“Ma questo papa sarà mica un kantiano?”

di:

Carlo Caffarra contro la coscienza modernista

Il tentativo con cui Carlo Caffarra ha cercato di giustificare razionalmente e teologicamente la lettera con cui lui e altri 3 cardinali hanno espresso i loro dubia su Amoris lætitia appare piuttosto debole e per certi versi davvero incomprensibile. La confusione, che Caffarra lamenta come esito di AL, sembra invece scaturire troppo abbondante dalla foga argomentativa con cui il Cardinale difende le scelte ottocentesche di una “dottrina del matrimonio” identificata con la storia della contrapposizione tra Chiesa e Stato, facendo ricorso in modo vistoso alle fragili teorie massimaliste che Veritatis splendor (VS) ha introdotto avventatamente nel magistero ecclesiale.

L’intervista, che si sofferma anche su particolari secondari, trova il suo centro e il suo fulcro in due affermazioni-chiave. La prima è legata ad una ripresa di VS, la seconda al ruolo di una comprensione “antimodernista” della coscienza, che sarebbe assolutamente necessaria per restare nella tradizione cattolica e di cui Caffarra, giustamente, non trova traccia in AL. Ma vediamo questi punti uno per uno, perché meritano una analisi tanto attenta quanto critica.

Intrinsece malum e bene possibile

Il primo testo, che vorrei citare, propone una rapida ma efficace rilettura di uno dei contenuti fondamentali di VS. Mi permetto di evidenziare in grassetto i passi che poi desidero commentare:

«Uno degli insegnamenti fondamentali del documento (VS) è che esistono atti i quali possono per se stessi e in se stessi, a prescindere dalle circostanze in cui sono compiuti e dallo scopo che l’agente si propone, essere qualificati disonesti. Negare questo fatto può comportare di negare senso al martirio (cf. nn. 90-94). Ogni martire infatti avrebbe potuto dire: Ma io mi trovo in una circostanza… in tali situazioni per cui il dovere grave di professare la mia fede, o di affermare l’intangibilità di un bene morale, non mi obbliga più. Si pensi alle difficoltà che la moglie di Tommaso Moro faceva a suo marito già condannato in prigione: “Hai doveri verso la famiglia, verso i figli”. Non è, quindi, solo un discorso di fede. Anche se uso la sola retta ragione, vedo che negando resistenza di atti intrinsecamente disonesti, nego che esista un confine oltre il  quale i potenti di questo mondo non possono e non devono andare. Socrate è stato il primo in Occidente a comprendere questo. La questione dunque è grave, e su questo non si possono lasciare incertezze. Per questo ci siamo permessi di chiedere al papa di fare chiarezza, poiché ci sono vescovi che sembrano negare tale fatto, richiamandosi ad Amoris lætitia. L’adulterio infatti è sempre rientrato negli atti intrinsecamente cattivi. Basta leggere quanto dice Gesù al riguardo, san Paolo e i comandamenti dati a Mosè dal Signore».

La concatenazione argomentativa è chiaramente sofistica: si parte da una assunzione (magisteriale) di atti intrinsecamente cattivi. Li si dimostra – razionalmente – a contrario, ossia ragionando sul “martirio”, per concludere con il falso sillogismo: se ci sono atti intrinsecamente cattivi, e se l’adulterio è intrinsecamente cattivo, allora non ci sono circostanze soggettive che possano renderlo un “bene”, in nessun caso.

