“Basta, mi dimetto da parroco!”

di:

Thomas Frings, Così non posso più fare il parroco

«Aus, Amen, Ende? So kann ich nicht mehr Pfarrer sein» (Fuori, Amen, Fine? Così non posso più fare il parroco): in una comunità della città tedesca di Münster, la Kreuzkirche, nel febbraio 2016 è stata questa la comunicazione del parroco, don Thomas Frings, 30 anni di servizio, di cui 25 come parroco in tre diverse parrocchie della città, due delle quali sono state fuse e l’ultima faticherà ad avere un successore.

Oltre la battuta, una dichiarazione ben argomentata (non uno sfogo tra amici) per spiegare la ragione per cui aveva espresso la richiesta di essere congedato, in altre parole di cambiare il tipo di servizio come prete (con ottime relazioni con i fedeli e anche con il suo vescovo). Un testo che, con sua sorpresa, è rapidamente salito alla ribalta della cronaca nazionale, ripreso da riviste teologiche e inserito negli ordini del giorno delle riunioni di consigli presbiterali e pastorali – e non solo in Germania – al punto che gli è stato chiesto di farne un libro (che esce ora in traduzione italiana per i tipi dell’editrice Àncora).

Un cambiamento epocale e rapidissimo

In una sorta di diario aperto, dai tratti spesso carichi di umorismo e di autocritica, Frings racconta la sua vita che considera comune a quella di molti preti della sua età: studi in seminario negli anni ’80, ordinato prete nel 1987. Erano gli anni della crescita vocazionale, complice anche il baby boom (ogni parrocchia aveva pure un giovane cappellano); ma ben presto si affaccia la china, forse ascritta troppo frettolosamente al solo calo demografico. Neppure quando diverse parrocchie cominciarono a restare prive di un prete, la Chiesa locale cambiava, anzi continuava a reggersi su quello che lui definisce «un modello in esaurimento»: si fondono parrocchie, si riducono o dislocano celebrazioni, ma nulla di più.

Le scuole cattoliche sono da sempre considerate un’opportunità per l’annuncio (e anche bacino di vocazioni), ma lui si chiede: sono davvero ancora «luoghi di insegnamento e apprendimento della fede?» o le motivazioni della scelta sono altre?

In sintesi, ciò che l’autore fotografa è una Chiesa ricchissima di strutture, ma ormai incapace di intercettare l’uomo di oggi, men che meno le giovani generazioni. Di qui la sua presa di posizione: «Occorre cambiare rotta!». Nessuna pretesa di soluzioni pastorali definitive, ma, dopo la spiegazione di quanto non va, alcune proposte, quasi sottovoce, di soluzione concreta, che meritano una riflessione.

Certo esistono profonde differenze tra la Chiesa tedesca e quella italiana (la prima efficiente, organizzatissima, forte della presenza di laici stipendiati e a tempo pieno che affiancano il comunque tanto volontariato, quotidianamente impegnata sul fronte del dialogo ecumenico, finanziata a livello fiscale dalla dichiarazione di appartenenza…), come evidenzia nella prefazione Tullio Citrini, prete lombardo che ha insegnato per 25 anni teologia del sacramento dell’ordine nel seminario di Venegono e già rettore del Pontificio Seminario Lombardo a Roma, il quale sottolinea però anche una forte affinità: la drastica riduzione della pratica religiosa (Citrini parla di «disamore») che ha assunto dimensioni sensibili e il numero dei preti che crescono di età.

Un motivo in più per affrontare la lettura del racconto di Frings che dichiara di confermare ogni giorno la sua scelta vocazionale: «Celebro con gioia l’eucaristia sia la domenica, sia nei giorni feriali» ma, «dopo trent’anni di servizio, improvvisamente ho chiuso… Ho chiesto di essere congedato e ho abbandonato il campo che ha configurato per decenni le mie giornate, la mia vita, la mia persona… Avevo fatto volentieri il parroco e volevo essere ancora prete. Ma non potevo continuare in quel modo».

La perdita di significanza

Anticipando la critica di un eccessivo pessimismo, Frings riconosce che, fin dalla prima comunità apostolica, non è mai esistita una comunità ideale, tuttavia oggi «non credo più che la strada che ho percorso come parroco sia una strada che indica il futuro. Nella migliore delle ipotesi, può leggermente rallentare la perdita di significato e di importanza».

È in estrema sintesi questa la riflessione che ha indotto la richiesta di staccare e cambiare attività.

