Americani tranquilli

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graham greene

Graham Greene (1904-1991) è stato un grande narratore: con sguardo disincantato e profondo ha descritto gli abissi dell’animo umano, il dramma della scelta, il rapporto con Dio o con il destino. Cattolico, ma di un cattolicesimo che non sottrae il credente al dramma interiore. I suoi personaggi non sono mai “buoni”, ma vivono preda dell’alcool, dell’oppio, della gelosia e dell’avidità; possono essere assassini o suicidi, ma mai placati; nei suoi romanzi Dio non c’è, o forse non fa nulla per imporre la propria presenza. Anche nelle ambientazioni si entra in alcuni tra i drammi del XX secolo (ai quali egli stesso partecipò come giornalista, scrittore e anche informatore del governo inglese): il Messico degli anni trenta (Il potere e la gloria), l’Africa coloniale francese durante il secondo conflitto mondiale (Il nocciolo della questione), l’Indocina degli anni cinquanta (L’americano tranquillo), Cuba oppressa dalla dittatura di Batista (Il nostro agente all’Avana).

The Quiet American fu scritto nel 1955. È ambientato in Vietnam: Greene vi era stato, l’anno prima, come corrispondente di guerra. Il paese si trovava ancora teoricamente sotto la sovranità coloniale della Francia ed era occupato dalle sue truppe, ma di fatto era scosso dalla guerriglia comunista e indipendentista, che ne controllava ampie zone. Si verificavano stragi e attentati di cui era difficile comprendere la paternità (la stampa occidentale era peraltro certa delle responsabilità dei comunisti). Gli americani, nel contesto della guerra fredda, temevano l’espandersi dell’influenza sovietica nell’Asia sud-orientale e speravano che il Vietnam ottenesse l’indipendenza, ma rimanendo nel campo filo-occidentale (cosa che sarebbe avvenuta, almeno parzialmente, di lì a poco: è per difendere quello stato-fantoccio che gli USA avrebbero impegnato poi a lungo il loro esercito).

Il protagonista-voce narrante è un giornalista inglese, Thomas Fowler, che cerca di non farsi coinvolgere nel brutale conflitto in corso tra francesi e comunisti vietnamiti. Nella sua attività viene a contatto con Alden Pyle, un americano giovane e idealista: quest’ultimo sostiene la necessità di far nascere una “terza forza” che possa portare al Vietnam indipendenza e libertà. I due intrecciano una singolare amicizia, cementata dalla notte in cui hanno rischiato di rimanere uccisi, ma complicata dal fatto che Pyle è attratto da Phuong, la giovane vietnamita con cui Fowler convive; la donna, scoraggiata dalle menzogne che il giornalista inglese le racconta in merito alla possibilità di ottenere il divorzio dalla lontana moglie, sceglie ad un certo punto di andare a vivere con l’americano.

La svolta della vicenda si ha quando Fowler si rende conto che Pyle ha aiutato una nuova fazione ad armarsi e a portare lo scontro, con atti di terrorismo, dentro la città: la strage doveva servire a provocare una reazione anti-comunista che legittimasse la “terza forza”. È lo stesso Fowler che allora decide – Greene ne descrivere con partecipazione il dramma interiore – di fare in modo che Pyle venga ucciso dai comunisti. Dopo la morte dell’amico-rivale, Phuong tornerà da Fowler; e quest’ultimo vivrà portando con sé l’afflizione per l’assassinio che aveva provocato.

Chi è il buono? Chi è il cattivo? Impossibile dirlo, in un romanzo di Greene, dove le radici della zizzania sono sempre evangelicamente inestricabili da quelle del grano… certo è che l’orrore che Fowler prova di fronte al massacro provocato dall’esplosivo di Pyle ci fa toccare con mano i limiti di ogni machiavellismo che considera la vita degli uomini (delle donne, dei vecchi, dei bambini) una semplice variabile secondaria in un “grande gioco” in cui il fine giustifica i mezzi. Anche il più nobile idealismo diventa fanatismo quando passa sopra la vita delle persone.

«Una donna era seduta in terra tenendo in grembo quanto rimaneva del suo bimbo; con una specie di pudore l’aveva ricoperto col suo cappello contadinesco di paglia. Era calma e silenziosa, e ciò che mi colpì maggiormente in quella piazza fu il silenzio. Somigliava a una certa chiesa che avevo una volta visitato durante una messa. Gli unici suoni provenivano da coloro che la servivano, eccetto quando, qua e là, gli europei piangevano o imploravano e ricadevano poi nel silenzio, quasi svergognati dal pudore, dalla pazienza e dal decoro dell’Oriente. Il torso senza gambe sul limitare del giardino, sussultava ancora come un pollo decapitato. A giudicare dalla camicia, era stato, probabilmente, un conducente di risciò.