Questa struttura argomentativa è piena di implicazioni storiche che vengono nascoste e che rendono vuoto il ragionamento. Tutto dipende da una mancanza di storia: dire “intrinsecamente cattivo” significa isolare oggettivamente una fattispecie e renderla impermeabile ad ogni elemento temporale e soggettivo: circostanze, intenzioni, condizioni, sentimenti. Ma, come appare bene dalla conclusione, alla mancanza di storia corrisponde, infallibilmente, una mancanza di cura nella lettura del testo biblico. Per Caffarra “basta leggere” quanto al riguardo dicono Gesù, Paolo e i comandamenti. Non esiste più alcuna ermeneutica storica delle azioni, né dei testi, né delle intenzioni né delle circostanze. Tutto è spostato sul piano di una “dottrina oggettiva”, che non permette alcuna considerazione delle “circostanze soggettive”. È evidente che, in questa impostazione astratta e violenta, nulla c’è di peggio che il “discernimento” voluto da AL. O, meglio, l’unico discernimento possibile sarebbe quello che esclude, non quello che integra. Ma parlare del matrimonio e della Scrittura senza profondità storica e senza lavoro ermeneutico suscita un dubbio, e forse anche più di uno.

La battaglia contro la coscienza moderna

Il secondo testo che vorrei considerare mette in campo la “sfida decisiva”. È utile leggerlo nella sua integralità, per smascherarne il sottofondo pregiudiziale. C. Caffarra affronta qui la questione della coscienza, che da 40 anni è il suo “cavallo da battaglia”. Ascoltiamolo in questa lunga argomentazione:

«Ritengo che questo sia il punto più importante di tutti... È il luogo dove ci incontriamo e scontriamo con la colonna portante della modernità. Cominciamo col chiarire il linguaggio. La coscienza non decide, perché essa è un atto della ragione; la decisione è un atto della libertà, della volontà. La coscienza è un giudizio in cui il soggetto della proposizione che lo esprime è la scelta che sto per compiere o che ho già compiuto, e il predicato è la qualificazione morale della scelta. È dunque un giudizio, non una decisione. Naturalmente, ogni giudizio ragionevole si esercita alla luce di criteri, altrimenti non è un giudizio, ma qualcosa d’altro. Criterio è ciò in base a cui io affermo ciò che affermo e nego ciò che nego. A questo punto risulta particolarmente illuminante un passaggio del Trattato sulla coscienza morale del beato Rosmini: C’è una luce che è nell’uomo e c’è una luce che è l’uomo. La luce che è nell’uomo è la legge di Verità e la grazia. La luce che è l’uomo è la retta coscienza, poiché l’uomo diventa luce quando partecipa alla  luce della legge di Verità mediante la coscienza a quella luce confermata”… Ora, di fronte a questa concezione della coscienza morale si oppone la concezione che erige come tribunale inappellabile della bontà o malizia delle proprie scelte la propria soggettività. Qui, per me c’è lo scontro decisivo tra la visione della vita che è propria della Chiesa (perché è propria della rivelazione divina) e la concezione della coscienza propria della modernità. … C’è un passaggio di Amoris lætitia, al n° 303, che non è chiaro; sembra ripeto: sembra ammettere la possibilità che ci sia un giudizio vero della coscienza (non invincibilmente erroneo; questo è sempre stato ammesso dalla Chiesa) in contraddizione con ciò che la Chiesa insegna come attinente al deposito della divina Rivelazione. Sembra. E perciò abbiamo posto il dubbio al papa»