Come si può assistere impotenti alla frequenza alla messa domenicale in caduta libera, mentre poi la stragrande maggioranza delle famiglie chiedono ancora i sacramenti con grande rilievo per la “festa”, quasi un rito di passaggio, e poi, all’indomani della celebrazione, non si vedono più in parrocchia? Come possiamo credere ai genitori che, nel corso della celebrazione del battesimo che han chiesto per i loro figli, promettono di educare i figli alla fede, se costoro, quando arrivano al catechismo per la prima comunione non conoscono neppure il segno della croce? E che dire quando, nella domenica del ringraziamento, a soli sette giorni dopo la celebrazione della prima eucaristia, in chiesa ne arriva la metà?

Il suo vero cruccio è il divario crescente tra le (sempre più) rare celebrazioni nel corso della vita delle persone – matrimoni, battesimi, prime comunioni, anniversari, Natale, Pasqua, esequie – e la risonanza interiore: «Ciò che mi addolora è la mancanza di consonanza all’interno di molte celebrazioni, e sono in crescita!» (capita così che lo sposo, al momento della comunione sotto le due specie, alzi il calice con un “Salute!” o che un cagnolino infiocchettato porti scodinzolando le fedi nuziali…).

E cita il poeta e scrittore portoghese Antonio Pessoa: «Vivo in un tempo nel quale gli uomini perdono la fede per la stessa ragione per cui i loro genitori l’avevano: non sanno perché». Si motiva la conservazione di un modello obsoleto con la sola speranza che un giorno ciò che si semina porterà frutto, anche se l’evidenza dice spesso il contrario. «Incontrare le persone dove sono, ma siamo sicuri che poi lo vogliano?».

Per un prete e la sua Chiesa non sarebbe venuto il momento di discuterne? Di individuare soluzioni, di sperimentare il nuovo? È tutt’altro che uno sprovveduto don Thomas, il quale riconosce di non aver scritto un testo scientifico, teologico o pastorale, ma solo esperienziale: in tutti questi anni confessa di essersi avidamente alimentato a libri, forum, conferenze, sondaggi, ricerche, dialoghi, seminari di eminenti esperti e teologi, ha partecipato a elaborazioni di piani pastorali, ma non ha mai trovato risposta significativa per intercettare l’umanità con cui era tenuto a confrontarsi e i risultati sono deludenti. Un’umanità profondamente mutata nel giro di pochissimi anni, come il contesto più ampio in cui vive.

«Il modo in cui le persone praticano la fede è cambiato, ma i responsabili della Chiesa e i lontani sono più che mai concordi sul fatto che la Chiesa non possa cambiare nulla in questa materia. Gli uni non vogliono rinunciare alla tradizione e gli altri alla speranza».

Non è che forse «ci curiamo troppo della tradizione e suscitiamo troppo poco il desiderio?».

Il coraggio di “lasciare” ciò che non va più

Con la concretezza della sua origine renana, don Thomas azzarda un interrogativo: non è che ci troviamo all’interno di «una Chiesa che, a tutti i livelli, lavora più per il suo passato che per il suo avvenire?». Perché sono tante le strutture, ma la Chiesa-popolo sta morendo e ciò che arriverà dopo di lei non è ancora visibile, per cui «navighiamo in un territorio sconosciuto» e ciascuno deve fare la sua parte.

Per fare un esempio: chi impedisce di utilizzare talvolta il tasto Reset e azzerare il molto che va avanti solo per inerzia? O usare la carta del Monopoli “Torna al punto di partenza?”. Se un gruppo di lavoratori cattolici registra… solo pensionati; se il gruppo donne… veleggia su un’età media di 80 anni; se quegli stessi genitori che si scandalizzano per l’impossibilità di sostituire il parroco… non sarebbero capaci di accogliere con gioia la rivelazione di un figlio di farsi prete; se si raccolgono firme per non chiudere una chiesa… che poi resterà vuota…

Se guardiamo al campo laico, chi entrerebbe oggi in un’azienda con simili prospettive di futuro? Come possiamo sperare in una efficace pastorale vocazionale? «Come devo essere Chiesa perché un ragazzo fra alcuni anni possa volere con coraggio diventare prete?».

«Senza dimenticare – ricorda quasi per inciso don Thomas – che è difficile comprendere la ragione per cui in una diocesi tedesca accade che due parroci evangelici sposati vengono ordinati preti cattolici e contemporaneamente due preti cattolici devono lasciare il ministero perché vogliono sposarsi».

E se provassimo a staccarci da tante cose che sono finite, sorpassate e pronunciassimo «un Amen senza rimpianti, pronti a riconoscere, pieni di speranza, che questa non è la Fine»? Perché Frings è un parroco che ha deciso sì di chiudere con l’attività pastorale, ma, al contempo, indica nuovi orizzonti all’evangelizzazione, a patto di abbandonare tanta zavorra. È cambiato il contesto in cui vivono e lavorano le persone, solo noi siamo rimasti fermi, e sul non-indispensabile.

