Credere all’amore in un mondo di maschere

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Il grande Gatsby

Rientrato in America dopo aver frequentato l’ambiente di Oxford, Jay Gatsby compra un’enorme villa e organizza feste sfarzose. La sontuosa dimora si trova proprio di fronte alla casa in cui la giovane e affascinante ereditiera Daisy Fay trascorre le estati con il marito, famoso giocatore di polo.

Tra identità fittizie e affari illeciti, cinismo e tenerezza, solitudine e mancanza di affetti autentici, la tragedia di Gatsby finisce per coincidere con lo sfavillio e la decomposizione del mito americano negli anni tra le due guerre.

Il grande Gatsby, capolavoro di Francis Scott Fitzgerald (1896-1940), viene riproposto da Marietti 1820 nella nuova traduzione di Alessandro Pugliese e una nota di lettura di Carola Barbero, docente di Filosofia del linguaggio e Filosofia della letteratura all’Università di Torino.

Se non volessimo impegnarci a trovare una risposta alle domande sull’amore, ma fossimo semplicemente interessati a fornirne un esempio, magnifico peraltro, potremmo dire che l’amore è quel sentimento che Gatsby, il grande Gatsby, prova per Daisy, la sua Daisy. Il fiore della sua vita, la margherita (“daisy” in inglese significa “margherita”) che, giorno dopo giorno, ha tenuto tra le dita e vicino al cuore, staccando un petalo dopo l’altro mentre passavano i giorni e gli anni e ad accompagnarlo vi era un’unica certezza: che avrebbe finito col trovarsi con il petalo del «m’ama» in mano e la sua amata accanto (senza evidentemente sapere che il numero di petali delle margherite appartiene alla serie di Fibonacci, in cui ciascun numero equivale alla somma dei due precedenti, e quindi, se si inizia a staccare il primo petalo con «m’ama», molto probabilmente l’ultimo petalo darà come responso un altro «m’ama»).

Daisy è l’unica donna che Gatsby abbia davvero desiderato, colei che ha tenuto abbracciata a sé durante quell’ultimo, indimenticabile pomeriggio d’autunno prima di partire per il fronte – davanti al camino acceso e con il cuore triste per l’imminente separazione –, colei che da quel giorno, e per sempre, sarebbe stata la sua amata. “Per sempre”, sì, perché Gatsby è uno che non ha paura di fare irrompere l’eternità nella vita quotidiana fatta di istanti e accidenti, e non ha nemmeno paura di credere al “per sempre” in un mondo in cui nessuno crede più a nulla. […]

Gatsby ha un sogno grande e incorruttibile, come il suo sorriso, quello di chi non solo sa dove vuole arrivare, ma è disposto a tutto pur di arrivarci. Per tutto il tempo in cui è stato separato dalla sua Daisy – «cinque anni il prossimo novembre», da quel tenero congedo autunnale al pomeriggio piovoso a casa di Nick Carraway – Gatsby non ha mai perso di vista il suo obiettivo, non ha mai dimenticato chi era e dove voleva arrivare. E quando, spiato dagli occhi di Nick, nel suo giardino di notte, provava, tremante, ad afferrare quella luce verde, era certo solo di una cosa: che quando questa fosse stata sua, lui sarebbe stato felice.

Quanti sono quelli che i sogni li perdono cammin facendo? Quanti sono quelli che vanno avanti per inerzia, dimenticando chi sono e che cosa vogliono? Quanti sono quelli che barattano la luce e il senso della loro esistenza con giorni tutti uguali, apparentemente pieni e sereni, ma in realtà privi di senso e di autentica bellezza?

Molti. Troppi. Quasi tutti. Ma non Gatsby. Come gli dice Nick durante il loro ultimo incontro, gran parte della «gente è marcia. Tu vali da solo tutti loro messi insieme».

Anche se ha cambiato nome (da James Gatz a Jay Gatsby), se ha un passato misterioso (sul quale molti fantasticano ma che nessuno conosce), se dà feste alle quali non partecipa e si circonda di persone tanto famose quanto insulse, è l’unico a essere davvero autentico.

In un mondo pieno di maschere è il solo ad avere un volto (peraltro dotato di «uno di quei rari sorrisi che contengono una qualità di eterna rassicurazione, che si possono incontrare quattro o cinque volte nella vita, e che affrontano – o sembrano affrontare – tutto il mondo esterno per un attimo, per poi concentrarsi su di te […]»).

Gatsby non è un innamorato qualsiasi, ma uno che vive in funzione di quel faro davanti a sé, perché – come scriveva Emily Dickinson – «l’amore sia tutto quel che c’è, è tutto ciò che sappiamo dell’amore». Quanti riescono ad amare guardando la luce che brilla dall’altra parte? Quanti riescono ad aspettare (cosa si domandava Roland Barthes? «Sono innamorato? Sì, poiché sto aspettando […] la fatale identità dell’innamorato non è altro che: io sono quello che aspetta»), facendo i conti con un tempo e uno spazio vuoti dell’altro e resistendo alla tentazione di riempirli con qualunque persona o cosa capace di non far sentire la solitudine che risuona? Quanti riescono a vivere l’assenza dell’altro come acuta presenza di qualcosa, tenendone traccia giorno dopo giorno?

Pochissimi. Per mancanza di coraggio e di grandezza. Tra le folle di uomini mediocri – che non riescono a tenersi stretta una fortuna nemmeno quando gli cade letteralmente addosso, uomini che hanno paura della propria ombra, che non hanno il coraggio di guardare la propria miseria, figuriamoci poi di gettare lo sguardo oltre la siepe – Gatsby brilla di luce propria. Non ha paura di scommettere, perché sa che, se non è disposto lui a scommettere sulla propria felicità, nessuno lo sarà, e non vuole rinunciare al suo sogno, perché sa che, se dovesse farlo, lo rimpiangerà tutta la vita.

Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, Marietti 1820, Bologna 2019, pp. 208, € 16,00, ISBN 9788821113291. Dalla “Nota di lettura” di Carola Barbero.

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