Ghost in the shell. Come in uno specchio

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Ghost in the Shell

Lo definiscono già il film più atteso del 2017. Ghost in the Shell, il cui trailer ufficiale è uscito la settimana scorsa, è l’opera seconda di Rupert Sanders e vede tra gli interpreti attori importanti come Scarlett Johansson, Pilou Asbæk, Takeshi Kitano, Juliette Binoche. Si tratta della trasposizione cinematografica del fumetto omonimo di Masamune Shirow – e del mediafranchise ad esso collegato – pubblicato per la prima volta in Giappone nel 1989; reso a sua volta popolare in tutto il mondo dal film d’animazione uscito nel 1995 e diretto da Mamoru Oshii. Il film ha avuto un seguito nel 2004 (Ghost in the Shell: Innocence).

Profondità filosofica

L’importanza del film di Oshii fu enorme nel campo dell’industria cinematografica. Basti pensare che Matrix (1998), a detta degli stessi registi, non sarebbe potuto esistere senza il contributo della pellicola nipponica. A giudicare dal trailer della versione 2017, sembra che Sanders abbia optato per un adattamento che riproduce fedelmente le estetiche del film originale, il che sembra aver tranquillizzato almeno temporaneamente la parte più scettica della fanbase. La pellicola però uscirà solo alla fine di marzo del prossimo anno ed è quindi troppo presto per capire se il film saprà mantenere le attese e non tradire eccessivamente la versione originale.

La fama di Ghost in the Shell, infatti, è dovuta certamente all’aspetto visivo, innovativo per il tempo, ma sopratutto alla profondità delle riflessioni filosofiche che marcavano con forza il lavoro di Oshii. Tema principale della pellicola è il rapporto mente-corpo: del resto il titolo richiama l’espressione Ghost in the Machine, introdotta da Gilbert Ryle nel 1949 nella sua critica al dualismo tra res extensa e rex cogitans, diffuso nella filosofia occidentale da Descartes.

«Ora vediamo in maniera confusa»

In Ghost in the Shell ci troviamo nel 2029. Il mondo è completamente informatizzato e gran parte della popolazione mondiale si compone di individui completamente cibernetici. L’ibridazione tra sistemi informatici e ingegneria genetica ha permesso di sviluppare cervelli cibernetici capaci di replicare e memorizzare l’anima di un individuo, il ghost. Tuttavia lo sviluppo di questa tecnologia ha dato il via a un nuovo tipo di pirateria informatica, il ghost-haking, ovvero la manipolazione e il controllo degli spiriti.

Di questi crimini si occupa la sezione 9 della Pubblica Sicurezza, che ha tra i suoi agenti Motoko Kusanagi, una donna-cyborg di ultima generazione. Motoko mette in dubbio la sua originalità, il suo stesso ghost gli suggerisce pensieri che non riesce a capire: «Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia» (1Cor 13,12a). Le parole di san Paolo fanno da ossatura all’intera narrazione del film di Oshii. In un mondo in cui persino il proprio spirito è replicabile all’infinito viene meno una legge fondamentale del mondo vivente: la diversità, l’originalità e con queste la possibilità stessa di evolversi.

Ghost in the Shell

Scarlett Johansson è Motoko Kusanagi nel film di Rupert Sanders

Dawkins riletto

Le vicende del film si concentrano sulla cattura di un cyber-criminale soprannominato il Burattinaio. Egli non è un semplice hacker, ma un programma senziente – il progetto 2501 – auto-generatosi dalla rete. Egli si definisce un essere vivente ma incompleto, poiché privo di due delle caratteristiche di base comuni a tutti gli esseri viventi: la possibilità di morire e la capacità di riprodursi.

Come spiegherà il Burattinaio, lui e Motoko sono come un corpo e la sua immagine riflessa, identici ma divisi dalla superficie di uno specchio. Il programma esprime quindi il desiderio di fondere il proprio ghost con quello della donna al fine di morire e dare origine a una nuova, singola entità evoluta.

In questo senso Oshii rilegge nella sua pellicola alcune delle controverse teorie che il biologo Richard Dawkins avanzava nel suo saggio Il gene egoista (1976): la teoria dell’evoluzione analizzata non dal punto di vista dell’individuo ma da quello del gene e del meme. Secondo Dawkins, infatti, come il gene è l’unità dell’evoluzione biologica, in base al meccanismo di replica, così il meme è un fattore di mutazione e selezione che si realizza in ambito culturale.

A differenza di Dawkins, però, Oshii non trascura l’aspetto trascendente insito nel rapporto tra natura e cultura, tra uomo e tecnologia. Il suo film del 1995, infatti, rimane in questo senso insuperato, un intenso affresco neobarocco in cui la tecnologia diventa un nuovo piano dell’esistenza umana, una simulazione della trascendenza che forse potrà garantire vita perpetua alle stesse anime digitalizzate.

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