«Ciò che non ho perso è la fede nell’esistenza di un progetto cristiano per la nostra società, per la quale vale la pena di vivere» è l’affermazione di don Thomas che allontana ogni critica di eccessivo pessimismo.

«Esiste un baratro enorme fra il desiderio che le cose tornino come un tempo e la realtà»: non c’è da stupirsi perché in una famiglia nessuno si aspetta che i figli tornino bambini…

Forse nuove modalità di semina?

«Siamo in un cambiamento che ha modificato la morfologia del terreno: se non possiamo cambiare la semente, il Vangelo, possiamo certamente cambiare il nostro modo di seminare».

Un esempio sono le nostre chiese intese come locali, dove magari abbiamo sostituito la luce calda delle candele con delle lampadine in un clima asettico come il corridoio di un ospedale, mentre oggi sono sempre più importanti gli incontri personali e le esperienze vissute durante le celebrazioni. Perché non sollecitare una recita corale e a voce alta, se non di tutta la celebrazione, almeno delle preghiere? (talvolta neppure gli sposi recitano il Padre nostro…).

E perché non inventare qualcosa di nuovo con i segni? «Con cura, senza strapazzarli troppo, ma anche in modo consapevole e creativo». Forse si può raggiungere qualcuno che raramente incontriamo in chiesa…

Non possiamo aspettare con le mani in mano, scrive Frings, ricordando una storiella che invita alla responsabilità. Un parroco passa accanto ad un campo pronto per il raccolto e dice al contadino: «Non è magnifico vedere ciò che la grazia di Dio ha realizzato?». E il contadino: «Lei avrebbe dovuto vedere come appariva il campo quando agiva solo la grazia di Dio!».

Non si deve pensare che non esista via di scampo, ma dobbiamo agire. Tenendo in debito conto quanto diceva già sant’Agostino: «Molti di quelli che sono dentro sono già fuori e molti di quelli che sono fuori sono dentro». Invece di «fondere» parrocchie, perché non «fondare» parrocchie nuove? (e non solo in senso organizzativo, ma di contenuti, di scelte concrete, di progettualità, di obiettivi).

Negli Atti gli apostoli, ad un certo punto, si chiesero se anche i pagani non fossero chiamati e l’apertura ai non giudei provocò qualcosa di inaudito: «Forse in una parrocchia del futuro, ormai non più territoriale, potrebbe esistere anche un gruppetto di persone che non intendono partecipare alla messa, ma si riuniscono periodicamente a discutere di fede. Punto di partenza non sia più la cura pastorale di un gruppetto che si assottiglia sempre di più, bensì la domanda di coloro che cercano e il loro coinvolgimento come attori».

Ma non si può neanche ignorare che siamo ormai in una società mobile e instabile, anche nelle scelte di vita, e persino nella scelta del tempo libero. La Chiesa rappresenta un punto fermo, perché l’immutabilità non è solo biasimevole. Ma non possiamo offrire un pacchetto preconfezionato, perché le esigenze sono diverse, così come le persone e le loro attese.

Se fosse un panificio, la parrocchia non dovrebbe vendere solo pane integrale, ma vari pani adatti alla fame dei clienti… senza contemporaneità o scadenze forzate (la prima comunione in terza o quarta classe; se a maggio qualcuno si aspetta la celebrazione mariana, la si fa, ma non perché la si è sempre fatta); senza sagrestano, perché i fedeli stessi si faranno carico di ogni esigenza a tempo debito e si responsabilizzano anche gli sposi per la celebrazione del matrimonio, non siamo al ristorante dove si sceglie semplicemente un menù…

Sarebbe una sorta di «parrocchia della decisione», dove ciascuno si sente compreso nelle sue attese e valorizzato come persona. Perché allora non benedire due fidanzati che decidono di non sposarsi? O un neonato i cui genitori non sono convinti del battesimo? «Non è una capitolazione pastorale, è la strada tracciata da Gesù». E allora: «Sei il benvenuto, anche se non sei battezzato, puoi far parte della nostra comunità!». Potrebbe forse la grazia di Dio mancare nelle situazioni di bisogno?

Lo sguardo rivolto verso l’esterno non avrebbe più confini.

Thomas Frings, Così non posso più fare il parroco. Vi racconto perché (prefazione di Tullio Citrini), Àncora, Milano 2018, pp. 168, € 19,00.

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