Soluzione per i vescovi in Cina?

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Si va verso una soluzione alle nomine dei vescovi nella Cina continentale? Lo fa presagire una anticipazione del Corriere della sera (31 gennaio), ripreso da molti altri media. Sarebbe l’esito di una serie di colloqui iniziati nel 2014 quando una delegazione cinese è venuta a Roma. Seguiti da una analoga delegazione a Pechino nel 2015 e da un terzo incontro a Roma nel dicembre 2015. Il meccanismo individuato sarebbe questo: il governo, attraverso il Consiglio dei vescovi (sorta di conferenza episcopale a cui non partecipano i vescovi non riconosciuti dal governo) propone tre nomi. Il papa ne sceglie uno. Nel caso di mancato gradimento dei tre viene richiesta una spiegazione. Non si conoscono i meccanismi ulteriori. La novità sarebbe comunque di rilievo perché riserva al papa la scelta determinante e perché sbloccherebbe una situazione ormai ai limiti dello sfibramento. I funzionari cinesi vedrebbero non contraddetti gli indirizzi tradizionali della politica religiosa che chiede alle religioni riconosciute (buddismo, taoismo, islam, cattolicesimo e protestantesimo) una triplice autonomia: autogoverno, autofinanziamento, auto propaganda. Si uscirebbe in questa maniera da una incertezza assai pericolosa con l’accumulo di linee conflittuali dentro le comunità e fra i vescovi, anche se non sarà gradita a tutti. Dopo la stagione delle nomine condivise (proposte da Pechino su nomi accettabili per Roma) che è durata fra il 2017 e il 2010, e il periodo delle nomine non condivise (con una crescente tensione con Roma e fra le comunità legali e illegali) fra il 2010 e il 2012, si era entrati in una «terra di nessuno» dove poteva prodursi ogni esito. Un piccolo segnale positivo si era verificato in agosto del 2015 con la nomina condivisa di Giuseppe Zhang Yinlin a vescovo coadiutore di Anyang (Henan). Da allora si aspettava una scelta meno provvisoria.

Sul miliardo e 300 milioni di abitanti la comunità cattolica è assai piccola. Si parla di 12-15 milioni: 3.500 i preti con una metà media di 45 anni; 1.500 i seminaristi (di cui 350 clandestini); 7.000 le religiose (60 novizie); un centinaio i vescovi (45 legali e altrettanti clandestini; una dozzina quelli non riconosciuti da Roma). Dopo l’importante lettera ai cattolici cinesi di Benedetto XVI del 2007, più volte ripresa e interpretata, l’arrivo di papa Francesco ha aperto speranze nuove. Piccoli segnali (come la telefonata del papa al presidente eletto Xi Jinping, il permesso di attraversare lo spazio aereo cinese al volo del papa verso la Corea, richiami positivi all’attività della Santa Sede in giornali di partito) hanno tenuto viva la speranza che potrebbe rivelarsi fondata se il nuovo metodo venisse accolto.

La nomina dei vescovi è lo scoglio maggiore, ma i problemi della Chiesa cinese non sarebbero certo risolti: i limiti della libertà civili, il peso intrusivo dell’Associazione patriottica, i contrasti ancora non risolti (seppure sempre meno evidenti) tra fedeli clandestini e legali, gli abbandoni significativi nel giovane clero (si parla del 20%), la distruzione di chiese e la rimozione forzata di croci sono ancora da riassorbire. Oltre a casi personali gravi come il caso dei vescovi Su Zhi Min e Ma Daqin, impediti nel loro ministero. Valutazioni molto critiche sono giunte dal card. Zen Ze-kiun, ex-arcivescovo di Hong Kong e da alcuni osservatori come B. Cervellera e G. Criveller. Ma sia la Sana Sede, sia la maggioranza dei vescovi locali sembrano orientati ad una valutazione positiva del percorso compiuto. Sempre che diventi vero.

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