La nozione di “coscienza” diviene lo spazio in cui Caffarra muove guerra alla “colonna portante della modernità”. E qui, a dire il vero, non ci saremmo aspettati di leggere ciò che viene scritto. Perché la caricatura che Caffarra propone della modernità è molto grave, come grave è anche la caricatura a cui costringe la rivelazione divina. Come diceva Blondel: «Ad un chiodo dipinto posso appendere solo una chiave altrettanto dipinta». Ad una rivelazione divina ridotta ad una “evidenza oggettiva di ragione” fa da “sparring partner” una “coscienza moderna” ridotta ad arbitrio relativista e ad autoreferenzialità solipsista. Garantire i diritti di Dio, sembra dirci in modo esigente C. Caffarra, può avvenire solo ristabilendo questo ordine di ragionamento. Caffarra non conosce la “libertà di coscienza”. O meglio può conoscerla solo sfigurandola. Ed è ovvio che non riesca più a capire non solo il mondo, ma anche una Chiesa che – da più di 50 anni – dialoga apertamente con il mondo moderno e con la sua coscienza libera. Se un “giudizio vero della coscienza” è in contraddizione con ciò che la Chiesa insegna, per Caffarra non c’è alternativa: la coscienza deve riconoscere l’errore e sottomettersi. La forma più nota con cui abbiamo ascoltato e seguito Caffarra fino ad oggi è stata quella di “riconoscere la nullità del vincolo”. Ontologizzando il matrimonio in modo clericale e spudorato, lo abbiamo trattato da giureconsulti nichilisti. Ma in una “società aperta” – di cui Caffarra sembra non avere avuto ancora esperienza – se si gestisce la disciplina ecclesiale con questo stile astratto e freddo, si costruiscono finzioni e mistificazione sempre più gravi. Io non sono preoccupato per una esortazione apostolica che accetta di dialogare prudentemente con la “libertà di coscienza”. Io sono preoccupato per un cardinale che parla come se la “coscienza libera” fosse semplicemente un errore da combattere. Come se i nostri calendari potessero tornare indietro di un secolo. Come se al posto di papa Francesco ci fosse papa Pio IX. Come se la nostalgia per ciò che è pre-moderno potesse essere la salvezza della Chiesa e dell’uomo. Come se le esortazioni apostoliche dovessero avere anzitutto l’obiettivo di confermare i cardinali nei loro pregiudizi. Come se l’attacco più feroce a Francesco potesse assumere la forma comica della insinuazione alla Magister: «Ma questo papa, sarà mica un kantiano?».

La risposta ai “dubia” si trova già in AL 36-37

Di fronte a queste obiezioni, che, se valutate con equilibrio, appaiono francamente piuttosto rozze, la migliore risposta si può leggere ai numeri 36-37 di AL, dove si dice:

«36. …dobbiamo essere umili e realisti, per riconoscere che a volte il nostro modo di  presentare le convinzioni cristiane e il modo di trattare le persone hanno aiutato a provocare ciò di cui oggi ci lamentiamo, per cui ci spetta una salutare reazione di autocritica. D’altra parte, spesso abbiamo presentato il matrimonio in modo tale che il suo fine unitivo, l’invito a crescere nell’amore e l’ideale di aiuto reciproco sono rimasti in ombra per un accento quasi esclusivo posto sul dovere della procreazione. Né abbiamo fatto un buon accompagnamento dei nuovi sposi nei loro primi anni, con proposte adatte ai loro orari, ai loro linguaggi, alle loro preoccupazioni più concrete. Altre volte abbiamo presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono. Questa idealizzazione eccessiva, soprattutto quando non abbiamo risvegliato la fiducia nella grazia, non ha fatto sì che il matrimonio sia più desiderabile e attraente, ma tutto il contrario.
37. Per molto tempo abbiamo creduto che solamente insistendo su questioni dottrinali, bioetiche e morali, senza motivare l’apertura alla grazia, avessimo già sostenuto a sufficienza le famiglie, consolidato il vincolo degli sposi e riempito di significato la loro vita insieme. Abbiamo difficoltà a presentare il matrimonio più come un cammino dinamico di crescita e realizzazione che come un peso da sopportare per tutta la vita. Stentiamo anche a dare spazio alla coscienza dei fedeli, che tante volte rispondono quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi. Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle».

Escludere il bene possibile in ragione del bene massimo non è una esigenza della rivelazione o della ragione, ma piuttosto un grave fraintendimento del primato della realtà sull’idea.

Pubblicato il 19 gennaio 2017 nel blog: Come se non

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3 Commenti

  1. Vincenzo 18 febbraio 2017
  2. Paolo Pagliaro 3 febbraio 2017
  3. Francesco Grisorio 21 gennaio 2017

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