Vaticano – Cina: le contraddizioni e la pazienza

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legge religioni

Le norme del decreto n. 15 (Misure amministrative per il personale religioso) sono entrate in vigore il 1° maggio, ma già al loro apparire (9 febbraio) hanno fatto molto discutere.

7 capitoli e 52 articoli che, in coerenza con l’indirizzo del presidente Xi Jinping di «sinizzare» le religioni (2016), specificano comportamenti e modalità dei culti, ispirati dall’articolo 3 che impone: «Amare la madrepatria, sostenere la leadership del partito comunista cinese, sostenere il sistema socialista, rispettare la costituzione, le leggi, i regolamenti e le regole, praticare i valori fondamentali del socialismo, aderire al principio di indipendenza e autogestione della religione e aderire alla politica religiosa della Cina, mantenendo l’unità nazionale, l’unità etnica, l’armonia religiosa e la stabilità sociale».

Ma il punto più discusso è l’assenza nell’articolo 16, quando si parla dell’elezione dei vescovi, di qualsiasi riferimento all’accordo fra Cina e Vaticano, sottoscritto nel 2018 e rinnovato nel 2020. È il segno della sua irrilevanza? Un paese che ha ignorato il patto internazionale su Hong Kong sottoscritto con il Regno Unito potrebbe farlo. Esprime la volontà di procedere in modo autonomo all’elezione dei vescovi? Si sono chiesti gli informatori religiosi.

Una risposta è ipotizzata dal sito americano The Pillar che nota l’incongruenza di attendersi in una testo normativo la citazione di un accordo internazionale, non ancora compiutamente confermato. Su Avvenire (27 gennaio) E. Giunipero fa notare in positivo la responsabilità affidata alla conferenza episcopale e non all’amministrazione pubblica o all’associazione patriottica. Tutti i vescovi sono attualmente in comunione con il papa e le nomine avvenute dopo il 2018 hanno seguito l’iter previsto dall’accordo che riconosce al papa l’ultima parola.

Accordo: un bilancio aperto

L’esasperante lentezza nelle indicazioni per i nuovi vescovi (su 97 diocesi sono scoperte una quarantina) e i rigidismi amministrativi nel riconoscimento dei «sotterranei» motiva la facile accusa di inutilità, se non di contraddittorietà dell’accordo stesso.

Esso condizionerebbe troppo l’azione pastorale e la libertà della Chiesa, senza alcun vantaggio sul versante del riconoscimento legale e dell’efficienza ecclesiale. Un’attesa estenuante che forse è coerente con le procedure del Regno di mezzo e con tempi lunghi della Chiesa, ma non con quelli della comunicazione e le attese dei fedeli.

Mentre si spegne progressivamente la generazione dei vescovi che hanno conosciuto una vera e prolungata persecuzione, come mons. Andre Han Jingtao, morto a 99 anni nel dicembre scorso, e mons. Zong Huaide un mese prima. Ambedue considerati veri «confessori» nella memoria delle comunità cristiane (cf. Asianews del 5 e 7 gennaio). Rimangono deluse le speranze di nomine urgenti come quella di Hong Kong o, come quella ipotizzata, di Wuhan.

Il papa e la Segreteria di stato hanno sempre confermato la scommessa dell’accordo che ha evitato un probabile scisma, ha permesso la piena comunione col papa di tutti i vescovi, ha portato il governo a venire a patti con le fedi (la «sinizzazione» smentisce l’ateismo di stato), a riconoscere un’autorità esterna per i cittadini cinesi e a rispettare l’ultima parola al papa in ordine alla scelta dei vescovi.

Non meno evidenti gli interessi del governo cinese: tenere aperta una interlocuzione con la  più antica istituzione occidentale mentre si chiudono i rapporti con gli stati occidentali (in funzione di una nuova guerra fredda fra USA e Cina), depotenziare la possibile carica critica della Chiesa cattolica (il riferimento e al collasso dei regimi comunisti d’Europa), poter meglio affrontare il problema di Taiwan, rafforzare la coesione nazionale e il ruolo del partito.

Come hanno riconosciuto alcuni dei protagonisti vaticani dell’accordo, siamo ancora lontani da un’applicazione adeguata, dall’affrontare temi connessi come l’intesa sul numero e l’estensione delle diocesi, sui processi formativi, sul riconoscimento della vita consacrata. La permanente distanza fra comunità «illegali» e «patriottiche» non si risolverà senza lo sforzo degli interessati e senza un quadro normativo efficiente.

È considerata irrealistica l’attesa di relazioni diplomatiche vista la resistenza cinese anche all’apertura di un ufficio informale a Pechino e l’incertezza che aleggia sulla legazione apostolica a Hong Kong.

Stato autoritario e libertà sofferente

Una ulteriore variabile è legata alla nuova amministrazione americana di Biden. Meno grossolana di quella di Trump e di M. Pompeo, può essere più efficace a intralciare l’accordo sino-vaticano con un più coerente riferimento ai diritti umani e con la progressiva prova di forza contro la Cina.

L’elenco delle vessazioni di cui i credenti sono fatti oggetto nel paese si allunga giorno dopo giorno. Scarsamente comprensibile la multa ad un credente colpevole di aver ospitato nella sua cappella privata una messa del vescovo «illegale» P. Shao Zhumin.

