Onda Brexit o tsunami?

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Difficile prevedere

Il risultato del referendum del 23 giugno, in larga parte, non era stato previsto da sondaggisti e analisti pure di fama, i quali, fino alla vigilia e negli ultimi giorni di campagna elettorale, davano per vincente il remain, seppure di pochi punti percentuale.

È difficile oggi prevedere quali saranno i contraccolpi economici e finanziari soprattutto nella zona Euro, anche se desta qualche interrogativo il fatto che, mentre le borse di Milano, di Parigi e di altre piazze finanziarie europee e non (New York e Tokyo) hanno subito perdite molto alte, quella di Londra ha perso soltanto il 2% e non pochi osservatori rilevano come gli investitori, accanto ai tradizionali beni rifugio come l’oro o il franco svizzero, insistano nell’acquistare buoni del tesoro britannico! Di certo, già da giorni, grandi organismi finanziari presenti nel Regno Unito avevano preparato studi comprensivi anche dello scenario leave.

Ci sarà un effetto domino sull’onda della Brexit? Si dice che i paesi maggiormente tentati di seguire l’esempio d’Oltre Manica siano l’Olanda, la Danimarca e la Francia; quest’ultima nel caso che alle elezioni presidenziali del 2017 si affermi il Fronte nazionale.

Gli errori di Cameron e di Bruxelles

Non si può non condividere l’opinione dell’ex-presidente Napolitano il quale, in un’intervista del 25 giugno scorso, ha dichiarato che la decisione del premier David Cameron è stato un grande azzardo, avendo ottenuto Londra tutto quanto voleva già nelle trattative-fiume con Bruxelles dei mesi scorsi. E così la pensano non pochi organi di stampa: «Cameron deve rimproverare soltanto se stesso». E la sua incoerente politica europea: dopo aver gridato per mesi se non per anni contro l’Unione Europea – forse nel tentativo di tenere a bada l’on. Nigel Farage, capofila degli euroscettici e dei populisti – pretendeva che la gente votasse per il remain.

Gli scenari più pessimisti danno ormai per scontata una progressiva, seppure non immediata, disgregazione della «casa europea», che non verrebbe più salvata neppure dall’ipotesi dell’Europa a due velocità ecc. Vogliamo sperare che questo non si verifichi e che possa essere evitato. Sarebbe davvero un grave fallimento ed alcuni scenari di ipotetici conflitti tra paesi europei – evocati o minacciati da Cameron nella campagna elettorale – potrebbero essere visti non soltanto come ipotetici.

Si dice e si scrive che Bruxelles non ha saputo parlare alla pancia degli elettori del Regno Unito. Verrebbe da dire che non è stata in grado, e continua a non esserlo, di parlare al cuore dei cittadini britannici e a quelli degli altri paesi europei in cui monta sempre di più l’ondata populista e nazionalistica. Questa dovrebbe essere la prima riforma che i grandi d’Europa (Francia,Germania, Italia e Spagna) dovrebbero fare: ridare al progetto europeo un’anima, un itinerario di valori sia morali e sociali, sia nazionali (la legittima tutela di alcune prerogative statali non negoziabili), facendo sentire soprattutto alle giovani generazioni – le quali qui in massa hanno votato per il no alla Brexit – che l’Europa serve molto per il lavoro, per la casa, per fronteggiare le emergenze ma che è indispensabile per ridare un’anima non soltanto cristiana a milioni di persone in cerca di un senso per le loro vite e quelle delle prossime generazioni. L’inettitudine egoistica mostrata dall’Unione Europea nel non sapere e nel non volere gestire l’immane tragedia degli immigrati – salvo lodevoli eccezioni (l’Italia) – non lascerebbe molto spazio alla speranza.

Scozia e Irlanda del Nord: quale futuro?

Ancor prima della temuta disgregazione europea, di un monadismo di stati e di staterelli in competizione accanita tra di loro, la ricaduta politica più pesante potrebbe toccare proprio al Regno Unito. Già l’indomani dei risultati, venerdì 24 giugno, il first minister della Scozia, l’on. Nicole Sturgeon, ha dichiarato che l’ipotesi di un nuovo referendum per l’indipendenza della Scozia dal Regno Unito «è già sul tavolo». Del resto, in Scozia i sì all’Europa sono stati molto ampi e questi dati spingono il governo scozzese a riproporre il tema della secessione dalla Gran Bretagna. Sturgeon non ha mai fatto mistero che non appena sentirà, da sondaggi e da rilevazioni, che l’obiettivo è raggiungibile, non se lo farà scappare! Su questo non ci sono dubbi.

È vero che ieri la stessa Sturgeon ha invocato lo Scotland Act, in forza del quale il Parlamento di Westminster deve sempre legiferare tenendo conto degli interessi economici e sociali della Scozia. Ma ciò appare piuttosto un tatticismo per prendere tempo e per galvanizzare ancora di più la gente scozzese. Il referendum del settembre 2014 era stato respinto con uno scarto di voti del 10%; percentuale oggi sicuramente molto minore.

Ma lo scenario più pericoloso e foriero di reali minacce di ritorno a un passato di lotte pure armate potrà riguardare l’Irlanda del Nord. Il Northern Ireland resterebbe l’unica parte del Regno Unito ad avere una frontiera di terra con l’Unione Europea, con tutti i problemi immaginabili per i frontalieri, per il transito delle merci ecc.

Già mesi or sono, nel marzo 2016, il vice-premier dell’Irlanda del Nord aveva ammonito Westminster: «Se la Gran Bretagna lascerà l’Unione Europea sarà un imperativo democratico garantire ai cittadini irlandesi il diritto di votare un referendum di confine sulla riunificazione dell’Isola».

Ma ciò non potrebbe avvenire senza scontri e il riproporsi di contrapposizioni violente ed imprevedibili tra il Sinn Fein (Partito dei nazionalisti irlandesi, già braccio destro dell’IRA) e il Partito unionista, a base protestante, contrario all’unificazione tra Belfast e Dublino. Antichi e mai completamente ricomposti scenari di guerra – non è un eufemismo – tornerebbero a minacciare il fragile equilibrio socio-politico dell’Irlanda del Nord, con l’accendersi di un incendio che sarebbe piuttosto arduo contenere solo nello scenario politico di un piccolo paese come l’Irlanda.

Queste sono alcune delle sfide, oltre a quelle economiche tuttora non pienamente individuabili, con le quali i «grandi» dell’Europa sono chiamati a confrontarsi e, si spera, a risolvere in una prospettiva di una nuova crescita morale e sociale della «casa comune europea» (Giovanni Paolo II).

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