Ucraina-Ortodossia: una fusione a freddo?

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monastero kiev

Sulla pertinenza e ambiguità delle «attenzioni» della politica di guerra verso la Chiesa filo-russa, o meglio non autocefala, dell’Ucraina ho già scritto (cf. qui su SettimanaNews).

Ai processi di colpevolizzazione ha accennato il metropolita Onufrio nella relazione annuale al sinodo il 14 dicembre. La sua Chiesa è davanti a due sfide maggiori. La prima è la guerra di invasione da parte della Russia che ha portato «alla terra ucraina e alla diocesi di Kiev la morte di persone, la distruzione di chiese, attacchi missilistici e mancanza di luce, calore e acqua». La seconda è rappresentata dagli attacchi politici alla Chiesa non autocefala col conseguente pericolo per la sua sopravvivenza e la «purezza della fede ortodossa».

Il metropolita ricorda la condanna dell’aggressione russa fin dal primo giorno di guerra, la decisione del concilio di modificare gli statuti (27 maggio) per una piena indipendenza rispetto al patriarcato di Mosca e la sua rinuncia a far parte del sinodo della Chiesa russa.

E ancora la ripetuta richiesta di colloqui per la pace e l’apertura al dialogo con la Chiesa autocefala con la sola condizione di congelare il passaggio delle comunità parrocchiali all’obbedienza di quest’ultima. Infine, il 23 novembre, la decisione di consacrare il sacro crisma a Kiev senza attenderlo da Mosca. Ricorda gli impegnativi aiuti all’esercito ucraino e agli sfollati.

Nonostante tutte le pressioni il clero, per la diocesi di Kiev, è aumentato. I chierici sono 848. I monasteri sono 22 e le parrocchie passate alla Chiesa autocefala su tutto il territorio nazionale sono poche decine sulle circa 10.000 registrate. Il portavoce della Chiesa, il vescovo Kliment, ha sottolineato che in tutte le irruzioni dei servizi di sicurezza in chiese e monasteri non sono state trovate né armi né gruppi eversivi.

Sono 33 i procedimenti penali contro altrettanti preti e si sta allungando la lista dei gerarchi colpiti dalle sanzioni. Sul fronte opposto il vescovo autocefalo Yevstratiy fa notare che i nuovi statuti della Chiesa non autocefala non sono ancora pubblici e che un paese in guerra ha diritto a tagliare le radici di ogni forma di collaborazionismo.

14 gerarchi e 33 preti nel mirino

Gli interventi dei servizi di sicurezza su istituzioni della Chiesa non autocefala sono oltre 300 e il materiale sequestrato (libri, manifesti, passaporti, registrazioni, simboli di partiti di opposizione messi fuori legge) mostra un collateralismo inquietante con le forze di occupazione.

Vi sono stati preti che hanno censurato la decisione della Chiesa autocefala di celebrare il Natale il 25 dicembre (e non il 6 gennaio) come operazione satanica. Fino a metà dicembre sono 14 i vescovi e tre ecclesiastici di rilievo ad essere sottoposti a misure punitive con il congelamento dei beni, il blocco delle transizioni finanziare e il sequestro del passaporto.

Alcuni di loro erano presenti al solenne atto di inglobamento alla Russia dei territori occupati del Donbass, altri sono fuggiti in Russia, altri hanno facilitato in qualche maniera le truppe di invasione. Uno dei censurati, il metropolita Luca di Zaporojie, ha addebitato le misure restrittiva alla mancanza di buon senso e come violazione della Costituzione e dei diritti umani. Il vescovo Nicola di Kirovograd ha protestato contro il progetto di legge regionale di interdire ogni attività alla Chiesa filo-russa.

Fine dell’autorità indipendente

Un ulteriore elemento di riflessione è motivato dalla rimozione di Olena Bogdan dall’autorità indipendente per l’etnopolitica e la libertà di coscienza. Il governo ha avocato a sé quelle competenze.

Bogdan era riuscita a convocare una assemblea del clero delle due Chiese ortodosse (5 luglio) per un confronto diretto. Il suo giudizio sulla indipendenza da Mosca della Chiesa non autocefala era stato positivo. Dal punto di vista organizzativo si doveva registrare che sia la nomina dei vescovi, sia la scelta del metropolita sia l’autonomia rispetto al concilio dei vescovi russo erano garantite.

Rimaneva un legame canonico con Mosca, ma Bogdan faceva notare che questo permetteva alla Chiesa non autocefala di restare in comunione con tutte le Chiese dell’Ortodossia, senza cadere in uno stato di totale isolamento. «Ad oggi non ho alcuna ragione di pensare che esista una dipendenza (da Mosca)».

Verso l’unità, ma come?

Il persistente e furioso attacco russo con i bombardamenti sulle strutture civili e il richiamo dei riservisti russi per un ulteriore tentativo di invasione dello stato indipendente dell’Ucraina motiva la spinta del governo a rimuovere attività religiose che non assicurino lealtà allo stato.

Zelensky ha promosso una verifica sui fondamenti legali della gestione di chiese e monasteri legati alla Chiesa filo-russa e ha proposto a tempi brevi una legislazione ecclesiastica che faccia da argine ad ogni attività russofila, nel prevedibile intento di convogliare i fedeli verso la Chiesa autocefala.

Un’operazione simile, una fusione a freddo fra le Chiese, è difficilmente raggiungibile dalle forze politiche e minaccia di legittimare non solo la resistenza, ma anche di dare fiato alla scombinata pretesa dei politici russi e del patriarca Cirillo di riconoscere all’operazione militare la pretesa della difesa del bene e dell’autentica Ortodossia contro l’Occidente immorale.

L’altra via (cf. qui su SettimanaNews) è quella di assecondare la reale spinta all’unificazione già in atto, intuita strumentalmente dal vecchio «patriarca» Filarete e con maggiore intelligenza dal centro studi Cemes di Salonicco (Grecia).

La proposta più creativa sarebbe quella della Chiesa greco-cattolica: un unico patriarcato in cui potrebbero confluire tutte le Chiese ortodosse locali e la Chiesa greco-cattolica. L’unico patriarca dovrebbe essere in comunione con Roma, prendendo distanza dall’esercizio monarchico del primato, lasciando alle Chiese ortodosse di mantenere i reciproci riferimenti canonici e spirituali.

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Un commento

  1. Giovanni Ruggeri 21 dicembre 2022

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