I francescani e la Bibbia

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copertina«Parisius, Parisius, ipse destruis ordinem beati Francisci», aveva detto Egidio, uno dei primi compagni di Francesco. E Jacopone da Todi, nella lauda XCI, fece eco alle parole dell’antico contadino umbro: «Ma vedemo Parisi, che àne destrutt’Asisi / co la lor lettoria messo l’ò en mala via».

A differenza di quanto accade fra i domenicani, il rapporto dei francescani con il mondo dotto e la cultura universitaria è faticoso e contrastato, sottilmente venato da sospetti e timori. La differenza ha radice nelle diverse identità dei fondatori: da una parte un canonico imbevuto e plasmato dalla cultura ecclesiastica, dall’altra un laico che si definisce semplice e illetterato e quasi se ne vanta, perché avverte tutti i pericoli di una scienza che gonfia e non edifica ma crea disparità fra le persone, fra la superiorità dei dotti e l’inferiorità degli incolti.

Nel viaggio col vescovo Diego nella Francia meridionale, il canonico castigliano era stato traumatizzato dalla paurosa diffusione del catarismo e si era convinto che solo un’efficace predicazione (che comportava una solida formazione teologica) poteva vincere la sfida mortale lanciata alla fede cattolica. Il percorso di Francesco, nato fra i lebbrosi dei dintorni di Assisi e ai piedi del Crocifisso di San Damiano, segue una traiettoria totalmente diversa, così come la sua predicazione avviene secondo il modus concionandi, non il modus praedicandi. Sono queste le premesse del rapporto dei francescani con la Bibbia. Un rapporto con una parola scritta e quindi una relazione in qualche modo intellettuale, ma non semplicemente tale.

In principio dunque è Francesco, «ignorans et ydiota», che ha imparato un po’ di latino nella scuoletta della chiesa di San Giorgio ma nulla più. Ne deriva un approccio molto «laico» e «popolare» alle Scritture. Emblematica è la pratica, riprovata dalla gerarchia, delle «sortes», l’apertura a casa di una Bibbia o di un lezionario alla ricerca di pericopi che illuminassero sui passi da compiere. Di qui un «letteralismo» alieno da allegoresi e trasposizioni morali (di cui l’esegesi monastica era stracolma) che si traduce piuttosto in un’adesione immediata e senza distinguo al dettato della Scrittura, che plasma la mentalità, l’espressione, il modo di pensare e di agire di Francesco. I suoi scritti sono interamente intessuti di passi biblici. Attingendo alla Scrittura attraverso la mediazione delle letture liturgiche, Francesco cita 156 volte l’Antico Testamento e 280 il Nuovo. Non fa però riferimento a un testo (come un canonista), non si appella a una norma, ma si conforma a una persona, che in quel testo si rivela (ottima e ben più ampia è la trattazione del soggetto nel volume di Gilbert Dahan, Sophie Delmas, Marcel Durrer, San Francesco e la Bibbia. Letture medievali del testo sacro, Bologna, EDB, 2018 [Testi biblici, 12], pagine 192, euro 22,50; la traduzione dell’edizione francese, del 2014, è di Romeo Fabbri; si segnala, con meraviglia, l’errore che altera il cognome della Delmas, nel frontespizio e in copertina, in Delman; insomma una sorta di bibliografico Gronchi rosa…).

Poi, nel 1220, nell’Ordine entra un canonico portoghese, destinato a divenire celebre. Antonio porta con sé l’outillage mentale della sua formazione canonicale: non a caso i suoi sermoni sono imbastiti con quanto aveva preparato e raccolto nel periodo pre-francescano. Scrivendo, tra la fine del 1223 e gli inizi del 1224, ad Antonio, «mio vescovo», Francesco riconobbe la legittimità di un approccio «colto» alla Scrittura ma a patto che non estinguesse lo spirito di orazione e devozione ma anzi lo alimentasse. Da quel momento si assiste all’ingresso sempre più frequente nell’Ordine di «magistri», come Alessandro di Hales, che modificano l’assetto della «fraternitas» originaria anche nella lettura della Bibbia.

