Tunisia: anche un conflitto tra gli islam

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Che paese è la Tunisia? È un piccolo Paese sull’orlo del default economico che potrebbe resistere solo sino a fine agosto o è quel grande Paese che ha promulgato il codice dello statuto personale che sancisce l’emancipazione femminile, avviato la primavera araba cacciando Ben Ali e ottenuto il Nobel conferito al popolo tunisino?

È il Paese dei tanti jihadisti ovvero la patria di chi, seguendo l’auto-immolatosi venditore ambulante Muhammad Bouazizi, ha avviato la sfida ai regimi più longevi del mondo, laico-arabisti e islamisti?

Una storia che si ripete

Se questa, tra gravi malattie sociali e opposizioni radicali, è la vera storia della Tunisia – una storia che viene “dal basso” – allora la storia “dall’alto” sembra ripetersi, come le sue interpretazioni. Nelle valutazioni politiche “alte”, infatti, la medicina necessaria appare sempre la stessa.

Quando, nel 1990, il Fronte Islamico di Salvezza vinse le elezioni politiche in Algeria, l’amara medicina somministrata fu il golpe, unica via individuata per evitare il tormento islamista. Quando in Egitto, nel 2013, il popolo sconfessò il pessimo governo dell’islamista Muhammad Morsi, la medicina necessaria fu ancora una volta la stessa: il golpe.

Quanto è accaduto in Tunisia – ove il Presidente della Repubblica ha sospeso i lavori parlamentari, imposto il coprifuoco notturno e rimosso il premier, avvicinandosi alla maggioranza parlamentare legata all’Islam politico – sembra seguire il solito cliché, introducendo tuttavia una novità: il populismo.

Il presidente Kais Saied non è un militare, non ha un partito, e non sembra volerlo: denuncia la corruzione politica – a tutti gli analisti più che evidente – in un Paese che sprofonda nell’incompetenza, negli intrighi, nella disoccupazione (40%), oltre che nell’insipienza sanitaria, posto che la Tunisia vanta il peggior rating vaccinale (7%) in tutto il continente africano e un altissimo numero di morti da Covid.

La fine del turismo – risorsa decisiva – salda la crisi sanitaria a quella economica, in un’unica crisi totale. Lo spettro del default è ormai davvero dietro l’angolo.

Verso dove va il paese?

Come, in queste condizioni, parlare di una terza repubblica tunisina, dopo quella dell’assolutismo di Ben Ali e quella nata dalla rivoluzione dei gelsomini?

Saied sembra ora voler cambiare le forme della democrazia, ripartendo dalle comunità territoriali per arrivare al centro. Ma in un Paese in crisi di rappresentanza – ove i partiti spariscono nel breve volgere di una stagione e la stessa forza politica vicina all’Islam politico, ossia Ennahda, si dice dimezzata nei consensi – la sua ricetta convince solo alcuni, perché non ha sistemi attuativi, né espressione politica concreta.

Dunque, ancora una volta, l’esercito diventa lo strumento della politica: una evidente non-novità. Se ai tempi nel 2011 l’esercitò non intervenne per salvare il dittatore Ben Ali, oggi consente il golpe bianco di Saied. La vera novità fu quella 2011 – ossia il non intervento dei militari – non quella odierna.

Nel mentre la Tunisia recupera solo attenzione internazionale – e italiana – per un’altra non-novità: i gommoni dei profughi che fuggono da un Paese che si contava avviato nella via araba a una democrazia davvero laica, cioè rispettosa dei costrutti che da sempre animano il mondo arabo, ossia l’islamismo e un certo arabismo “laico”, quasi sempre finito nelle mani di un militare.

Saied ha dunque introdotto il populismo nel confronto politico arabo? Quel che il presidente chiese al premier cacciato – Hichem Mechichi – e non ha ottenuto, è quel che ognuno vorrebbe: un governo di tecnici per salvare il Paese dal default economico e sanitario.

Ma le risposte al suo strappo istituzionale – forse mediato da altri – ci dicono già molto: accusano Saied i Paesi che hanno ormai assunto una leadership di marca della Fratellanza Musulmana: Turchia e Qatar. Approva la mossa di Saied chi combatte i Fratelli: Arabia Saudita ed Egitto.

Un conflitto intra-islamico

In nome di cosa, costoro si combattono? In nome della guida di un’area geografica a maggioranza sunnita e quindi dei grandi interessi economici in gioco.

La tenaglia straniera assorbe anche il caso Tunisia in uno schema che con la “nuova democrazia” ha nulla a che fare: il sostegno o la critica a Saied si risolve nella disputa tra i due blocchi che si contendono la leadership dell’Islam sunnita nell’intera area estesa.

Il blocco guidato da Erdogan si trova oggi – di fatto – in termini di maggiore compatibilità con l’Iran sciita, che ha l’obiettivo di sconfiggere i sauditi: può quindi convivere con chi – pur sfidandolo – gli risulta amico. Per tale ragione gli Stati Uniti guardano con cautela: Saied sembra voler promettere di arginare quei gruppi – sostenuti da Erdogan – che si aggirano nella vicina Libia. É questo che spinge verso Saied anche la Francia?

Il problema è più grave di quanto si possa pensare. La politica araba non si rinnova e così i problemi esplodono in un confronto tra “laici arabisti” e islamisti che non interpreta le reali società civili. Sotto il peso di continui e ripetuti fallimenti, in un percepito disinteresse del mondo davanti al sangue che scorre in troppi scenari, il nichilismo si sta impossessando della regione, aggravando i problemi di tutti e portando alla inesorabile radicalizzazione, termine dello scontro tra violenze e dirigismi autoritari ben poco autorevoli.

Il fattore economico

Quel che servirebbe è una nuova politica, ma ad ucciderla sul nascere è la crisi economica che distrugge i ceti medi, arricchisce i ricchi e abbandona i poveri a sé stessi. Così anche il “populismo” di Saied rischia di essere risucchiato nel dirigismo autoritario.

La linea di credito di 500 milioni di dollari di cui dispone la Casa Bianca potrebbe costituire ora il punto di partenza per un ripensamento politico. Questa forma di aiuto – sempre auspicata ma mai praticata – potrebbe incrociare pezzi del sogno populista di Saied: non susciterebbe immediatamente la democrazia, ma comunque evidenzierebbe la necessità di mettere decisamente fine alle vecchie logiche politiche.

Per un rinnovamento autentico non si può che dare credito alle risorse umane del popolo tunisino, nonostante le terribili sfide che sono di fronte. Questo popolo ha bisogno di aiuto!

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