Dentro una nuova epoca

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senza Dio e senza Chiesa

Nelle stagioni di passaggio, quelle in cui si ridefiniscono le coordinate fondamentali dell’umano e delle sue relazioni, ogni forma di pensiero, anche quello teologico, ha bisogno di spazi inediti di libertà per poter applicare il suo esercizio alle condizioni effettive del vivere.

Il pensiero, quello degno di questo nome, da sempre non si limita ad adattarsi allo spirito del tempo, ma lo interroga criticamente scoprendone anche i limiti, i vicoli ciechi a cui può condurre, il potenziale di violenza che in esso si annida verso le forme più fragili e ferite dell’umano che è comune a tutti noi.

Una nuova alleanza

Di questa forma di pensiero, da ovunque esso provenga, il nostro tempo ha bisogno urgentemente per non soccombere allo spirito che vuole totalizzarne la forma. E in qualunque luogo esso circoli si aprono inattesi spazi per una nuova alleanza, a cui la fede cristiana e la sua teologia dovrebbero concedersi senza remore e paure.

Esercizio non facile, perché richiede la dismissione di un abito antico e consolidato: quello di un primato indiscutibile sulla conoscenza dell’umano e della sua verità. Se la teologia sapesse davvero dismettere questo atteggiamento epistemologico, senza rinunciare al suo compito fondamentale, allora essa potrebbe proporsi come forza federativa tra le molte forme del sapere in cui viene coltivato un pensiero che non sia semplice adeguamento alle ingiunzioni che vengono imposte dalle potenze mondane in cui tutti siamo immersi.

Questo non vuol dire abbandonare la questione della verità, ma avere il fiuto per riconoscere i luoghi in cui essa si ricolloca in una nuova stagione della configurazione dell’umano. Riconoscendo che la questione della verità, in questo suo ridislocamento, non rimane immutata, ma si trasforma e chiede di essere decifrata secondo criteri che non possono essere semplicemente trasportati da un ambito all’altro, da una stagione all’altra.

Dalla morale all’antropologia

Sostieni SettimanaNews.itBasterebbe pensare, ad esempio, alla relazione uomo-donna che, per tutto l’arco della modernità, si collocava nell’ambito della morale e trovava qui sia la sua verità sia i suoi criteri di veracità. Dentro la teologia e dentro il sentire comune degli esseri umani in generale. Oggi le cose non stanno più così.

Quella relazione è divenuta oramai questione antropologica, ed è in quanto tale che se ne decide della sua stessa verità. Continuare a trattarla ed esaurirla come questione esclusivamente morale ci impedisce di dirne la verità, facendola apprezzare come qualcosa che appartiene realmente all’esperienza di coloro che la vivono concretamente, che ne conoscono le ferite e le esigenze.

La grammatica morale che abbiamo elaborato intorno alla relazione uomo-donna non riesce più a dirne la verità per le generazioni più giovani, esattamente perché esse la vivono come figura antropologica di un nesso più ampio che racchiude il desiderio di relazioni riuscite nella quotidianità dei giorni.

E su questo i nostri giovani mostrano una sensibilità e una disponibilità che noi semplicemente non riusciamo a raccogliere, perché parliamo altrove rispetto alle sfere della loro vita e del loro desiderio.

I ragazzi: genesi del nostro pensiero

Li incontro ogni giorno, nelle aule di lezione, nei corsi che tengo al di fuori di quelli di teologia, nel verde dei viali del campus della nostra università, per le strade di una piccola cittadina nel nord della Germania. Li osservo nei loro gesti, nelle loro forme di vivere e comunicare così lontane da quelle della mia generazione.

Sono loro i destinatari del mio pensiero, certo, ma ne sono anche e in primo luogo la genesi costante. Esercizio sfibrante talvolta, ma soprattutto avventura affascinante di accompagnare storie e volti (che magari incroci solo per un semestre) verso i loro giorni che verranno.

Se appena intuiscono questa disponibilità di un pensiero che si costruisce insieme a loro, ti si aprono davanti praterie che mai avresti immaginato. E scopri, allo stesso tempo, che la saggezza del Vangelo di Gesù si ritrova oggi davanti a possibilità inedite di essere detta in maniere che tu non hai mai conosciuto e di cui non ti saresti immaginato mai il sentore.

I nostri ragazzi devono dare forma a sé stessi in una stagione di una complessità che fa rabbrividire, se solo ci pensiamo su un attimo seriamente; devono affrontare incertezze rispetto al futuro di cui noi non riusciamo neanche a immaginare la portata. Navigano a vista, e lo fanno molto meglio di noi ancorati a qualche antica certezza – più consolatoria che efficace.

La condizione dei giorni

Ogni pensiero, ogni declinazione teologica, dovrebbero tenere in considerazione questa condizione dei giorni in cui sono immersi. Non farlo vorrebbe dire ritrovarsi esattamente nella posizione di quei discepoli del Signore che volevano impedire ai «bambini» di andare a lui, reputando che fosse cosa che avrebbe disturbato l’inusitata serietà della missione del loro Maestro.

Ma egli non era dello stesso avviso. Desiderava essere scomodato dalla semplice esistenza di coloro che muovevano i primi passi nella vita, ammirandoli per l’impresa a cui stavano mettendo mano a  tentoni e ricolmi di uno sguardo verso un tempo che non era il suo.

Questa meraviglia accogliente, di cui troviamo chiara traccia nei racconti evangelici, è l’àncora di salvezza per una teologia che voglia entrare, oggi, in una nuova stagione dell’umano e della sua configurazione – anzi, è l’unica possibilità per intercettarla realmente.

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Un commento

  1. Andrea Caelli 28 agosto 2017

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