Pyle disse: “È orribile”. Guardò il bagnato delle proprie scarpe, e chiese con voce nauseata: “cosa è quello?”

“Sangue” risposi. “Non l’avevi visto finora?”

Disse: “dovrò farmele pulire, prima di presentarmi al ministro”». (III.2.2).

Due film per un libro scomodo

Il romanzo ha avuto un singolare destino cinematografico: ne esistono infatti due versioni molto differenti. A solo due anni dall’uscita del libro, nel 1957, fu infatti prodotto negli USA il primo The Quiet American, con la regia di Joseph Mankiewicz e l’interpretazione di Michael Redgrave (Fowler), Audie Murphy (Pyle) e Giorgia Moll (Phuong); in parte fu girato proprio in Vietnam. La pellicola, ancora in bianco e nero, risultò di buona qualità; la sceneggiatura fu fedele alla trama del libro… ma non fino in fondo. L’americano tranquillo viene sì tradito dal giornalista e ucciso: ma il commissario Vigot, alla fine, spiegherà a Fowler che erano stati i “comunisti assassini”, e non gli alleati di Pyle, i responsabili degli attentati; i comunisti lo avevano ingannato, portandolo a credere alla colpevolezza dell’amico; l’inglese aveva potuto cadere nella trappola perché era stato accecato dall’amore per Phuong e dal desiderio di riaverla. Un film che oggi appare un monumento alla guerra fredda, alle sue contrapposizioni e alla propaganda che distorceva la realtà (letteraria, ma non solo) fino a rovesciarla.

americani

Più recente (2002) il film di Phillip Noyce, interpretato nei rispettivi ruoli da un grande Michael Caine, da Brendan Fraser e da Do Thi Hai Yen. La trama del libro è seguita con minore puntualità, ma ciò non danneggia il senso della narrazione, che è condotta fino al suo termine, come Graham Greene aveva voluto. E oltre… nel senso che esiste un epilogo, nel quale viene descritto (attraverso i titoli degli articoli scritti poi da Fowler) il seguito della vicenda, fino all’intervento dell’esercito americano. (Non so se si tratti di una mia sovra-interpretazione, ma temo che di fronte a questo epilogo qualcuno sia indotto a pensare: non è che sarebbe stato meglio lasciar fare Pyle, la sua “terza forza” e i suoi attentati, e risparmiarci l’intervento militare successivo?…)

Una piccola ma curiosa questione riguarda le modalità di presentazione e distribuzione in DVD dei due film (almeno in Italia). Quello del 1957 è stato messo in commercio con una “quarta” che riassume il senso del romanzo, e non quello di quel film (Pyle è definito «un uomo capace di piazzare bombe a danno dei civili per favorire il sospetto dell’opinione pubblica contro i partigiani comunisti»). Inoltre, in copertina, la figura di Redgrave non è affiancata dal profilo dell’italianissima Giorgia Moll, ma da quello dell’incantevole vietnamita protagonista del film di Noyce. Il secondo film che, come si è detto, racconta correttamente la vicenda narrata da Greene, sembra invece vergognarsene. In copertina appare la frase «la seduzione è l’arma più potente», come a indirizzare verso una determinata chiave di lettura, rafforzata da quanto si trova scritto sul dorso. Nella “quarta”, il film è infatti presentato come fosse una storia giallo-rosa: «Quando Alden viene trovato morto i sospetti cadono su Thomas, che aveva più di un buon motivo per desiderare la morte del suo rivale». Insomma: negli anni cinquanta del Novecento come nel Duemila, è difficile ammettere che anche i “nostri” possano fare i terroristi.

Qualche tesi sul terrorismo

In un’epoca in cui l’accusa di “terrorismo” è diventata il passepartout per giustificare qualunque guerra o repressione, rileggere The Quiet American (o rivedere il film, almeno quello di Noyce) induce a qualche riflessione. Senza curarmi della letteratura scientifica che certamente esiste in merito, passo a qualche enunciato che sintetizza le mie riflessioni.