Con gli altri esegeti i francescani condividono modalità di insegnamento e metodi di lettura del testo. Come i domenicani, elaborano nel tempo particolari strumenti di lavoro (lessici, distinctiones, correctoria, cioè elenchi di correzioni al testo corrotto della Vulgata) e sul campo si distingue Guglielmo de la Mare, esperto di ebraico e di greco, il cui correctorium (1265 circa) venne ancora utilizzato alla fine del Cinquecento dalla commissione incaricata dell’edizione che sarà denominata «Sisto-Clementina». Ciò che però rende unica e caratteristica l’esegesi francescana è la ricorrenza di alcuni temi: la centralità di Cristo, i riferimenti a Francesco, l’insistenza sulla povertà e la sensibilità agli eventi della storia.

Il volume prende quindi in considerazione quattro figure di esegeti francescani, collocati nel primo secolo e mezzo di vita dell’Ordine: Antonio da Padova, che con i suoi Sermones dominicales et festivi (1227-1231) riconduce la novità dell’evangelismo francescano «entro le forme letterariamente codificate del genere omiletico» (Gian Luca Potestà); Bonaventura da Bagnoregio, il ministro generale «che ne’ grandi offici sempre» pospose «la sinistra cura», «al tempo stesso maestro e pensatore dotato di una profonda spiritualità», che «rappresenta la perfezione di un ideale»; Pietro di Giovanni Olivi, l’esponente più celebre e geniale dello «spiritualismo» francescano, esegeta appassionato e antiaristotelico convinto (pur conoscendo bene e utilizzando lo Stagirita), fautore di una teologia solidamente ancorata alla «sacra pagina» e mai disgiunta da essa; il normanno Niccolò di Lira, infine, autore di un fortunato commento alla Bibbia (Postillae perpetuae in universa Biblia) utilizzato ancora nel Seicento. Morto nel 1349, Niccolò è attento al testo ebraico e cita spesso le spiegazioni bibliche del rabbi Rashi di Troyes. Non si limita, come i suoi predecessori, a chiedere lumi a ebrei «istruiti nelle loro Scritture» ma impara e padroneggia personalmente la lingua, mostrando diretta familiarità col Talmud, il midrash e il targum.

Con questo sorprendente «ebraicizzante» del Trecento francescano, novello Girolamo col saio, si conclude la rassegna del volume che presenta testi poco conosciuti. Come il passo, tenerissimo e bello, in cui Olivi, nel commento alla Genesi, spiega il brano della denominazione degli animali da parte di Adamo (Genesi 2, 19). Il fatto che Dio si chieda come Adamo chiamerà gli animali non è incompatibile con l’onniscienza divina? «Ma Dio non lo sapeva già? È possibile che impari qualcosa dai nostri atti? Bisogna dire — spiega Olivi — che la Scrittura usa spesso questo modo di parlare. Infatti, essa parla di Dio alla maniera umana, come una madre che balbetta (balbutiens) con i suoi bimbi per insegnare loro progressivamente in questo modo a parlare». La Scrittura è dunque paragonata al linguaggio di una mamma che, per insegnare a parlare al suo bimbo, usa onomatopee e balbettii, si abbassa al livello del piccolo per innalzarlo al suo. È il tema della Scrittura come mezzo di progressiva rivelazione dell’immagine di Dio. Già presente nei testi rabbinici antichi e conosciuto dai Padri, il tema ha nell’immagine oliviana un’espressione particolarmente efficace.

Edizione online de L’Osservatore romano, 17 agosto 2018.

Gilbert Dahan Sophie Delmas – Marcel Durrer, San Francesco e la Bibbia. Letture medievali del testo sacro, Temi biblici 12, EDB, Bologna 2018, pp. 192, euro 22,50.

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