Noti e sorprendenti gli interventi per rimuovere le croci alla sommità delle chiese, che impongono la bandiera cinese a fianco dell’altare, che impediscono la partecipazione liturgica ai bambini e ai minorenni, che perseguono la distruzione di edifici parrocchiali, che disturbano le feste liturgiche con eventi imposti, che chiudono le chiese per il Covid sulla segnalazione improbabile di alcuni social, che impongono fotocamere (a riconoscimento facciale) dentro gli edifici sacri. Ancora più incomprensibile la chiusura di orfanotrofi per bambine handicappate.

L’elenco è incompleto, ma in buona parte coerente con gli indirizzi di un governo di tipo autoritario. E tuttavia non privo di consenso per l’enorme sviluppo economico che ha costruito. Il fatto che i cinesi si identifichino con lo stato e con la sua missione modernizzatrice non va sottostimata. Lo sconvolgimento della destrutturazione familiare-clanica e della modernizzazione urbana trova nell’indirizzo del partito e dello stato un riferimento condiviso.

La celebrazione in pompa magna dei 100 anni del partito non è solo una parata, anche se ai nostri orecchi suonano enfatiche le parole di mons. Ma Yinglin: senza il partito comunista non ci sarebbe la nuova Cina. Il consiglio dei vescovi (conferenza episcopale) e l’associazione patriottica hanno decretato il centenario come l’evento più significativo per la Chiesa in Cina.

Non si possono ignorare le violenze per gli oppositori e le persecuzioni a intere popolazioni come nel Tibet, in Mongolia e nello Xinjiang (uiguri). Due rapporti di istanze non governative (Human Right Watch e Newlines Institute for Strategy and Policy) hanno allarmato l’opinione pubblica.

Nei confronti della popolazione uigura (di ceppo turcofono e appartenenza islamica) «il governo cinese continua a commettere crimini contro l’umanità». Il secondo studio parla apertamente di genocidio. Oltre un milione di persone sarebbero detenuto in campi di concentramento fatti passare per istituti di rieducazione.

Civiltà millenarie

Gli altri due punti critici sono Taiwan e Hong Kong. Nelle ultime elezioni l’isola ha rafforzato il suo orientamento indipendente rispetto alla Cina e le sistematiche manovre militari cinesi (aeree e navali) hanno impaurito la popolazione che ha accolto alcune migliaia di fuggitivi da Hong Kong. La città lagunare vive con sofferenza il declino del modello «due sistemi, un paese».

La decisione di Pechino di assimilarla ai metodi e alle norme della Cina continentale ha azzerato l’esplicita volontà di riforma e autonomia espressa nelle elezioni (24 novembre 2019) e due anni di grandi manifestazioni in difesa della democrazia e dei diritti umani. Il 16 di aprile nove attivisti e leader della protesta sono stati condannati per assemblee non autorizzate e per le proteste del 2019.

Sei di loro – Martin Lee, il padre del movimento per la democrazia e uno degli avvocati più stimati della città, il magnate dei media Jimmy Lai, l’avvocato Alberto Ho, il parlamentare e sindacalista Lee Cheuk-yan, il parlamentare Cyd Ho e l’intellettuale Margaret Ng – sono dei cattolici praticanti e convinti.

Davanti ai giudici Lee Cheuk-yan ha detto: «Come cristiano, leggendo le Scritture della Pasqua, mi è stato ricordato come Cristo sia andato incontro al suo destino di crocifisso, sacrificandosi per l’umanità per riconciliare i peccatori con Dio. Considero Gesù come un prigioniero politico che non ha mai commesso alcun crimine». E un missionario di lungo corso ha commentato: «Non è sorprendente che buona parte di militanti, lavoratori sociali, avvocati e intellettuali siano dei cristiani o abbiano incrociato il Vangelo in qualche momento della vita grazie di 250 istituti scolastici cristiani di Hong Kong». «Non hanno il monopolio dell’umanesimo sociale, ma il messaggio evangelico mantiene un’influenza rilevante nelle sfere politiche e sociali di Hong Kong» (cf. La Croix, 21 aprile).

P. Gianni Criveller commenta amaro su Mondo e Missione: «C’è una logica nel lodevole sostegno del Vaticano al dramma dei rohingya in Myanmar da una parte, e dell’assordante silenzio sulla tragedia degli uiguri in Cina? E similmente sul Tibet, la Mongolia interna e sulle crescenti restrizioni alla libertà religiosa? Mi sembra un caso in cui si è forti con i deboli e deboli con i forti. L’accordo Vaticano – Cina del 2018 vale davvero tutto questo silenzio, anche se l’accordo ha portato a risultati così modesti?».

La Santa Sede, sulla base del bene delle comunità cristiane, ha elaborato la propria posizione nell’arco di trent’anni e scommette sui tempi lunghi. Sa che nella complicata ridefinizione dell’egemonia globale il ruolo della Cina nella pace mondiale del futuro non potrà essere ignorato. Ha fiducia che il Vangelo potrà trovare posto nella millenaria cultura cinese e sa pazientare.

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