  1. I terroristi non esistono: esistono uomini che praticano il terrorismo. Quella del terrorista non è una categoria antropologica, etnica, religiosa, ideologica; non c’è alcuna possibilità di predeterminare su basi “oggettive” chi è o sarà un terrorista e chi no. So che è una banalità, ma le legislazioni antiterrorismo sovente sembrano presupporre il contrario. Può essere terrorista anche un tranquillo americano. «Era corazzato impenetrabilmente dalle sue buone intenzioni e dalla sua ignoranza» (II.2.2).
  2. Il terrorismo non è un fine: è un mezzo. Nessuno usa il terrorismo per principio. Chi fa terrorismo, lo fa nella convinzione che quel modo di agire gli permetterà di raggiungere i suoi scopi; se tale mezzo non è adatto o sufficiente ne userà altri. Va detto però che il “gioco della paura” è una modalità particolarmente efficace di condurre una lotta.
  3. Il terrorismo non è lo scoppio di una bomba tra la folla: è anche questo. Se il terrorismo è l’uso della paura (altrui) per il raggiungimento dei propri obiettivi, dell’operazione terroristica (qualunque essa sia) fa parte in modo prioritario l’eco di essa, in modo particolare nei mezzi di comunicazione. La “spettacolarità” dell’azione conta dunque di più delle sue effettive conseguenze. «Donne e fanciulli fanno cronaca, e i soldati no, in guerra. Questo farà colpo sulla stampa mondiale» (II.2.2).
  4. Il bersaglio dell’atto di terrorismo non coincide con le sue vittime. Si uccide qualcuno per “forzare” qualcun altro. E quindi non è facile giudicare, sulla base della semplice descrizione del fatto, l’intenzione di chi lo ha compiuto. Anche questa sembra una banalità, ma è una banalità che non conosce chi ritiene si possa fare la “guerra al terrorismo” (specie se la parola “guerra” è intesa in senso non metaforico). NB: quando l’obiettivo dell’azione coincide con la vittima dell’azione non si tratta di terrorismo ma di lotta armata. La strage di Bologna fu terrorismo, l’assassinio di Moro fu lotta armata.
  5. Il terrorismo è sempre violenza, anche se non sempre è spargimento di sangue. Ciò che si vuole spargere non è il sangue, è l’inquietudine: nessuno deve sentirsi al sicuro. Si può ottenere lo stesso risultato in molti altri modi, diffondendo insicurezza, precarietà, tensione, ed essere parimenti letali per la libertà delle persone.
  6. Il terrorismo diviene (purtroppo!) lecito agli occhi di chi è convinto che il fine in cui crede è più alto della vita delle persone che ne sono vittime (cruente o incruente). Diviene lecito agli occhi di chi non crede che «soltanto l’essere umano ha un destino eterno. Le collettività umane non ne hanno» (Simone Weil).
  7. Di conseguenza, il giudizio etico sul terrorismo come modalità di lotta è sempre e comunque negativo, a prescindere dal fine per cui si agisce. Anzi: un fine degno viene reso indegno dagli uomini che vogliono raggiungerlo in questo modo.

«“Non son che incidenti di guerra” disse lui. “È stato un peccato, ma non si può sempre colpire nel segno. Ad ogni modo, son morti per la buona causa”.

“Avresti detto lo stesso, se si fosse trattato della tua vecchia nutrice con la sua torta di mirtilli?”

Ignorò la mia facile allusione. “In certo qual modo, si può dire che son morti per la Democrazia” disse.

“Non saprei come tradurre questo in Vietnamese”.

Mi sentii ad un tratto stanchissimo. Desiderai che se ne andasse alla svelta e morisse. Allora avrei potuto ricominciare la vita… dal punto in cui era intervenuto lui» (IV.2.2).

Detto questo, non vorrei aver teorizzato la legittimità della pena di morte verso l’uomo che si macchia di atti di terrorismo. È facile cadere nella stessa logica che si vorrebbe combattere, negare il volto di chi ha negato i volti. Chi lo fa è comunque segnato dalla colpa. Lo sapeva bene anche Graham Greene, che mette in bocca a Fowler quest’ultima riflessione:

«Ripensai al primo giorno, e a Pyle seduto accanto a me al Continental, con l’occhio sul bar delle bibite lì in faccia. Tutto era andato bene per me, da che era morto, ma come desideravo che esistesse qualcuno al quale potessi dire che ero afflitto» (IV.3).

Pubblicato su Il Margine, n. 6/2008.

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