, negando le proprie palesi responsabilità. Questo sta alienando ad Erdogan persino il rapporto con Mas’ud Barzani, il leader del Kurdistan iracheno da sempre suo alleato.

Non solo: l’azione turca è stata condannata da tutto il mondo politico iracheno, consapevole che l’azione criminale può facilmente riaccendere la miccia del conflitto tra sunniti e sciiti in Iraq. Le vittime sono state appunto arabe, non curde come sinora era accaduto per effetto dei colpi dei turchi: ciò ha particolarmente eccitato la popolazione. Tutti i leader hanno conseguentemente reagito con veemenza, ben consapevoli del rischio che non farlo avrebbe comportato.

Ma non penso che Erdogan abbia reagito in tal modo all’insuccesso del summit solo per autentica irritazione, bensì per l’urgenza di mostrarsi forte − e oltremodo nazionalista − agli occhi dei suoi concittadini, quelli che tra pochi mesi decideranno se confermarlo presidente o meno.

Nervosismo a Teheran

Gli iraniani, d’altro canto, non hanno fatto concessioni perché, dopo aver speso miliardi di dollari per le loro guerre di espansione imperiale, sanno bene che il tasso di inflazione nel loro Paese supera ormai il 52%, mentre il costo medio di un affitto vale più del 70% di uno stipendio. Dunque, se non possono cambiare il quadro interno, non possono neppure concedere ad altri le macerie che hanno conquistato.

Pure gli iraniani, subito dopo il summit, sono apparsi nervosi. Lo dimostra l’incredibile vicenda occorsa a monsignor Moussa el-Hage, arcivescovo maronita di Haifa e di Gerusalemme: come previsto da accordi bilaterali in vigore da tantissimi anni, questi ha varcato il confine tra Israele e Libano con un carico di medicinali e 460mila dollari in contanti, ossia gli aiuti raccolti tra i libanesi fuggiti in Israele, da portare ai loro parenti ridotti in estrema povertà dal disastro economico libanese; questa volta però la Sicurezza Generale libanese − gestita da uomini legati ai filo-iraniani di Hezbollah − lo ha posto in stato di fermo, gli ha confiscato il denaro, i farmaci e il passaporto.

Monsignor Moussa è stato interrogato per undici ore da un agente eterodiretto da un magistrato che al telefono scandiva domande e che poi ha dettato al funzionario di sicurezza il report da inviare a Beirut, come dichiarato dallo stesso alto prelato. Il giorno successivo questi è stato sorprendentemente ricevuto dal presidente Aoun in persona, alleato strettissimo di Hezbollah.

Il patriarca maronita non ha avuto esitazioni a denunciare il fatto quale intimidazione di Hezbollah. Perché? Il patriarca sostiene infatti che il futuro presidente − maronita per legge − non può e non deve essere allineato con Teheran, bensì deve stare al servizio dell’interesse nazionale espresso dalla formula della «neutralità attiva».

Le elezioni presidenziali sono attese in Libano per ottobre: il fracasso ingenerato dal comunicato di monsignor Moussa ha quindi costretto Aoun − che vorrebbe portare suo genero alla presidenza del Libano con l’aiuto di Hezbollah − a ricevere il vescovo nel palazzo presidenziale. Aoun spera così di aver salvato l’accordo, nonostante le esuberanze di Hezbollah. Ma monsignor el-Hage ha rilanciato: «Se non mi restituiscono tutto interverrà il Vaticano!». È certo che un passo della nunziatura sul «presidente forte» del Libano − quello che dice di tutelare i cristiani libanesi − sarebbe un fatto eclatante.

Le azioni di Hezbollah vengono decise a Teheran.  Ma a Teheran, appunto, non si sentono tranquilli. Il summit per loro non è andato forse poi così male, anche se con i russi sono rimaste le divergenze sugli interessi di fondo: si tratta di Paesi che producono le stesse materie prime.

Ora Mosca vede certamente nell’Iran un Paese esperto nell’aggirare le sanzioni internazionali e gli è utile. Piuttosto, resta più profondo il contenzioso iraniano con Ankara: dalla questione delle dighe turche che assetano anche l’Iran a quella del muro che Ankara ha costruito lungo il confine comune per bloccare i profughi afghani che l’Iran spinge verso la Turchia. E sullo stesso terreno Teheran deve per forza cercare di consolidare conquiste militari per le quali ha investito cifre enormi.

La Siria di Assad

Chi non appare oggi nervoso è il presidente siriano Assad. Lo dimostra la vicenda del film cinese prodotto da Jackie Chan: questo film intende esaltare sui grandi schermi la brillantezza dell’operazione cinese che ha tratto in salvo − dallo Yemen in fiamme − molti connazionali e non solo. Il film è stato finanziato dagli Emirati Arabi Uniti. La storia richiedeva un’ambientazione adatta.

E la Siria l’ha offerta al miglior prezzo disponibile sul mercato da una location perfetta: si tratta di una vera e propria favela alle porte di Damasco, Hajar al Aswad, costruita dagli Assad negli anni successivi alla perdita del Golan per trattenere in patria − nel «miglior modo» secondo l’eufemismo − la popolazione del Golan, ma solo in attesa di «liberarla».

La storia di questa miserrima favela non è molto nota, così come la rivolta che vi è avvenuta nel 2011. Luogo di disperazione e di emarginazione da decenni, la baraccopoli è stata ripetutamente attaccata dall’esercito siriano, ma ha resistito per anni. È arrivato quindi − da chissà dove − l’ISIS, consentendo al regime di raderla al suolo nel 2018, come minuziosamente narrato da ANSA-Med.

Poiché Hajar al Aswad è ancora devastata come quattro anni fa, il regime ha concesso alla troupe cinese di girarvi le scene fondamentali della produzione, intitolata Home Operation. Poco o per nulla incline a servire i suoi cittadini, il regime di al-Assad serve, come sempre, sé stesso e, questa volta, la cinematografia cinese. La tranquillità di Bashar è la spia del fatto che né a Jeddah né a Teheran qualcuno si è preoccupato di disturbare il suo status, ormai permanente, di signore delle tenebre siriane.

Per ora, tale è il punto di contatto tra le agende dei due summit: il maggiore beneficiario − benché vittima dello sgarbo iniziale − appare dunque lo zar di Mosca, più del sultano turco o del persiano di Teheran.

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